Compendio della poesia tragicomica  

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Compendium of Tragicomic Poetry (1599) by Giovanni Battista Guarini

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GIAMBATTISTA QUAR1NI


IL PASTOR FIDO

E

IL COMPENDIO

DELLA POESIA TRAGICOMICA

A CURA DI

GIOACHINO BROGNQLIGO


BARI

GIUS. LATERZA & FIGLI

TJPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI

1914









SCRITTORI D’ITALIA


G. B. GUARINI

IL PASTOR FIDO

E

IL COMPENDIO


DELLA POESIA TRAGICOMICA




GIAMBATTISTA GUARINI


IL PASTOR FIDO

E

IL COMPENDIO

DELLA POESIA TRAGICOMICA


A CURA DI

GIOACHINO BROGNOLIGO


BARI

GIUS. LATERZA & FIGLI

TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI


1914


PROPRIETÀ LETTERARIA


MARZO MCMXIV - 38138



IL PASTOR FIDO




ARGOMENTO


Sacrificavano gli arcadi a Diana, loro dea, ciascun anno una giovane del paese; cosi gran tempo avanti, per cessar assai più gravi pericoli, dall’oracolo consigliati, il quale indi a non molto, ricercato del fine di tanto male, aveva loro in questa guisa risposto:

Non avrà prima fin quel che v’offende, che duo semi del ciel congiunga Amore; e di donna infedel l’antico errore l’alta pietà d’un pastor fido ammende.

Mosso da questo vaticinio, Montano, sacerdote della medesima dea, si come quegli che l’origine sua ad Ercole riferiva, procurò che fosse a Silvio, unico suo figliuolo, si come solennemente fu, in matrimonio promessa Amarilli, nobilissima ninfa e figlia altresi unica di Titiro, discendente da Pane: le quali nozze, tutto che instanteinente i padri loro sollecitassero, non si recavano però al fine desiderato; con ciò fosse cosa che il giovinetto, il quale niuna maggior vaghezza aveva che della caccia, dai pensieri amo¬ rosi lontanissimo si vivesse. Era intanto della promessa Amarilli fieramente acceso un pastore nominato Mirtillo, figliuolo, come egli si credea, di Carino, pastore nato in Arcadia, ma che da lungo tempo nel paese di Elide dimorava; ed ella amava altresi lui, ma non ardiva di discovrirglielo per timor della legge, che con pena di morte la femminile infedeltà severamente puniva. La qual cosa prestando a Corisca molto comoda occasione di nuocer alla don¬ zella, odiata da lei per amor di Mirtillo, di cui essa capricciosa¬ mente s’era invaghita, sperando, per la morte della rivale, di vincer più agevolmente la costantissima fede di quel pastore, in guisa adopra con sue menzogne ed inganni, che i miseri amanti incau¬ tamente e con intenzione da quella, che vien loro imputata, molto


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IL PASTOk FIDO


diversa, si conducono dentro ad una spelonca, dove, accusati da un satiro, ambeduo sono presi, ed Amarilli, non potendo giusti¬ ficare la sua innocenza, alla morte vien condennata. La quale an¬ cora che Mirtillo non dubiti lei troppo bene aver meritata ed egli, per la legge che la sola donna gastiga, sappia di poterne andar assoluto, delibera nondimeno di voler morire per lei, si come di poter fare dalla medesima legge gli è conceduto. Sendo egli dun¬ que da Montano, a cui per essere sacerdote questa cura s’ap- partenea, condotto alla morte, sopraggiunto in questo Carino, che veniva di lui cercando, e vedutolo in atto agli occhi suoi non meno miserabile che improviso, si come quegli che niente meno l’amava che se figliuolo per natura stato gli fosse, mentre si sforza, per camparlo da morte, di provare con sue ragioni ch’egli sia fo¬ restiero e perciò incapace a poter esser vittima per altrui, viene, non accorgendosene egli stesso, a scoprire che ’l suo Mirtillo è figliuolo del sacerdote Montano. Il quale suo vero padre, ramma¬ ricandosi di dover esser ministro della legge nel proprio sangue, da Tirenio, cieco indovino, vien fatto chiaro colla interpretazione dell’oracolo stesso non solo repugnare alla volontà degli iddìi che quella vittima si consagri, ma essere eziandio delle miserie d’Arcadia quel fin venuto, che fu loro dalla divina voce predetto. Colla quale mentre tutto il successo vanno accordando, conchiu¬ dono che Amarilli d’altrui non possa né debba essere sposa, che di Mirtillo. E perché poco innanzi Silvio, credendosi di saettare una fèra, avea piagata Dorinda, miseramente accesa di lui, e per cotale accidente la solita sua durezza in amorosa pietà cangiata, poiché già era la piaga di quella ninfa, che fu creduta mortale, ridotta a termine di salute, ed era di Mirtillo divenuta sposa Ama¬ rilli, anch’esso, già fatto amante, sposa Dorinda. Per cagione de’ quali oltre ad ogni loro credenza felicissimi avvenimenti ravvedu¬ tasi al fin Corisca, dopo l’aver trovato dagli amanti sposi perdono, tutta racconsolata, ancor che sazia del mondo, si dispone di can¬ giar vita.


PERSONAGGI


Alfeo, fiume d’Arcadia.

Silvio, figlio di Montano.

Linco, vecchio, servo di Montano. Mirtillo, amante di Amarilli.

Ergasto, compagno di Mirtillo.

Corisca, innamorata di Mirtillo.

Montano, padre di Silvio, sacerdote. Titiro, padre d’Amarilli.

Dameta, vecchio, servo di Montano. Satiro, vecchio, amante già di Corisca. Dorinda, innamorata di Silvio.

Lupino, capraio, servo di Dorinda. Amarilli, figlia di Titiro.

Nicandro, ministro maggiore del sacerdote. Coridone, amante di Corisca.

Carino, vecchio, padre putativo di Mirtillo. Uranio, vecchio, compagno di Carino. Messo.

Tirenio, cieco, indovino.

Coro di pastori.

Coro di cacciatori.

Coro di ninfe.

Coro di sacerdoti.


La scena è in Arcadia.




PROLOGO


Alfeo, fiume d’Arcadia.


Se per antica, e forse da voi negletta e non creduta fama, avete mai d'innamorato fiume le maraviglie udite,

che, per seguir l’onda fugace e schiva de l’amata Aretusa,

corse (oh forza d’Amor!), le più profonde

viscere de la terra

e del mar penetrando,

là dove sotto alla gran mole etnea,

non so se fulminato o fulminante,

vibra il fiero gigante

contra ’l nemico ciel fiamme di sdegno,

quel son io: già l’udiste, or ne vedete

prova tal, ch’a voi stessi

fede negar non lice.

Ecco, lasciando il corso antico e noto, per incognito mar l’onda incontrando del re de’ fiumi altèro, qui sorgo, e lieto a riveder ne vegno qual esser già solea libera e bella, or desolata e serva,


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IL PASTOR FIDO


quell’antica mia terra ond’io derivo.

O cara genitrice! o dal tuo figlio riconosciuta Arcadia!

Riconosci il tuo caro e già non men di te famoso Alfeo.

Queste son le contrade

si chiare un tempo, e queste son le selve

ove ’l prisco valor visse e mono.

In questo angolo sol del ferreo mondo cred’io che ricovrasse il secol d’oro quando fuggia le scelerate genti.

Qui non veduta altrove libertà moderata e senza invidia fiorir si vide in dolce sicurezza non custodita e ’n disarmata pace.

Cingea popolo inerme

un muro d’innocenza e di virtute,

assai più impenetrabile di quello

che d’animati sassi

canoro fabro a la gran Tebe eresse.

E, quando più di guerre e di tumulti

arse la Grecia e gli altri suoi guerrieri

popoli armò l’Arcadia,

a questa sola fortunata parte,

a questo sacro asilo

strepito mai non giunse né d’amica

né di nemica tromba.

E sperò tanto sol Tebe e Corinto

e Micene e Megara e Patra e Sparta

di trionfar del suo nemico, quanto

l’ebbe cara e guardolla

questa amica del ciel devota gente,

di cui fortunatissimo riparo

fùr esse in terra, ella di lor nel cielo,

pugnando altri con l’armi, ella co’ prieghi.

E, benché qui ciascuno


PROLOGO


abito e nome pastorale avesse,

non fu però ciascuno

né di pensier né di costumi rozzo,

però ch’altri fu vago

di spiar tra le stelle e gli elementi

di natura e del ciel gli alti segreti;

altri di seguir Torme

di fuggitiva fèra;

altri con maggior gloria

d’atterrar orso o d’assalir cignale.

Questi rapido al corso, e quegli al duro cesto fiero mostrossi ed a la lotta invitto; chi lanciò dardo e chi feri di strale il destinato segno;

chi d’altra cosa ebbe vaghezza, come ciascun suo piacer segue.

La maggior parte amica

fu de le sacre muse, amore e studio

beato un tempo, or infelice e vile.

Ma chi mi fa veder dopo tant’anni

qui trasportata, dove

scende la Dora in Po, Tarcada terra?

Questa la chiostra è pur, questo quel antro

dell’antica Ericina;

e quel, che colà sorge, è pur il tempio a la gran Cintia sacro. Or qual m’appare miracolo stupendo?

Che insolito valor, che virtù nova vegg’io di traspiantar popoli e terre?

O fanciulla reale,

d’età fanciulla e di saver già donna,

virtù del vostro aspetto,

valor del vostro sangue,

gran Caterina, or me n’avveggio, è questa

di quel sublime e glorioso sangue


IL PASTOR FIDO


a la cui monarchia nascono i mondi; questi si grandi effetti, che sembran meraviglie, opre son vostre usate, opre natie.

Come a quel sol, che d’oriente sorge, tante cose leggiadre

produce il mondo, erbe, fior, frondi e tante in cielo, in terra, in mare alme viventi, cosi al vostro possente, altèro sole, ch’usci dal grande e per voi chiaro occaso, si veggon d’ogni clima nascer province e regni, e crescer palme e pullular trofei.

A voi dunque m’inchino, altèra figlia

di quel monarca, a cui

né anco quando annotta il sol tramonta,

sposa di quel gran duce,

al cui senno, al cui petto, a la cui destra

commise il ciel la cura

de l’italiche mura.

Ma non bisogna più d’alpestre rupi

schermo o d'orride balze:

stia pur la bella Italia

per voi sicura, e suo riparo, in vece

de le grand’Alpi, una grand’alma or sia.

Quel suo tanto di guerra

propugnacolo invitto

è per voi fatto a le nemiche genti

quasi tempio di pace,

ove novella deità s’adori.

Vivete pur, vivete

lungamente concordi, anime grandi,

ché da si glorioso e santo nodo

spera gran cose il mondo,

ed ha ben anco ove fondar sua speme,

se mira in Oriente


PROLOGO


11


con tanti scettri il suo perduto impero, campo sol di voi degno, o magnanimo Carlo, e dai vestigi dei grand’avoli vostri ancora impresso. Augusta è questa terra, augusti i vostri nomi, augusto il sangue; i sembianti, i pensier, gli animi augusti: saran ben anco augusti i parti e l’opre.

Ma voi, mentre v’annunzio

corone d’oro, e le prepara il Fato,

non isdegnate queste,

nelle piagge di Pindo

d’erbe e di fior conteste

per man di quelle vergini canore,

che, mal grado di Morte, altrui dàn vita,

picciole offerte si, ma però tali,

che, se con puro affetto il cor le dona,

anco il ciel non le sdegna; e, se dal vostro

serenissimo ciel d'aura cortese

qualche spirto non manca,

la cetra, che per voi

vezzosamente or canta

teneri amori e placidi imenei,

sonerà, fatta tromba, arme e trofei.



ATTO PRIMO


SCENA PRIMA Silvio, Linco.


Silvio. Ite, voi che chiudeste

l’orribil fèra, a dar l’usato segno

de la futura caccia; ite svegliando

gli occhi col corno e con la voce i còri.

Se fu mai ne l’Arcadia

pastor, di Cintia e de’ suoi studi amico,

cui stimolasse il generoso petto

cura o gloria di selve,

oggi il mostri, e me segua

là dove in picciol giro,

ma largo campo al valor nostro, è chiuso

quel terribil cinghiale,

quel mostro di natura e de le selve,

quel si vasto e si fèro

e per le piaghe altrui

si noto abitator de l’Erimanto,

strage de le campagne

e terror dei bifolchi. Ite voi dunque,

e non sol precorrete,

ma provocate ancora

col rauco suon la sonnacchiosa Aurora.

Noi, Linco, andiamo a venerar gli dèi.


14


IL PASTOR FIDO


Linco.


Silvio.

Linco.


Silvio.


Linco.

Silvio.


Linco.


Silvio.


Con più sicura scorta seguirem poi la destinata caccia.

Chi ben comincia, ha la metà de l’opra, né si comincia ben se non dal cielo.

Lodo ben, Silvio, il venerar gli dèi,

ma il dar noia a coloro,

che son ministri degli dèi, non lodo.

Tutti dormono ancora i custodi del tempio, i quai non hanno più tempestivo o lucido orizzonte de la cima del monte.

A te, che forse non se’ desto ancora, par ch’ogni cosa addormentata sia.

O Silvio, Silvio! a che ti dié natura

ne’ più begli anni tuoi

fior di beltà si delicato e vago,

se tu se’ tanto a calpestarlo intento?

Ché s’avess’io cotesta tua si bella e si fiorita guancia,

— Addio, selve! — direi; e seguendo altre fère e la vita passando in festa e ’n gioco, farei la state a l’ombra e ’l verno al foco. Cosi fatti consigli

non mi desti mai più: come se’ ora tanto da te diverso?

Altri tempi, altre cure.

Cosi certo farei, se Silvio fussi.

Ed io, se fussi Linco.

Ma, perché Silvio sono,

oprar da Silvio e non da Linco i’ voglio.

O garzon folle, a che cercar lontana

e perigliosa fèra,

se l’hai via più d’ogni altra

e vicina e domestica e sicura?

Parli tu daddovero o pur vaneggi?


ATTO PRIMO


15


Linco.

Silvio.

Linco.

Silvio.

Linco.


Silvio.

Linco.


Silvio.


Linco.

Silvio.

Linco.


Vaneggi tu, non io.

Ed è cosi vicina?

Quanto tu di te stesso.

In qual selva s’annida?

La selva se’ tu, Silvio, e la fèra crudel, che vi s’annida, è la tua feritate.

Come ben m’awisai che vaneggiavi!

Una ninfa si bella e si gentile, ma che dissi una ninfa? anzi una dea, più fresca e più vezzosa di mattutina rosa,

e più molle e più candida del cigno,

per cui non è si degno

pastor oggi tra noi che non sospiri,

e non sospiri in vano,

a te solo dagli uomini e dal cielo

destinata si serba;

ed oggi tu, senza sospiri e pianti,

o troppo indegnamente

garzon avventuroso ! aver la puoi

ne le tue braccia, e tu la fuggi, Silvio?

e tu la sprezzi? e non dirò che ’1 core

abbi di fèra, anzi di ferro il petto?

Se ’1 non aver amore è crudeltate, crudeltate è virtute, e non mi pento ch’ella sia nel mio cor, ma me ne pregio, poi che solo con questa ho vinto Amore, fèra di lei maggiore.

E come vinto l’hai se noi provasti mai?

Noi provando l’ho vinto.

Oh ! s’una sola volta il provassi, o Silvio, se sapessi una volta qual è grazia e ventura


IL PASTOR FIDO


16


Tesser amato, il possedere amando un riamante core, so ben io che diresti!

— Dolce vita amorosa,

perché si tardi nel mio cor venisti? —

Lascia, lascia le selve,

folle garzon ; lascia le fère, ed ama.

Silvio. Lineo, di’ pur, se sai :

mille ninfe darei per una fèra che da Melampo mia cacciata fosse.

Godasi queste gioie

chi n’ha di me più gusto; io non le sento. Linco. E che sentirai tu, s’amor non senti,

sola cagion di ciò che sente il mondo?

Ma credimi, fanciullo: a tempo il sentirai, che tempo non avrai.

Vuol una volta Amor ne’ còri nostri mostrar quant’egli vale.

Credi a me pur, che ’l provo: non è pena maggiore,

che ’n vecchie membra il pizzicor d’amore, ché mal si può sanar quel che s’offende, quanto più di sanarlo altri procura.

Se ’l giovinetto core Amor ti pugne,

Amor anco te l’ugne:

se col duol il tormenta,

con la speme il consola ;

e s’un tempo rancide, alfine il sana.

Ma s'e’ ti giugne in quella fredda etade,

ove il proprio difetto

più che la colpa altrui spesso si piagne,

allora insopportabili e mortali

son le sue piaghe, allor le pene acerbe;

allora, se pietà tu cerchi, male

se non la trovi; e, se la trovi, peggio.


ATTO PRIMO


17


Deh ! non ti procacciar prima del tempo

i difetti del tempo;

ché, se t’assale a la canuta etate

amoroso talento,

avrai doppio tormento,

e di quel che, potendo, non volesti,

e di quel che, volendo, non potrai.

Lascia, lascia le selve,

folle garzon ; lascia le fère, ed ama.

Silvio. Come vita non sia

se non quella che nutre amorosa insanabile follia !

Linco. Dimmi: se’n questa si ridente e vaga

stagion che ’nfiora e rinnovella il mondo, vedessi, in vece di fiorite piagge, di verdi prati e di vestite selve, starsi il pino e l’abete e il faggio e l’orno senza l’usata lor frondosa chioma, senz’erbe i prati e senza fiori i poggi, non diresti tu, Silvio: — Il mondo langue, la natura vien meno? — Or quell’orrore e quella maraviglia, che devresti di novità si mostruosa avere, abbila di te stesso. Il ciel n’ha dato vita agli anni conforme, ed a l’etate somiglianti costumi ; e, come Amore in canuti pensier si disconvene, cosi la gioventù d’amor nemica contrasta al cielo e la natura offende.

Mira d’intorno, Silvio: quanto il mondo ha di vago e di gentile, opra è d’Amore. Amante è il cielo, amante la terra, amante il mare.

Quella, che là su miri innanzi a l’alba

cosi leggiadra stella,

ama d’amor anch’ella e del suo figlio


G. B. Guarini.


2


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IL PASTOR FIDO


sente le fiamme, ed essa, che ’nnamora, innamorata splende.

E questa è forse l'ora

che le furtive sue dolcezze e ’1 seno

del caro amante lassa.

Vedila pur come sfavilla e ride.

Amano per le selve

le mostruose fère; aman per Tonde

i veloci delfini e Torcile gravi.

Quell’augellin, che canta si dolcemente e lascivetto vola or da l’abete al faggio ed or dal faggio al mirto, s’avesse umano spirto,

direbbe: — Ardo d’amore, ardo d’amore. — Ma ben arde nel core e parla in sua favella, si che l’intende il suo dolce desio.

Ed odi a punto, Silvio, il suo dolce desio

che gli risponde: — Ardo d’amore anch’io. — Mugge in mandra l’armento, e que’ muggiti sono amorosi inviti.

Rugge il leone al bosco, né quel ruggito è d’ira: cosi d’amor sospira.

Alfine, ama ogni cosa, se non tu, Silvio; e sarà Silvio solo in cielo, in terra, in mare anima senza amore?

Deh ! lascia ornai le selve,

folle garzon; lascia le fère, ed ama.

Silvio. A te dunque commessa

fu la mia verde età, perché d'amori e di pensieri effeminati e molli tu l’avessi a nudrir? né ti sovviene chi se’ tu, chi son io?


VTTO PRIMO


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Linco. Uomo sono, e mi pregio

d’esser umano; e teco, che se’ uomo, o che più tosto esser dovresti, parlo di cosa umana; e, se di cotal nome forse ti sdegni, guarda che nel disumanarti

non divenghi una fèra, anzi che un dio.

Silvio. Né si famoso mai né mai si forte stato sarebbe il domator de’ mostri, dal cui gran fonte il sangue mio deriva, s’e’ non avesse pria domato Amore.

Linco. Vedi, cieco fanciul, come vaneggi!

Dove saresti tu, dimmi, s’amante stato non fosse il tuo famoso Alcide?

Anzi, se guerre vinse e mostri ancise, gran parte Amor ve n’ebbe. Ancor non sai che, per piacer ad Onfale, non pure volle cangiar in femminili spoglie del feroce leon l’ispido tergo, ma, de la clava noderosa in vece, trattare il fuso e la conocchia imbelle?

Cosi de le fatiche e degli affanni prendea ristoro, e nel bel sen di lei, quasi in porto d’Amor, solea ritrarsi, ché sono i suoi sospir dolci respiri de le passate noie e quasi acuti stimoli al cor ne le future imprese.

E come il rozzo ed intrattabil ferro, temprato con più tenero metallo, affina si, che sempre e più resiste e per uso più nobile s’adopra; cosi vigor indomito e feroce, che nel proprio furor spesso si rompe, se con le sue dolcezze Amor il tempra, diviene a l’opra generoso e forte.

Se d’esser dunque imitator tu brami


Silvio.

Linco.

Silvio.

Linco.

Silvio.

Linco.


il PASTOR fido

d’Èrcole invitto e suo degno nipote, poi che lasciar non vuoi le selve, almeno segui le selve e non asciar Amore, un amor si legittimo e si degno, com’è quel d’Amarilli. Che se fuggi Dorinda, i’ te ne scuso, anzi pur lodo, ch’a te, vago d’onore, aver non lice di furtivo desio l’animo caldo, per non far torto a la tua cara sposa.

Che di’ tu, Linco? ancor non è mia sposa.

Da lei dunque la fede

non ricevesti tu solennemente?

Guarda, garzon superbo, non irritar gli dèi.

L’umana libertate è don del cielo, che non fa forza a chi riceve forza.

Anzi, se tu l’ascolti e ben l’intendi, a questo il ciel ti chiama, il ciel ch’a le tue nozze tante grazie promette e tanti onori.

Altro pensiero appunto i sommi dèi non hanno ! appunto questa l’almo riposo lor cura molesta!

Linco, né questo amor né quel mi piace. Cacciator, non amante, al mondo nacqui. Tu, che seguisti Amor, torna al riposo.

Tu derivi dal cielo,

crudo garzon? Né di celeste seme

ti cred’io, né d’umano;

e, se pur se’ d’umano, io giurerei

che tu fussi più tosto

col velen di Tisifone e d’Aletto

che col piacer di Venere concetto.


ATTO PRIMO


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SCENA SECONDA Mirtillo, Ergasto.

Mirtillo. Cruda Amarilli, che col nome ancora, d’amar, ahi lasso! amaramente insegni; Amarilli, del candido ligustro più candida e più bella, ma de l’àspido sordo e più sorda e più fèra e più fugace; poi che col dir t’offendo, i’ mi morrò tacendo;

ma grideran per me le piagge e i monti e questa selva, a cui si spesso il tuo bel nome di risonare insegno.

Per me piagnendo i fonti

. e mormorando i venti,

diranno i miei lamenti; parlerà nel mio volto la pietate e ’l dolore; e, se fia muta ogn’altra cosa, al fine parlerà il mio morire, e ti dirà la Morte il mio martire.

Ergasto. Mirtillo, Amor fu sempre un fier tormento, ma più, quanto è più chiuso; però ch’egli dal freno, ond’è legata un’amorosa lingua, forza prende e s’avanza; e più fiero è prigion, che non è sciolto. Già non dovevi tu si lungamente celarmi la cagion de la tua fiamma, se la fiamma celar non mi potevi.

Quante volte l’ho detto: — Arde Mirtillo, ma in chiuso foco e’ si consuma e tace. —


22


IL PASTOR FIDO


Mirtillo. Offesi me per non offender lei,

cortese Ergasto, e sarei muto ancora ; ma la necessità m’ha fatto ardito.

Odo una voce mormorar d’intorno, che per l’orecchie mi ferisce il core, de le vicine nozze d’Amarilli.

Ma chi ne parla, ogni altra cosa tace, ed io più innanzi ricercar non oso, si per non dar altrui di me sospetto, come per non trovar quel che pavento.

So ben, Ergasto, e non m’inganna Amore, ch’a la mia bassa e povera fortuna sperar non lice in alcun tempo mai che ninfa si leggiadra e si gentile, e di sangue e di spirto e di sembiante veramente divina, a me sia sposa.

Ben conosco il tenor de la mia stella; nacqui solo a le fiamme, e ’1 mio destino d’arder mi feo, non di gioirne, degno.

Ma, poi ch’era ne’fati ch’io dovessi amar la morte e non la vita mia, vorrei morir almen, si che la morte da lei, che n’è cagion, gradita fosse, né si sdegnasse a l’ultimo sospiro di mostrarmi i begli occhi e dirmi : — Muori ! Vorrei, prima che passi a far beato de le sue nozze altrui, ch’ella m’udisse almen sola una volta. Or, se tu m’ami ed hai di me pietate, in ciò t’adopra, cortesissimo Ergasto, in ciò m’aita.

Ergasto. Giusto desio d'amame e di chi muore lieve mercé, ma faticosa impresa.

Misera lei, se risapesse il padre, ch’ellg a prieghi furtivi avesse mai inchinate l’orecchie, o pur ne fosse al sacerdote suocero accusata!


ATTO PRIMO


23


Per questo forse ella ti fugge, e forse t’ama, ancor che noi mostri, ché la donna nel desiar è ben di noi più frale, ma nel celar il suo desio più scaltra.

E, se fosse pur ver ch’ella t’amasse, che potrebbe altro far se non fuggirti?

Chi non può dar aita, indarno ascolta, e fugge con pietà chi non s’arresta senz’altrui pena; ed è sano consiglio tosto lasciar quel che tener non puoi.

Mirtillo. Oh, se ciò fosse vero, o s’io’l credessi, care mie pene e fortunati affanni!

Ma, se ti guardi il ciel, cortese Ergasto, non mi tacer qual è il pastor tra noi felice tanto e de le stelle amico.

Ergasto. Non conosci tu Silvio, unico figlio di Montan, sacerdote di Diana, si famoso pastore oggi e si ricco? quel garzon si leggiadro? Quegli è desso.

Mirtillo. Fortunato fanciul, che’l tuo destino trovi maturo in cosi acerba etate!

Né te l’invidio, no; ma piango il mio.

Ergasto. E veramente invidiar noi dèi,

ché degno è di pietà più che d’invidia.

Mirtillo. E perché di pietà?

Ergasto. Perché non l’ama.

Mirtillo. Ed è vivo? ed ha core? e non è cieco? Benché, se dritto miro, a lei per altro core

non restò fiamma più, quando nel mio

spirò da que’ begli occhi

tutte le fiamme sue, tutti gli amori.

Ma perché dar si preziosa gioia a chi non la conosce? a chi la sprezza?

Ergasto. Perché promette a queste nozze il cielo la salute d’Arcadia. Non sai dunque


24


IL PASTOR FIDO


che qui si paga ogn’anno a la gran dea de l’innocente sangue d’una ninfa tributo miserabile e mortale?

Mirtillo. Unqua più non l’udii: e ciò m’è nuovo, ché nuovo ancora abitator qui sono e, come vuol Amore e ’l mio destino, quasi pur sempre abitator de’ boschi.

Ma qual peccato il meritò si grave?

Come tant’ira un cor celeste accoglie?

Ergasto. Ti narrerò de le miserie nostre tutta da capo la dolente istoria, che trar porria da queste dure querci pianto e pietà, non che dai petti umani.

In quella età che ’l sacerdozio santo e la cura del tempio ancor non era a sacerdote giovane contesa, un nobile pastor chiamato Aminta, sacerdote in quel tempo, amò Lucrina, ninfa leggiadra a maraviglia e bella, ma senza fede a maraviglia e vana.

Gradi costei gran tempo, o ’l mostrò forse con simulati e perfidi sembianti, del giovane amoroso il puro affetto e di false speranze anco nudrillo, misero! mentre alcun rivai non ebbe.

Ma, non si tosto (or vedi instabil donna!) rustico pastorei l’ebbe guatata, che i primi sguardi non sostenne, i primi sospiri, e tutta al nuovo amor si diede, prima che gelosia sentisse Aminta.

Misero Aminta, che da lei fu poscia e sprezzato e fuggito si, ch’udirlo né vederlo mai più l’empia non volle.

Se piagnesse il meschin, se sospirasse, pensai tu, che per prova intendi amore.

Mirtillo. Oimè, questo è’l dolor ch’ogn’altro avanza.


ATTO PRIMO


2=)


Ergasto. Ma, poi che dietro al cor perduto, ebbe anco i sospiri perduti e le querele, vólto, pregando, a la gran dea: —Se mai — disse — con puro cor, Cintia, se mai con innocente man fiamma t’accesi, vendica tu la mia, sotto la fede di bella ninfa e perfida tradita. —

Udì del fido amante e del suo caro sacerdote Diana i prieghi e ’l pianto, tal che, ne la pietà l’ira spirando, fe’ lo sdegno più fiero; ond’ella prese l’arco possente e saettò nel seno de la misera Arcadia non veduti strali ed inevitabili di morte.

Perian senza pietà, senza soccorso d'ogni sesso le genti e d’ogni etate; vani erano i rimedi, il fuggir tardo; inutil l’arte, e, prima che l’infermo, spesso ne l’opra il medico cadea.

Restò solo una speme, in tanti mali, del soccorso del cielo, e s’ebbe tosto al più vicino oracolo ricorso, da cui venne risposta assai ben chiara, ma sopramodo orribile e funesta:

« Che Cintia era sdegnata e che placarla si sarebbe potuto, se Lucrina, perfida ninfa, o vero altri per lei di nostra gente, a la gran dea si fosse per man d’Aminta in sacrificio offerta».

La qual, poi ch’ebbe indarno pianto e ’ndarno

dal suo nuovo amator soccorso atteso,

fu con pompa solenne al sacro altare

vittima lagrimevole condotta,

dove, a que’ piè che la seguirò in vano

già tanto, ai piè de l’amator tradito

le tremanti ginocchia alfin piegando,



IL PASTOR FIDO


dal giovane crudel morte attendea.

Strinse intrepido Aminta il sacro ferro e parea ben che da l’accesa labbia spirasse ira e vendetta. Indi, a lei vólto, disse con un sospir, nunzio di morte:

— Da la miseria tua, Lucrina, mira qual amante seguisti e qual lasciasti, mirai da questo colpo. — E, cosi detto, feri se stesso e nel sen proprio immerse tutto ’l ferro, ed esangue in braccio a lei, vittima e sacerdote in un, cadeo.

A si fero spettacolo e si nuovo instupidi la misera donzella tra viva e morta, e non ben certa ancora d’esser dal ferro o dal dolor trafitta.

Ma, come prima ebbe la voce e ’1 senso, disse piagnendo: — O fido, o forte Aminta, o troppo tardi conosciuto amante, che m’hai data, morendo, e vita e morte, se fu colpa il lasciarti, ecco rammendo con l’unir teco eternamente l’alma. —

E, questo detto, il ferro stesso, ancora del caro sangue tiepido e vermiglio, tratto dal morto e tardi amato petto, il suo petto trafisse e sopra Aminta, che morto ancor non era e senti forse quel colpo, in braccio si lasciò cadere.

Tal fine ebber gli amanti ; a tal miseria troppo amor e perfidia ambidue trasse.

Mirtillo. O misero pastor, ma fortunato,

ch’ebbe si largo e si famoso campo di mostrar la sua lede e di far viva pietà ne l’altrui cor con la sua morte!

Ma che segui de la cadente turba? trovò fine il suo mal? placossi Cintia?

Ergasto. L’ira s’intiepidi, ma non s’estinse,


ATTO PRIMO


ché, dopo l’anno, in quel medesrao tempo, con ricaduta più spietata e fiera incrudeli lo sdegno, onde, di nuovo per consiglio a l’oracolo tornando, si riportò de la primiera assai più dura e lagrimevole risposta :

« Che si sacrasse allora e poscia ogn’anno

vergine o donna a la sdegnata dea,

che ’l terzo lustro empiesse ed oltre al quarto

non s’avanzasse; e cosi d’una il sangue

l’ira spegnesse apparecchiata a molti ».

Impose ancora a l’infelice sesso

una molto severa e, se ben miri

la sua natura, inosservabil legge,

legge scritta col sangue : «. Che qualunque

donna o donzella abbia la fé d’amore,

come che sia, contaminata o rotta,

s’altri per lei non muore, a morte sia

irremissibilmente condannata ».

A questa, dunque, si tremenda e grave nostra calamità spera il buon padre di trovar fin con le bramate nozze.

Però che dopo alquanto tempo, essendo ricercato l’oracolo qual fine prescritto avesse a’ nostri danni il cielo; ciò ne predisse in cotai voci appunto:

« Non avrà prima fin quel che v’offende, che duo semi del ciel congiunga Amore; e di donna infedel l’antico errore l'alta pietà d’un pastor fido ammende ».

Or ne l’Arcadia tutta altri rampolli di celesti radici oggi non sono, che Silvio ed Amarillide, ché l’una vien del seme di Pan, l’altro d’Alcide; né per nostra sciagura in altro tempo s’incontraron già mai femmina e maschio,


28


IL PASTOR FIDO


com’or, de le due schiatte; e però quinci di sperar bene ha gran ragion Montano.

E, benché tutto quel che ci promette la risposta fatale, ancor non segua, pur questo è ’l fondamento. Il resto poi ha negli abissi suoi nascosto il Fato, e sarà parto un di di queste nozze.

Mirtillo. Oh sfortunato e misero Mirtillo! tanti fieri nemici, tant’armi e tanta guerra contra un cor moribondo?

Non bastava Amor solo,

se non s’armava a le mie pene il Fato?

Ergasto. Mirtillo, il crudo Amore

si pasce ben, ma non si sazia mai, di lagrime e dolore.

Andiamo. I’ ti prometto di porre ogni mio ingegno perché la bella, ninfa oggi t’ascolti; tu dàtti pace intanto.

Non son, come a te pare,

questi sospiri ardenti

refrigerio del core;

ma son più tosto impetuosi venti

che spiran ne l’incendio e ’l fan maggiore

con turbini d’Amore,

ch’apportan sempre ai miserelli amanti

foschi nembi di duol, piogge di pianti.


SCENA TERZA

CORISCA.

Chi vide mai, chi mai udì più strana e più folle e più fèra e più importuna passione amorosa? amore e odio


ATTO PRIMO


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con si mirabil tempre in un cor misti, che l’un per l’altro, e non so ben dir come, e si strugge e s’avanza e nasce e muore.

S’i’ miro a le bellezze di Mirtillo, dal piè leggiadro al grazioso volto, il vago portamento, il bel sembiante, gli atti, i costumi e le parole e ’l guardo; m’assale Amor con si possente foco, eh’i’ardo tutta, e par ch’ogn’altro affetto da questo sol sia superato e vinto.

Ma, se poi penso a l’ostinato amore ch’ei porta ad altra donna, e che per lei di me non cura, e sprezza, il vo’ pur dire, la mia famosa e da mill’alme e mille inchinata beltà, bramata grazia, l’odio cosi, cosi l'abborro e schivo, eh’ impossibil mi par ch’unqua per lui mi s’accendesse al cor fiamma amorosa.

Talor meco ragiono:—Oh, s’i’potessi gioir del mio dolcissimo Mirtillo, si che fosse mio tutto, e eh'altra mai noi potesse godere, oh più d’ogn’altra, beata e felicissima Corisca! —

Ed in quel punto in me sorge un talento verso di lui si dolce e si gentile, che di seguirlo e di pregarlo ancora e di scoprirgli il cor prendo consiglio.

Che più? Cosi mi stimola il desio, che, se potessi, allor l'adorerei.

Da l’altra parte, i’ mi risento e dico:

— Un ritroso? uno schifo? un che non degna? un che può d’altra donna essere amante? un ch’ardisce mirarmi e non m’adora? e dal mio volto si difende in guisa che per amor non more? Ed io, che lui devrei veder come molti altri i’ veggio,


IL PASTOR FIDO


supplice e lacrimoso ai piedi miei; supplice e lagrimosa a’ piedi suoi sosterrò di cadere? Ah, non fia mai! — Ed in questo pensier tant’ira accoglio contra di lui, contra di me che volsi a seguirlo il pensier, gli occhi a mirarlo, che ’1 nome di Mirtillo e l’amor mio odio più che la morte, e lui vorrei vedere il più dolente, il più infelice pastor che viva; e, se potessi, allora con le mie proprie man l’anciderei.

Cosi sdegno e desire, odio ed amore mi fanno guerra, ed io, che stata sono sempre fin qui di mille cor la fiamma, di miU’alme il tormento, ardo e languisco, e provo nel mio mal le pene altrui; io che tant’anni in cittadina schiera di vezzosi, leggiadri e degni amanti fui sempre insuperabile, schernendo tante speranze lor, tanti desiri, or da rustico amor, da vile amante, da rozzo pastorei son presa e vinta.

Oh più d’ogn’altra misera Corisca, che sarebbe di te, se sprovveduta ti trovassi or d’amante? che faresti per mitigar quest’amorosa rabbia?

Impari a le mie spese oggi ogni donna a far conserva e cumulo d’amanti.

S’altro ben non avessi, altro trastullo che l’amor di Mirtillo, non sarei ben fornita di vago? Oh mille volte malconsigliata donna, che si lascia ridurre in povertà d’un solo amore!

Si sciocca mai non sarà già Corisca.

Che fede? che costanza? imaginate favole de’ gelosi e nomi vani


ATTO PRIMO


per ingannar le semplici fanciulle.

La fede in cor di donna, se pur fede in donna alcuna, ch’io noi so, si trova, non è bontà, non è virtù, ma dura necessità d’Amor, misera legge di fallita beltà, ch’un sol gradisce, perché gradita esser non può da molti.

Bella donna e gentil, sollecitata da numeroso stuol di degni amanti, se d'un solo c contenta e gli altri sprezza, o non è donna o, s’è pur donna, è sciocca. Che vai beltà non vista? o, se pur vista, non vagheggiata? e, se pur vagheggiata, vagheggiata da un solo? E quanto sono più frequenti gli amanti e di più pregi, tanto ella d’esser gloriosa e rara pegno nel mondo ha più sicuro e certo.

La gloria e lo splendor di bella donna è l’aver molti amanti. Cosi fanno ne le cittadi ancor le donne accorte, e ’l fan più le più belle e le più grandi. Rifiutare un amante, appresso loro, è peccato e sciocchezza, e quel, ch’un solo far non può, molti fanno: altri a servire, altri a donare, altri ad altr’uso è buono; e spesso avvien che, noi sapendo, l'uno scaccia la gelosia che l’altro diede, o la risveglia in tal che pria non l’ebbe. Cosi ne le città vivon le donne amorose e gentili, ov’io col senno e con l’esempio già di donna grande l’arte di ben amar, fanciulla, appresi.

— Corisca — mi dicea — si vuole appunto far degli amanti quel che delle vesti: molti averne, un goderne, e cangiar spesso, ché ’l lungo conversar genera noia,


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IL PASTOR FIDO


e la noia disprezzo ed odio alfine.

Né far peggio può donna, che lasciarsi svogliar l’amante: fa’ pur ch’egli parta fastidito da te, non di te mai. —

E cosi sempre ho fatto. Amo d’averne gran copia, e li trattengo, ed honne sempre un per mano, un per occhio; ma di tutti il migliore e ’l più comodo nel seno; e, quanto posso più, nel cor nessuno.

Ma, non so come, a questa volta, ahi lassa! v’è pur giunto Mirtillo, e mi tormenta si, che a forza sospiro, e, quel eh’è peggio, di me sospiro, e non inganno altrui, e le membra al riposo e gli occhi al sonno furando anch’io, so desiar l’aurora, felicissimo tempo degli amanti poco tranquilli. Ed ecco, io vo per queste ombrose selve anch’io cercando Torme de l'odiato mio dolce desio.

Ma che farai, Corisca? il pregherai?

No, ché l’odio non vuol, bench’io’l volessi.

Il fuggirai? né questo Amor consente,

benché far il devrei. Che farò dunque?

Tenterò prima le lusinghe e i prieghi,

e scoprirò l'amor, ma non l’amante;

se ciò non giova, adonrerò l’inganno;

e, se questo non può, farà lo sdegno

vendetta memorabile. Mirtillo,

se non vorrai amor, proverai odio;

ed Amarilli tua farò pentire

d’esser a me rivale, a te si cara;

e finalmente proverete entrambi

quel che può sdegno in cor di donna amante.


ATTO PRIMO


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SCENA QUARTA Titiro, Montano, Dameta.


Titiro. Vagliami il ver, Montano: i’ so che parlo a chi di me più intende. Oscuri sempre sono assai più gli oracoli di quello ch’altri si crede, e le parole loro sono come il coltei, che, se tu ’l prendi in quella parte ove per uso umano la man s’adatta, a chi l’adopra è buono; ma chi ’l prende ove fere, è spesso morte. Ch’Amarillide mia, come argomenti, sia per alto destin dal cielo eletta a la salute universal d’Arcadia, chi più deve bramarlo e caro averlo di me, che le son padre? Ma, s’i’miro a quel che n’ha l’oracolo predetto, mal si confanno a la speranza i segni. S’unir li deve Amor, come fia questo, se fugge l’un? com’esser pòn gli stami d’amoroso ritegno odio e disprezzo?

Mal si contrasta quel ch’ordina il cielo; e, se pur si contrasta, è chiaro segno che non l’ordina il cielo, a cui, se pure piacesse ch'Amarillide consorte fosse di Silvio tuo, più tosto amante lui fatto avria che cacciator di fère.

Montano. Non vedi tu com’ è fanciullo? ancora non ha fornito il diciottesim’anno.

Ben sentirà col tempo anch’egli amore.

Titiro. E ’l può sentir di fèra e non di ninfa?

Montano. A giovinetto cor più si con face.

Titiro. E non amor, eh’è naturale affetto?


G. B. Guarito.


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IL PASTOR FIDO


Montano. Ma senza gli anni è naturai difetto.

Titiro. Sempre e’ fiorisce alla stagion più verde.

Montano. Può ben, forse, fiorir, ma senza frutto.

Titiro. Col fior, maturo ha sempre il frutto amore.

Qui non venn’io né per garrir, Montano, né per contender teco, ché né posso né fare il debbo; ma son padre anch’io d’unica e cara e, se mi lece dirlo, meritevole figlia e, con tua pace, da molti chiesta e desiata ancora.

Montano. Titiro, ancor che queste nozze in cielo non iscorgesse alto destin, le scorge la fede in terra, e ’l violarla fora un violar de la gran Cintia il nume a cui fu data; e tu sai pur quant’ella è disdegnosa e contra noi sdegnata.

Ma, per quel ch’i’ ne sento e quanto puote

mente sacerdotal rapita al cielo

spiar là su di que’ consigli eterni,

per man del Fato è questo nodo ordito;

e tutti sortiranno, abbi pur fede,

a suo tempo maturi anco i presagi.

Più ti vo’ dir, ché questa notte in sogno veduto ho cosa onde l’antica speme più che mai nel mio cor si rinnovella.

Titiro. Son i sogni alfin sogni. E che vedesti?

Montano. Io credo ben ch’abbi memoria (e quale

si stupido è tra noi ch’oggi non l’abbia?) di quella notte lagrimosa, quando il tumido Ladon ruppe le sponde, si che là dove avean gli augelli il nido, notàro i pesci, e in un medesmo corso gli uomini e gli animali e le mandre e gli armenti trasse l’onda rapace.

In quella stessa notte


ATTO PRIMO


3


(oh dolente memoria!) il cor perdei,

anzi quel che del core

m’era più caro assai,

bambin tenero in fasce,

unico figlio allora, e da me sempre

e vivo e morto unicamente amato.

Rapillo il fier torrente prima che noi potessimo, sepolti nel terror, ne le tenebre e nel sonno, provar di dargli alcun soccorso a tempo; né pur la culla stessa, in cui giacea, trovar potemmo, ed ho creduto sempre che la culla e ’1 bambin, cosi com’era, una stessa voragine inghiottisse.

Titiro. Che altro si può credere? ben parmi d’aver inteso ancora, e da te, forse, di questa tua sciagura, veramente sciagura memorabile ed acerba; e puoi ben dir che di duo figli, l’uno generasti a le selve e l’altro a Tonde.

Montano. Forse nel vivo il ciel pietoso ancora ristorerà la perdita del morto.

Sperar ben si dé’ sempre. Or tu m’ascolta.

Era quell’ora a punto

che, tra la notte e ’l di, tenebre e lume

col fosco raggio ancor l’alba confonde;

quand’io, pur nel pensiero

di queste nozze avendo

vegghiata una gran parte della notte,

alfin lunga stanchezza

recò negli occhi miei placido sonno,

e con quel sonno vision si certa.

che di vegghiar dormendo

avrei potuto dire.

Sopra la riva del famoso Alfeo seder pareami a l’ombra


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IL PASTOR FIDO


d’un platano frondoso, e con l’amo tentar ne l’onda i pesci, ed uscire in quel punto

di mezzo ’l fiume un vecchio ignudo e grave,

tutto stillante il crin, stillante il mento,

e con ambe le mani

benignamente porgermi un bambino

ignudo e lagrimoso,

dicendo: — Ecco ’l tuo figlio;

guarda che non l’ancidi; —

e, questo detto, tuffarsi ne Tonde.

Indi tutto repente

di foschi nembi il ciel turbarsi intorno e minacciarmi orribile procella, tal ch’io per la paura strinsi il bambino al seno, gridando:—Ah! dunque un’ora mel dona e mel ritoglie? —

Ed in quel punto parve

che d’ogn’intorno il ciel si serenasse,

e cadesser nel fiume

fulmini inceneriti

ed archi e strali rotti a mille a mille;

indi tremasse il tronco

del platano e n’uscisse,

formato in voce, spirito sottile

che, stridendo, dicesse in sua favella:

— Montano, Arcadia tua sarà ancor bella. — E cosi m’è rimaso

nel cor, negli occhi e ne la mente impressa

Timagine gentil di questo sogno,

eh’i’l’ho sempre dinanzi;

e sopra tutto il volto

di quel cortese veglio,

che mi par di vederlo.

Per questo i’ men venia diritto al tempio,


ATTO PRIMO


3


quando tu m’incontrasti,

per quivi far col sacrificio santo

de la mia vision l’augurio certo.

Titiro. Son veramente i sogni de le nostre speranze, più che de l’avvenir, vane sembianze, imagi ni del di guaste e corrotte da l’ombra de la notte.

Montano. Non è sempre co’ sensi l’anima addormentata; anzi tanto è più desta, quanto men traviata da le fallaci forme del senso, allor che dorme.

Titiro. Insomma, quel che s’abbia il ciel disposto de’ nostri figli, è troppo incerto a noi; ma certo è ben che ’l tuo sen fugge e contra la legge di natura amor non sente; e che la mia fin qui l’obbligo solo ha de la data fé, non la mercede.

Né so già dir se senta amor; so bene ch’a molti il fa sentire, né possibil mi par ch’ella noi provi, se ’l fa provar altrui.

Ben mi par di vederla

più de l’usato suo cangiata in vista,

ché ridente e festosa

già tutta esser solea.

Ma l’invaghir donzella

senza nozze a le nozze, è grave offesa.

Come in vago giardin rosa gentile, che ne le verdi sue tenere spoglie pur dianzi era rinchiusa, e sotto l’ombra del notturno velo incolta e sconosciuta stava posando in sul materno stelo,


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IL PASTOR FIDO


al subito apparir del primo raggio che spunti in oriente, si desta e si risente

e scopre al sol, che la vagheggia e mira,

il suo vermiglio ed odorato seno,

dov’ape, susurrando,

nei mattutini albori

vola suggendo i rugiadosi umori ;

ma, s’allor non si coglie,

si che del mezzodì senta le fiamme,

cade al cader del sole

si scolorita in su la siepe ombrosa,

ch’a pena si può dir: — Questa fu rosa: —

cosi la verginella,

mentre cura materna

la custodisce e chiude,

chiude anch’ella il suo petto

a l’amoroso affetto;

ma, se lascivo sguardo

di cupido amator vien che la miri,

e n’oda ella i sospiri,

gli apre subito il core

e nel tenero sen riceve amore;

e se vergogna il cela

o temenza raffrena,

la misera, tacendo,

per soverchio desio tutta si strugge.

Cosi manca beltà, se ’l foco dura, e, perdendo stagion, perde ventura.

Montano. Titiro, fa’ buon core;

non t’avvilir ne le temenze umane,

ché bene inspira il cielo

quel cor che bene spera;

né può giunger là su fiacca preghiera.

E, s’ognun dé’ pregare ove ’l bisogno sia


ATTO PRIMO


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e sperar negli dèi, quanto più ciò conviene a chi da lor deriva!

Son pure i nostri figli propagini celesti : non spegnerà il suo seme chi fa crescer l’altrui.

Andiam, Titiro, andiamo unitamente al tempio e sacreremo, tu il capro a Pane ed io ad Ercole il torello.

Chi feconda l’armento, feconderà ben anche colui che co'n l’armento feconda i sacri altari.

Tu va’, fido Dameta:

scegli tosto un torello,

di quanti n’abbia la feconda mandra

il più morbido e bello;

e per la via del monte, assai più breve,

fa ch’io l’abbia nel tempio, ov’io t’attendo.

Titiro. E da la greggia mia, caro Dameta, conduci un irco.

Dameta. 1’ farò l’uno e l’altro.

Titiro. Questo sogno. Montano,

piaccia a l’alta bontà de’ sommi dèi che fortunato sia quanto tu speri.

So ben io, so ben io

quant’esser può del tuo perduto figlio

la rimembranza a te felice augurio.


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IL PASTOR FIDO


SCENA QUINTA Satiro.


Come il gelo a le piante, ai fior l’arsura, la grandine a le spiche, ai semi il verme, le reti ai cervi ed agli augelli il visco, cosi nemico a l’uom fu sempre Amore.

E chi « foco » chiainollo, intese molto la sua natura perfida e malvagia, ché, se ’1 foco si mira, oh come è vago ! ma, se si tocca, oh come è crudo! Il mondo non ha di lui più spaventevol mostro.

Come fèra divora e come ferro pugne e trapassa, e come vento vola; e dove il piede imperioso ferma, cede ogni forza, ogni poter dà loco.

Non altramenti Amor: ché, se tu ’l miri in duo begli occhi, in una treccia bionda, oh come alletta e piace; oh come pare che gioia spiri e pace altrui prometta !

Ma, se troppo t’accosti e troppo il tenti, si che serper cominci e forza acquisti, non ha tigre l’Ircania e non ha Libia leon si fero e si pestifero angue, che la sua ferità vinca o pareggi.

Crudo più che l’inferno e che la morte, nemico di pietà, ministro d’ira, è finalmente Amor privo d’amore.

Ma che parlo di lui? perché l’incolpo?

È forse egli cagion di ciò che ’l mondo, amando no, ma vaneggiando, pecca?

O femminil perfidia, a te si rechi la cagion pur d’ogni amorosa infamia;


ATTO PRIMO


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da te sola deriva, e non da lui, quanto ha di crudo e di malvagio Amore, ché ’n sua natura placido e benigno, teco ogni sua bontà subito perde.

Tutte le vie di penetrar nel seno e di passar al cor tosto gli chiudi, sol di fuor il lusinghi, e fai suo nido e tua cura e tua pompa e tuo diletto la scorza sol d’un miniato volto.

Né già son l’opre tue gradir con fede la fede di chi t’ama, e con chi t’ama contender ne l'amare, ed in duo petti stringer un core e ’n duo voleri un’alma; ma tinger d’oro un’insensata chioma, e d’una parte, in mille nodi attorta, infrascarne la fronte; indi con l’altra, tessuta in rete e ’n quelle frasche involta, prender il cor di mille incauti amanti.

Oh come è indegna e stomachevol cosa

il vederti talor con un pennello

pinger le guance ed occultar le mende

di natura e del tempo; e veder come

il livido pallor fai parer d’ostro,

le rughe appiani e ’1 bruno imbianchi e togli

col difetto il difetto, anzi l’accresci!

Spesso un filo incrocicchi, e l’un de’ capi co’ denti afferri, e con la man sinistra l’altro sostieni, e del corrente nodo con la destra fai giro, e l’apri e stringi quasi radente forfice, e l’adatti su l’inegual lanuginosa fronte; indi radi ogni piuma e svelli insieme il inalcrescente e temerario pelo con tal dolor, eh’è penitenza il fallo.

Ma questo è nulla, ancor che tanto: a l’opre sono i costumi somiglianti e i vezzi.


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IL PASTOR FIDO


Qual cosa hai tu, che uon sia tutta finta? S’apri la bocca, menti; e se sospiri, son mentiti i sospir; se movi gli occhi, è simulato il guardo. Insomma ogn’atto, ogni sembiante, e ciò che in te si vede e ciò che non si vede, o parli o pensi o vadi o miri o pianga o rida o canti, tutto è menzogna. E questo ancora è poco. Ingannar più chi più si fida, e meno amar chi più n’è degno; odiar la fede più della morte assai: queste son l’arti che fan si crudo e si perverso Amore. Dunque d’ogni suo fallo è tua la colpa, anzi pur ella è sol di chi ti crede.

Dunque la colpa è mia, che ti credei, malvagia e perfidissima Corisca, qui per mio danno sol, cred'io, venuta da le contrade scelerate d’Argo, ove lussuria fa l’ultima prova.

Ma si ben figni e si sagace e scorta se’ nel celar altrui l’opre e i pensieri, che tra le più pudiche oggi ten vai, del nome indegno d’onestate altèra.

Oh quanti affanni ho sostenuti, oh quante, per questa cruda, indignità sofferte!

Ben me ne pento, anzi vergogno. Impara da le mie pene, o malaccorto amante: non far idolo un volto, ed a me credi: donna adorata un nume è de l’inferno.

Di sé tutto presume e del suo volto sovra te che l'inchini; e, quasi dea, come cosa mortai ti sdegna e schiva, ché d’esser tal per suo valor si vanta qual tu per tua viltà la figni ed orni.

Che tanta servitù? che tanti preghi, tanti pianti e sospiri? Usin quest’armi


ATTO PRIMO


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le femmine e i fanciulli : i nostri petti sien anche ne l’amar virili e forti.

Un tempo anch’io credei che, sospirando e piangendo e pregando, in cor di donna si potesse destar fiamma d’amore,

Or me n’avveggio: errai; ché, s’ella il core ha di duro macigno, indarno tenti che per lagrima molle o lieve fiato di sospir che ’l lusinghi, arda o sfaville, se rigido focil noi batte o sferza.

Lascia, lascia le lagrime e i sospiri, s’acquisto far de la tua donna vuoi ; e s’ardi pur d’inestinguibil foco, nel centro del tuo cor quanto più sai chiudi l’affetto; e poi, secondo il tempo, fa’quel ch’Amore e la natura insegna.

Però che la modestia è nel sembiante sol virtù de la donna, e però seco il trattar con modestia è gran difetto; ed ella, che si ben con altrui l’usa, seco usata, l’ha in odio, e vuol che ’n lei la miri si, ma non l’adopri il vago.

Con questa legge naturale e dritta, se farai per mio senno, amerai sempre.

Me non vedrà né proverà Corisca mai più tenero amante, anzi più tosto fiero nemico, e sentirà con armi non di femmina più, ma d’uom virile, assalirsi e trafiggersi. Due volte l’ho presa già questa malvagia, e sempre m’è, non so come, da le mani uscita; ma, s’ella giunge anco la terza al varco, ho ben pensato d'afferrarla in guisa che non potrà fuggirmi. A punto suole tra queste selve capitar sovente, ed io vo pur, come sagace veltro,


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IL PASTOR FIDO


fiutandola per tutto. Oh qual vendetta ne vo’far, se la prendo, e quale strazio!

Ben le farò veder che talor anco

chi fu cieco, apre gli occhi, e che gran tempo

de le perfidie sue non si dà vanto

femmina ingannatrice e senza fede.


CORO.

Oh nel seno di Giove alta e possente legge scritta, anzi nata, la cui soave ed amorosa forza verso quel ben che, non inteso, sente ogni cosa creata,

gli animi inchina e la natura sforza !

Né pur la frale scorza,

che ’l senso a pena vede, e nasce e more

al variar de l’ore;

ma i semi occulti e la cagion interna, eh’è d’eterno valor, move e governa.

E, se gravido è il mondo e tante belle sue meraviglie forma; e se per entro a quanto scalda il sole, a l’ampia luna, a le titanie stelle, vive spirto che ’nforma col suo maschio valor l’immensa mole; s’indi l’umana prole

sorge, e le piante e gli animali han vita; se la terra è fiorita o se canuta ha la rugosa fronte, vien dal tuo vivo e sempiterno fonte.

Né questo pur, ma ciò che vaga spera versa sopra i mortali, onde qua giù di ria ventura o lieta stella s’addita, or mansueta or fèra,


ATTO PRIMO


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ond’han le vite frali

del nascer l’ora e del morir la meta;

ciò che fa vaga o queta

ne’ suoi torbidi affetti umana voglia,

e par che doni e toglia

Fortuna, e ’l mondo vuol ch’a lei s’ascriva:

dall’alto tuo valor tutto deriva.

O detto inevitabile e verace, se pur è tuo concetto che dopo tanti affanni un di riposi l’arcada terra ed abbia vita e pace; se quel che n’hai predetto per bocca degli oracoli famosi, de’ duo fatali sposi,

pur da te viene, e ’n quello eterno abisso l’hai stabilito e fisso; e se la voce lor non è bugiarda, deh! chi l’effetto al voler tuo ritarda?

Ecco, d’amore e di pietà nemico, garzon aspro e crudele, che vien dal cielo e pur col ciel contende; ecco poi chi combatte un cor pudico, amante invan fedele,

che ’l tuo voler con le sue fiamme offende,

e quanto meno attende

pietà del pianto e del servir mercede,

tant’ha più foco e fede;

ed è pur quella a lui fatai bellezza,

eh’è destinata a chi la fugge e sprezza.

Cosi dunque in se stessa è pur divisa quell’eterna possanza? e cosi l’un destin con l’altro giostra? o, non ben forse ancor doma e conquisa, folle umana speranza di porre assedio a la superna chiostra, rubella al ciel si mostra,


46


IL PASTOR FIDO


ed arma, quasi nuovi empi giganti, amanti e non amanti?

Qui si può tanto? e di stellato regno trionferan duo ciechi, Amore e Sdegno?

Ma tu che stai sovra le stelle e ’1 Fato, e con saver divino indi ne reggi, alto Motor del cielo, mira, ti prego il nostro dubbio stato; accorda col destino Amor e Sdegno, e con paterno zelo tempra la fiamma e ’l gelo: chi dé’ goder, non fugga e non disami; chi dé’ fuggir, non ami.

Deh ! fa’ che l’empia e cieca voglia altrui la promessa pietà non tolga a nui.

Ma chi sa? forse quella, che pare inevitabile sciagura, sarà lieta ventura.

Oh quanto poco umana mente sale, ché non s’affisa al sol vista mortale!


ATTO SECONDO


SCENA PRIMA Ergasto, Mirtillo.


Ergasto. Oh quanti passi ho fatti! al fiume, al poggio, al prato, al fonte, a la palestra, al corso t’ ho lungamente ricercato: alfine qui pur ti trovo, e ne ringrazio il cielo.

Mirtillo. Ond’hai tu nuova, Ergasto,

degna di tanta fretta? hai vita o morte?

Ergasto. Questa non ti darei, ben ch’io l’avessi;

e quella spero dar, ben ch’io non l’abbia.

Ma tu non ti lasciar si fieramente vincer al tuo dolor: vinci te stesso, se vuoi vincer altrui; vivi, e respira talvolta. Ma, per dirti la cagione del mio venir a te si ratto, ascolta.

Conosci tu (ma chi non la conosce?) la sorella d’Ormino? è di persona anzi grande che no; di vista allegra, di bionda chioma, e colorita alquanto.

Mirtillo. Com’ha nome?

Ergasto. Corisca.

Mirtillo. l’la conosco

troppo bene, e con lei alcuna volta ho favellato ancora.

Or sappi ch’ella

da un tempo in qua, vedi ventura! è fatta,


Ergasto.


48


IL PASTOR FIDO


non so già come o con che privilegio, de la bella Amarillide compagna, onde a lei tutto ho l’amor tuo scoperto segretamente e quel che da lei brami, holle mostrato, ed ella prontamente m’ha la sua fede in ciò promessa e l’opra.

Mirtillo. Oh mille volte e mille,

se questo è vero, e più d’ogn’altro amante fortunato Mirtillo ! Ma del modo t’ha ella detto nulla?

Ergasto. Appunto nulla,

e ti dirò perché. Dice Corisca che non può ben deliberar del modo, prima ch’alcuna cosa ella non sappia de l’amor tuo più certa, ond’ella possa meglio spiare e più sicuramente l’animo de la ninfa, e sappia come reggersi, o con preghiere o con inganni, quel che tentar, quel che lasciar sia buono. Per questo solo i’ ti venia cercando si ratto. E’ sarà ben che tu da capo tutta la storia del tuo amor mi narri.

Mirtillo. Cosi a punto farò; ma sappi, Ergasto, che questa rimembranza (ah, troppo acerba a chi si vive amando fuori d’ogni speranza) è quasi un agitar fiaccola al vento, per cui, quanto l’incendio sempre s’avanza, tanto a l’agitata fiamma ella si strugge, o scuoter pungentissima saetta altamente confitta, che, se tenti di svellerla, maggiore fai la piaga e ’l dolore.

Ben cosa ti dirò, che chiaramente farà veder coni’è fallace e vana


ATTO SECONDO


4S


la speme degli amanti e come amore la radice ha soave, il frutto amaro.

Ne la bella stagion che ’l di s’avanza

sovra la notte, or compie l’anno a punto,

questa leggiadra pellegrina, questo

novo sol di beltade,

venne a far di sua vista,

quasi d’un’altra primavera, adorno

il mio solo per lei leggiadro allora

e fortunato nido, Elide e Pisa,

condotta da la madre

in que’ solenni di che del gran Giove

i sacrifici e i giochi

si soglion celebrar, famosi tanto,

per farne a’ suoi begli occhi

spettacolo beato;

ma furon que’ begli occhi

spettacolo d’Amore

d’ogn’altro assai maggiore.

Ond’io, che fin allor fiamma amorosa

non avea più sentita,

oimè! non cosi tosto

mirato ebbi quel volto,

che di subito n’arsi,

e, senza far difesa al primo sguardo

che mi drizzò negli occhi,

sentii correr nel seno

una bellezza imperiosa e dirmi :

— Dammi il tuo cor, Mirtillo. —

Ergasto. Oh quanto può ne’petti nostri Amore!

né ben il può saper se non chi ’l prova.

Mirtillo. Mira ciò che sa fare anco ne’ petti

più semplici e più molli Amore industre. Io fo del mio pensiero una mia cara sorella consapevole, compagna de la mia cruda ninfa


G. B. Guarini.


4


5o


IL PASTOR FIDO


que’ pochi di Ch’Elide l'ebbe e Pisa.

Da questa sola, come Amor m’insegna, fedel consiglio ed amoroso aiuto nel mio bisogno i’ prendo.

Ella de le sue gonne femminili

vagamente m'adorna

e d’innestato crin cinge le tempie;

poi le ’ntreccia e le ’nfiora,

e l’arco e la faretra

al fianco mi sospende;

e m’insegna a mentir parole e sguardi,

e sembianti nel volto, in cui non era

di lanugine ancora

pur un vestigio solo.

E, quando ora ne fue, seco là mi condusse, ove solea la bella ninfa diportarsi, e dove trovammo alcune nobili e leggiadre vergini di Megara,

e di sangue e d’amor, siccome intesi, a la mia dea congiunte.

Tra queste ella si stava

si come suol tra violette umili

nobilissima rosa;

e, poi che ’n quella guisa

state furono alquanto,

senz’altro far di più diletto o cura,

levossi una donzella

di quelle di Megara, e cosi disse:

— Dunque in tempo di giochi e di palme si chiare e si famose, starem noi neghittose?

Dunque non abbiam noi armi da far tra noi finte contese cosi ben come gli uomini? Sorelle, se ’l mio consiglio di seguir v’aggrada,


ATTO SECONDO


5 I


proviam oggi tra noi cosi da scherzo noi le nostr’armi, come contra gli uomini, allor che ne fie tempo, l’userem da dovero.

Bacianne, e si contenda

tra noi di baci; e quella, che d’ogni altra

baciatrice più scaltra,

li saprà dar più saporiti e cari,

n’avrà per sua vittoria

questa bella ghirlanda. —

Risero tutte a la proposta e tutte subito s’accordàro; e si sfidavan molte, e molte ancora, senza che dato lor fosse alcun segno, facean guerra confusa.

11 che veggendo allor la megarese, ordinò prima la tenzone e poi disse: — De’ nostri baci meritamente sia giudice quella che la bocca ha più bella. —

Tutte concordemente

elesser la bellissima Amarilli;

ed ella, i suoi begli occhi

dolcemente chinando,

di modesto rossor tutta si tinse,

e mostrò ben che non men bella è dentro,

di quel che sia di fuori;

o fosse che ’l bel volto

avesse invidia a l’onorata bocca

e s’adornasse anch’egli

de la purpurea sua pomposa vesta,

quasi volesse dir: — Son bello anch’io. —

Ergasto. Oh come a tempo ti cangiasti in ninfa, avventuroso e quasi de le dolcezze tue presago amante!

Mirtillo. Già si sedeva a l’amoroso ufficio


52


IL PASTOR FIDO


la bellissima giudice, e, secondo

l’ordine e l’uso di Megara, andava

ciascheduna per sorte

a far de la sua bocca e de’ suoi baci

prova con quel bellissimo e divino

paragon di dolcezza,

quella bocca beata,

quella bocca gentil che può ben dirsi

conca d’indo odorata

di perle orientali e pellegrine;

e la parte che chiude

ed apre il bel tesoro,

con dolcissimo mèl purpura mista.

Cosi potess’io dirti, Ergasto mio,

l’ineffabil dolcezza

eh’i’sentii nel baciarla!

Ma tu da questo prendine argomento, che non la può ridir la bocca stessa che l’ha provata. Accogli pur insieme quant’hanno in sé di dolce o le canne di Cipro o i favi d’Ibla; tutto è nulla, rispetto a la soavità ch’indi gustai.

Ergasto. Oh furto avventuroso, oh dolci baci !

Mirtillo. Dolci si, ma non grati,

perché mancava lor la miglior parte de l’intero diletto:

davagli Amor, non gli rendeva Amore.

Ergasto. Ma dimmi: e come ti sentisti allora che di baciar a te cadde la sorte?

Mirtillo. Su queste labbra, Ergasto,

tutta sen venne allor l’anima mia; e la mia vita, chiusa in cosi breve spazio, non era altro che un bacio, onde restar le membra,



ATTO SECONDO


5


quasi senza vigor, tremanti e fioche.

E quando io fui vicino

al folgorante sguardo,

come quel che sapea

che pur inganno era quell’atto e furto,

temei la maestà di quel bel viso.

Ma, da un sereno suo vago sorriso

assicurato poi,

pur oltre mi sospinsi.

Amor si stava, Ergasto,

com’ape suol, ne le due fresche rose

di quelle labbra ascoso.

E mentre ella si stette con la baciata bocca, al baciar de la mia, immobile e ristretta, la dolcezza del mèl sola gustai.

Ma, poi che mi s’ofTerse anch’ella e porse l’una e l’altra dolcissima sua rosa,

(fosse o sua gentilezza o mia ventura, so ben che non fu Amore), e sonar quelle labbra e s’incontràro i nostri baci (oh caro e prezioso mio dolce tesoro, t’ho perduto, e non moro?), allor sentii de l’amorosa pecchia la spina pungentissima soave passarmi il cor, che forse mi fu renduto allora per poterlo ferire.

Io, poi ch’a morte mi sentii ferito,

come suol disperato,

poco mancò che l’omicide labbra

non mordessi e segnassi ;

ma mi ritenne, oimè! l’aura adorata

che, quasi spirto d’anima divina,


54


IL PASTOR FIDO


risvegliò la modestia e quel furore estinse.

Ergasto. O modestia, molestia

degli amanti importuna !

Mirtillo. Già fornito il su’arringo avea ciascuna e con sospension d’animo grande la sentenza attendea, quando la leggiadrissima Amarilli, giudicando i miei baci più di quelli d’ogn’altra saporiti, di propria man con quella ghirlandetta gentil, che fu serbata premio a la vincitrice, il crin mi cinse.

Ma, lasso! aprica piaggia

cosi non arse mai sotto la rabbia

del can celeste allor che latra e morde,

come ardeva il cor mio

tutto allor di dolcezza e di desio,

e più che mai ne la vittoria vinto.

Pur mi riscossi tanto,

che la ghirlanda trattami di capo

a lei porsi, dicendo:

— Questa a te si convien, questa a te tocca, che festi i baci miei dolci ne la tua bocca. —

Ed ella, umanamente

presala, al suo bel crin ne feo corona;

e d’un’altra, che prima

cingea le tempie a lei, cinse le mie.

Ed è questa ch’io porto, e porterò fin al sepolcro sempre, arida come vedi,

per la dolce memoria di quel giorno,

ma molto più per segno

de la perduta mia morta speranza.

Ergasto. Degno se’ di pietà più che d’invidia,


ATTO SECONDO


55


Mirtillo, anzi pur Tantalo novello, ché nel gioco d’Aruor chi fa da scherzo, tormenta da dovero. Troppo care ti costar le tue gioie; e del tuo furto e il piacer e ’1 gastigo insieme avesti.

Ma s’accorse ella mai di questo inganno?

Mirtillo. Ciò non so dirti, Ergasto.

So ben ch’ella, in que’ giorni Ch’Elide fu de la sua vista degno, mi fu sempre cortese di quel soave ed amoroso sguardo.

Ma il mio crudo destino la ’nvolò si repente,

che me ne avvidi appena; ond’io, lasciando

quanto già di più caro aver solea,

tratto da la virtù di quel bel guardo,

qui, dove il padre mio

dopo tant’anni ancor, come t’è noto,

serba l’antico suo povero albergo,

men venni, e vidi, ah misero! già corso

a sempiterno occaso

quell’amoroso mio giorno sereno,

che cominciò da si beata aurora.

Al mio primo apparir, sùbito sdegno

lampeggiò nel bel viso;

poi chinò gli occhi e girò il piede altrove.

— Misero ! — allor i’ dissi —

questi son ben de la mia morte i segni. —

Avea sentita acerbamente intanto

la non prevista e sùbita partita

il mio tenero padre,

e, dal dolore oppresso,

ne cadde infermo, assai vicino a morte;

ond’io costretto fui

di ritornar a le paterne case.

Fu il mio ritorno, ahi lasso!


56


IL PASTOR FIDO


salute al padre, infermitate al figlio,

ché, d’amorosa febbre

ardendo, in pochi di languido venni.

E, da l’uscir che fe’ di Tauro il sole

fin a l’entrar di Capricorno, sempre

in cotal guisa stetti ;

e sarei certo ancora,

se non avesse il mio pietoso padre

opportuno consiglio

a l’oracolo chiesto, il qual rispose

che sol potea sanarmi il ciel d’Arcadia.

Cosi tornaimi, Ergasto,

a riveder colei

che mi sanò del corpo,

(oh voce degli oracoli fallace!)

per farmi l’alma eternamente inferma.

Ergasto. Strano caso nel vero

tu mi narri, Mirtillo, e non può dirsi che di molta pietà non ne sii degno.

Ma solo una salute al disperato è ’l disperar salute.

E tempo è già ch’io vada a far di quanto m’hai detto consapevole Corisca.

Tu vanne al fonte e là m’attendi, dove teco sarò quanto più tosto anch’io.

Mirtillo. Vanne felicemente! Il ciel ti dia di cotesta pietà quella mercede che dar non ti poss’io, cortese Ergasto.


SCENA SECONDA Dorinda, Lupino, Silvio.

Dorinda. O del mio bello e dispietato Silvio cura e diletto, avventuroso e fido, foss’io si cara al tuo signor crudele,


ATTO SECONDO


Silvio.

Dorinda


Silvio.

Dorinda.


Lupino.

Dorinda.

Lupino.

Dorinda.

Lupino.

Dorinda.

Lupino.


come se’tu, Melampo! Egli, con quella candida man ch’a me distringe il core, te, dolcemente lusingando, nutre, e teco il di, teco la notte alberga: mentr’io, che l’amo tanto, invan sospiro, e ’nvano il prego; e, quel che più mi duole, ti dà si cari e si soavi baci, ch’un sol che n’avess’io, n’andrei beata.

E, per più non poter, ti bacio anch’io, fortunato Melampo. Or, se benigna stella, forse, d’Amore a me t’invia perché Torme di lui mi scorga, andiamo dove Amor me, te sol Natura inchina.

Ma non sent’io tra queste selve un corno sonar vicino?

Te’, Melampo, te’!

Se ’l desio non m’inganna, quella è voce del bellissimo Silvio, che ’l suo cane chiama tra queste selve.

Te’, Melampo,

te’ te’ !

Senz’alcun fallo è la sua voce.

Oh felice Dorinda ! il ciel ti manda quel ben che vai cercando. È meglio ch’io serbi il cane in disparte : io farò forse de l’amor suo con questo mezzo acquisto. Lupino!

Eccomi.

Va’ con questo cane, e ti nascondi in quella fratta. Intendi? Intendo.

E non uscir, s’io non ti chiamo. Tanto farò.

Va’ tosto.

E tu fa’ tosto,

ché, se venisse fame a questa bestia, in un boccone non mi manicasse.



IL PASTOR FIDO


Dorinda. Oh come se’da poco! Su, va’ via!

Silvio. Dove, misero me! dove debb’io

volger più il piede a seguitarti, o caro, o mio fido Melampo? Ho monte e piano cercato indarno, e son già molle e stanco. Maladetta la fèra che seguisti!

Ma ecco ninfa, che di lui novella mi darà forse. Oh come male inciampo! Questa è colei che mi dà sempre noia.

Pur soffrir mi bisogna. O bella ninfa, dimmi: vedesti il mio fedel Melampo, che testé dietro ad una damma sciolsi?

Dorinda. Io bella, Silvio? io bella?

Perché cosi mi chiami,

crude!, se bella agli occhi tuoi non sono?

Silvio. O bella o brutta, hai tu il mio can veduto?

A questo mi rispondi, o ch’io mi parto.

Dorinda. Tu se’pur aspro a chi t’adora, Silvio!

Chi crederia che ’n si soave aspetto fosse si crudo affetto?

Tu segui per le selve

e per gli alpestri monti

una fèra fugace, e dietro Torme

d’un veltro, oimè! t’affanni e ti consumi;

e me, che t’amo si, fuggi e disprezzi.

Deh! non seguir damma fugace; segui, segui amorosa e mansueta damma, che, senza esser cacciata, è già presa e legata.

Silvio. Ninfa, qui venni a ricercar Melampo, non a perder il tempo. Addio.


Dorinda.


Deh ! Silvio


crudel, non mi fuggire, ch’i’ ti darò del tuo Melampo nova. Silvio. Tu mi beffi, Dorinda?

Dorinda. Silvio mio,


ATTO SECONDO


59


Silvio.

Dorinda.

Silvio.

Dorinda.

Silvio.

Dorinda.


Silvio.

Dorinda.

Silvio.

Dorinda.


Silvio.


Dorinda.

Silvio.

Dorinda.

Silvio.

Dorinda.


Silvio.


per quello amor che mi t’ha fatta ancella, io so dove è il tuo cane.

Noi lasciasti testé dietro a una damma? Lasciailo e ne perdei tosto la traccia.

Or il cane e la damma è in poter mio.

In tuo poter?

In mio poter. Ti duole d’esser tenuto a chi t’adora, ingrato?

Cara Dorinda mia, dàglimi tosto.

Ve’, mobile fanciullo, a che son giunta! ch’una fèra ed un can mi ti fa cara.

Ma vedi, core mio, tu non gli avrai senza mercede.

È ben ragion: darotti.

(Vo’ schernirla, costei).

Che mi darai?

Due belle poma d’oro, che l’altr’ieri la bellissima mia madre mi diede.

A me poma non mancano; potrei a te darne di quelle che son forse più saporite e belle, se i miei doni tu non avessi a schivo.

E che vorresti?

un capro od una agnella ? Ma il mio padre non mi concede ancor tanta licenza.

Né di capro ho vaghezza né d’agnella: te solo, Silvio, e l’amor tuo vorrei.

Né altro vuoi che l’amor mio?

Non altro.

Si si, tutto tei dono. Or dammi dunque, cara ninfa, il mio cane e la mia damma. Oh, se sapessi quanto vale il tesor di che si largo sembri, e rispondesse a la tua lingua il core ! Ascolta, bella ninfa. Tu mi vai sempre di certo amor parlando, ch’io


6o


IL PASTOR FIDO


non so quel ch’e'si sia. Tu vuoi ch’i’t’ami, e t’amo quanto posso e quanto intendo.

Tu di’eh’io son crudele, e non conosco quel che sia crudeltà, né so che farti.

Dorinda. O misera Dorinda! ov’hai tu poste

le tue speranze? onde soccorso attendi?

In beltà che non sente ancor favilla di quel foco d’Amor, ch’arde ogn’amante. Amoroso fanciullo,

tu se’pur a me foco, e tu non ardi; e tu, che spiri amore, amor non senti.

Te, sotto umana forma

di bellissima madre,

partorì l’alma dea che Cipro onora;

tu hai gli strali e ’l foco:

ben sallo il petto mio ferito ed arso.

Giugni agli òmeri l’ali:

sarai novo Cupido,

se non c’hai ghiaccio il core,

né ti manca d’Amore altro che amore.

Silvio. Che cosa è questo amore?

Dorinda. S’i’ miro il tuo bel viso, amore è un paradiso; ma, s’i’ miro il mio core, è un infernal ardore.

Silvio. Ninfa, non più parole:

dammi il mio cane ornai!

Dorinda. Dammi tu prima il pattuito amore.

Silvio. Dato non te l’ho dunque? (Oimè, che pena è il contentar costei!) Prendilo, fanne ciò che ti piace. Chi tei nega o vieta?

Che vuoi tu più? che badi?

Dorinda. (Tu perdi ne l’arena i semi e l’opra, sfortunata Dorinda!)

Silvio. Che fai? che pensi? ancor mi tieni a bada?

Dorinda. Non cosi tosto avrai quel che tu brami, che poi mi fuggirai, perfido Silvio.


ATTO SECONDO


6r


Silvio.

Dorinda.

Silvio.

Dorinda.

Silvio.

Dorinda.

Silvio.

Dorinda.

Silvio.

Dorinda.

Silvio.

Dorinda.


Silvio.

Dorinda.

Silvio.


Dorinda.

Silvio.

Dorinda.

Silvio.

Dorinda.

Silvio.


No certo, bella ninfa.


Dammi un pegno.


Che pegno vuoi?


Ah, che non oso a dirlo !


Perché?


Pere’ ho vergogna.

E pur il chiedi!

Vorrei senza parlar esser intesa.

Ti vergogni di dirlo e non avresti vergogna di riceverlo?

Se darlo

tu mi prometti, i’ tei dirò.

Prometto,

ma vo’ che tu me ’l dica.


Ah, non m’intendi, Silvio, mio ben! T’intenderei pur io, s’a me ’l dicessi tu.

Più scaltra certo

se’ tu di me.

Più calda, Silvio, e meno di te crudele io sono.

A dirti il vero,

io non son indovin: parla, se vuoi esser intesa.

Oh misera! Un di quelli che ti dà la tua madre.

Una guanciata?

Una guanciata a chi t’adora, Silvio?

Ma careggiar con queste ella sovente mi suole.

Ah! so ben io che non è vero.

E talor non ti bacia?

Né mi bacia, né vuol ch’altri mi baci.

Forse vorresti tu per pegno un bacio?

Tu non rispondi. Il tuo rossor t’accusa.


62


IL PASTOR FIDO


DO R INDA. Silvio. Do R INDA.

Silvio.

Dorinda.

Lupino.


Dorinda.

Silvio.

Dorinda.

Silvio.

Dorinda.

Silvio.

Dorinda.


Lupino.


Silvio.

Dorinda.

Silvio.


Certo mi son apposto. I’ son contento; ma dammi con la preda il can tu prima. Mei prometti tu, Silvio?

I* tei prometto.

E me l’attenderai?


Si, ti dich’io.

Non mi dar più tormento.

Esci, Lupino!

Lupino! ancor non odi?

Oh, se’noioso!

Chi chiama? Oh, vengo, vengo! Io non dormiv no certo. Il can dormiva.


Ecco il tuo cane,

Silvio, che più di te cortese, in queste... Oh, come son contento!

... in queste braccia, che tanto sprezzi tu, venne a posarsi...

Oh dolcissimo mio fido Melampo!

... cari avendo i miei baci e i miei sospiri. Baciar ti voglio mille volte e mille.

Ti se’ fatto alcun mal, forse, correndo? Avventuroso can! perché non posso cangiar teco mia sorte? A che son giunta, che fin d’un can la gelosia m’accora?

Ma tu, Lupin, t’invia verso la caccia; ché fra poco i’ ti seguo.

Io vo, padrona.


SCENA TERZA Silvio, Dorinda.


Tu non hai alcun male. Al rimanente: ov’è la damma che promessa m’hai?

La vuoi tu viva o morta?

Io non t’intendo.

Com’esser viva può, se ’l can l’uccise?


ATTO SECONDO


6.;


Dorinda.

Silvio.

Dorinda.

Silvio.


Dorinda.

Silvio.

Dorinda.


Silvio.

Dorinda.

Silvio.

Dorinda.


Ma se ’l can non l’uccise?


Viva.


È dunque viva?


Tanto più cara e più gradita mi fia cotesta preda. E fu si destro Melampo mio, che non l’ha guasta o tócca? Sol è nel cor d’una ferita punta.

Mi beffi tu, Dorinda, o pur vaneggi? Com’esser viva può, nel cor ferita?

Quella damma son io, crudelissimo Silvio, che, senza esser attesa, son da te vinta e presa, viva, se tu m’accogli; morta, se mi ti togli.

E questa è quella damma e quella preda che testé mi dicevi?

Questa e non altra. Oimè! perché ti turbi? Non t’è più caro aver ninfa che fèra?

Né t’ho cara né t’amo, anzi t’ho in odio, brutta, vile, bugiarda ed importuna!

È questo il guiderdon, Silvio crudele?

è questa la mercé che tu mi dai,

garzon ingrato? Abbi Melampo in dono,

e me con lui, ché tutto,

pur ch’a me torni, i’ ti rimetto, e solo

de’ tuoi begli occhi il sol non mi si nieghi.

Ti seguirò, compagna

del tuo fido Melampo assai più fida;

e, quando sarai stanco,

t’asciugherò la fronte,

e sovra questo fianco,

che per te mai non posa, avrai riposo.

Porterò l’armi, porterò la preda;

e, se ti mancherà mai fèra al bosco,

saetterai Dorinda. In questo petto


IL PASTOR FIDO


l’arco tu sempre esercitar potrai: ché, sol come vorrai, il porterò, tua serva, il proverò, tua preda, e sarò del tuo strai faretra e segno.

Ma con chi parlo? ahi, lassa!

teco, che non m’ascolti e via ten fuggi.

Ma fuggi pur: ti seguirà Dorinda

nel crudo inferno ancor, s’alcun inferno

più crudo aver poss’io

de la fierezza tua, del dolor mio.


SCENA QUARTA

CORISCA.

Oh, come favorisce i miei disegni Fortuna molto più ch’io non sperai!

Non ha ragion di favorir colei che, sonnacchiosa, il suo favor non chiede. Ha ben ella gran forza, e non la chiama « possente dea » senza ragione il mondo; ma bisogna incontrarla e farle vezzi, spianandole il sentiero. I neghittosi saran di rado fortunati o mai.

Se non m’avesse la mia industria fatta compagna di colei, che potrebbe ora giovarmi una si comoda e sicura occasion di ben condurre a fine il mio pensiero? Avria qualch’altra sciocca la sua rivai fuggita; e, segni aperti de la sua gelosia portando in fronte, di mal occhio guatata anco l’avrebbe, e mal avrebbe fatto, ch'assai meglio da l’aperto nemico altri si guarda,


ATTO SECONDO


65


che non fa da l’occulto. Il cieco scoglio è quel ch’inganna i marinari ancora più saggi. Chi non sa finger l'amico, non è fiero nemico. Oggi vedrassi quel che sa far Corisca. Ma si sciocca non son io già, che lei non creda amante.

A qualcun altro il farà creder forse,

che poco sappia; a me non già, che sono

maestra di quest’arte. Una fanciulla

tenera e semplicetta, che pur ora

spunta fuor de la buccia, in cui pur dianzi

stillò le prime sue dolcezze Amore,

lungamente seguita e vagheggiata

da si leggiadro amante, e, quel eh’è peggio,

baciata e ribaciata, e starà salda?

Pazzo è ben chi sei crede; io già noi credo. Ma vedi il mio destin come m’aita.

Ecco a punto Amarilli. Ah, i’ vo’ far vista di non vederla e ritirarmi alquanto.


SCENA QUINTA Amarilli, Corisca.

Amarilli. Care selve beate,

e voi solinghi e taciturni orrori,

di riposo e di pace alberghi veri ;

oh, quanto volentieri

a rivedervi i’torno! E se le stelle

m’avesser dato in sorte

di viver a me stessa e di far vita

conforme a le mie voglie,

i’ già co’ Campi elisi,

fortunato giardin de’ semidèi,

la vostr’ombra gentil non cangerei.


G. B. Guarissi.


5


66


IL PASTOR FIDO


Ché, se ben dritto miro, questi beni mortali altro non son che mali.

Meno ha chi più n’abonda, e posseduto è più che non possedè: ricchezze no, ma lacci de l’altrui libertate.

Che vai ne’ più verdi anni titolo di bellezza o fama d’onestate, e ’n mortai sangue nobiltà celeste; tante grazie del cielo e de la terra: qui larghi e lieti campi, e là felici piagge,

fecondi paschi e più fecondo armento,

se ’n tanti beni il cor non è contento?

Felice pastorella,

cui cinge a pena il fianco

povera si, ma schietta

e candida gonnella,

ricca sol di se stessa

e de le grazie di natura adorna;

che ’n dolce povertade

né povertà conosce né i disagi

de le ricchezze sente;

ma tutto quel possedè,

per cui desio d'aver non la tormenta,

nuda si, ma contenta!

Co’ doni di natura

i doni di natura anco nudrica;

col latte il latte avviva;

e col dolce de Tapi

condisce il mèl de le natie dolcezze.

Quel fonte ond'ella beve,

quel solo anco la bagna e la consiglia;

paga lei, pago il mondo.


ATTO SECONDO


67


Per lei di nembi il ciel s’oscura indarno e di grandine s’arma, ché la sua povertà nulla paventa: nuda si, ma contenta.

Sola una dolce e d’ogn’affanno sgombra cura le sta nel core: pasce le verdi erbette la greggia a lei commessa, ed ella pasce de’ suo’ begli occhi il pastorello amante, non qual le destinàro o gli uomini o le stelle, ma qual le diede Amore.

E tra l’ombrose piante d’un favorito lor mirteto adorno, vagheggiata, il vagheggia; né per lui sente foco d’amor che non gli scopra; ned ella scopre ardor ch’egli non senta: nuda si, ma contenta.

Oh vera vita, che non sa che sia morire innanzi morte !

Potess’io pur cangiar teco mia sorte!

Ma vedi là Corisca. Il ciel ti guardi, dolcissima Corisca.

Corisca. Chi mi chiama?

Oh, più degli occhi miei, più de la vita a me cara Amarilli, e dove vai cosi soletta?

Amarilli. In nessun altro loco,

se non dove mi trovi e dove meglio capitar non potea, poi che te trovo.

Corisca. Tu trovi chi da te non parte mai,

Amarilli mia dolce, e di te stava pur or pensando e fra mio cor dicea:

— S’io son l’anima sua, come può ella star senza me si lungamente? — e, ’n questo, tu mi se’ sopraggiunta, anima mia.

Ma tu non ami più la tua Corisca.


68


IL PASTOR FIDO


Amarilli. E perché ciò?

Corisca. Come perché? tu ’l chiedi?

Oggi tu sposa...

Amarilli. Io sposa?

Corisca. Si, tu sposa

ed a me noi palesi?

Amarilli. E come posso

palesar quel che non m’è noto?

Corisca. Ancora

tu t’infingi e mel neghi?

Amarilli. Ancor mi beffi?

Corisca. Anzi tu beffi me.

Amarilli. Dunque m’affermi

ciò tu per vero?

Corisca. Anzi tei giuro; e certo

non ne sai nulla tu?

Amarilli. So che promessa

già fui; ma non so già che si vicine sien le mie nozze. E tu da chi ’l sapesti?

Corisca. Da mio fratello Ormino. Esso l’ha inteso, dice, da molti; e non si parla d’altro.

Par che tu te ne turbi. È forse questa novella da turbarsi?

Amarilli. Gli è un gran passo,

Corisca; e già la madre mia mi disse che quel di si rinasce.

Corisca. A miglior vita

si rinasce per certo; e tu per questo viver lieta dovresti. A che sospiri?

Lascia pur sospirar a quel meschino.

Amarilli. Qual meschino?

Corisca. Mirtillo, che trovossi

presente a ciò che ’l mio fratei mi disse, e poco men che di dolor noi vidi morire. E certo e’ si moriva, s’io non l’avessi soccorso, promettendo


ATTO SECONDO


69


di sturbar queste nozze; e, ben che questo dicessi sol per suo conforto, io pure sarei donna per farlo.

Amarilli. E ti darebbe

l’animo di sturbarle?

Corisca. E di che sorte!

Amarilli. E come ciò faresti?

Corisca. Agevolmente,

pur che tu ti disponga e ci consenta.

Amarilli. Se ciò sperassi e la tua fé mi dessi di non l'appalesar, ti scovrirei un pensier che nel cor gran tempo ascondo.

Corisca. Io palesarti mai? aprasi prima

la terra e per miracolo m’inghiotta.

Amarilli. Sappi, Corisca mia, che, quand’io penso ch’i’ debbo ad un fanciullo esser soggetta, die m’ha in odio e mi fugge e ch’altra cura non ha che i boschi, e eh'una fèra e un cane stima più che l’amor di mille ninfe, malcontenta ne vivo e poco meno che disperata; ma non oso a dirlo, si perché l’onestà non mel comporta, si perché al padre mio n’ho di già data e, quel ch’è peggio, a la gran dea, la fede. Che se per opra tua, ma però sempre salva la fede mia, salva la vita e la religion e l’onestate, troncar di questo a me si grave nodo si potesser le fila, oggi saresti tu ben la mia salute e la mia vita.

Corisca. Se per questo sospiri, hai gran ragione, Amarilli. Deh! quante volte il dissi:

— Una cosa si bella a chi la sprezza?

Si ricca gioia a chi non la conosce? —

Ma tu se’ troppo savia, a dirti il vero, anzi pur troppo sciocca. E che non parli? che non ti lasci intendere?


70


IL PASTOR FIDO


Amàrilli. Ho vergogna.

Corisca. Hai un gran mal, sorella. I* vorrei prima aver la febbre, il fistolo, la rabbia.

Ma, credi a me, la perderai tu ancora, sorella mia, si ben; basta una sola volta che tu la superi e rinieghi.

Amàrilli, Vergogna, che ’n altrui stampò natura, non si può rinegar, ché, se tu tenti di cacciarla dal cor, fugge nel volto.

Corisca. O Amàrilli mia, chi, troppo savia,

tace il suo male, alfin, da pazza, il grida. Se questo tuo pensiero avessi prima scoperto a me, saresti fuor d’impaccio.

Oggi vedrai quel che sa far Corisca.

Ne le più sagge man, ne le più fide tu non potevi capitar. Ma, quando sarai per opra mia già liberata d’un cattivo marito, non vorrai tu d’un buon amante provvederti?

Amàrilli. A questo

penseremo a bell’agio.

Corisca. Veramente

non puoi mancare al tuo fedel Mirtillo.

E tu sai pur s’oggi è pastor di lui, né per valor, né per sincera fede, né per beltà, de l’amor tuo più degno.

E tu’l lasci morire (ah troppo cruda!), senza che dir ti possa, almeno: — Io moro? Ascoltalo una volta.

Amàrilli. Oh quanto meglio

farebbe a darsi pace, e la radice sveller di quel desio eh’è senza speme!

Corisca. Dàgli questo conforto anzi che moia.

Amàrilli. Sarà piuttosto un raddoppiargli affanno.

Corisca. Lascia di questo tu la cura a lui.

Amàrilli. E di me che sarebbe, se mai questo si risapesse?


ATTO SECONDO


71


CORISCA.

Amarilli

CORISCA.


Amarilli.

CORISCA.

Amarilli.

CORISCA.

Amarilli.

Corisca.

Amarilli.

Corisca.

Amarilli.

Corisca.

Amarilli.

Corisca.


Amarilli.

Corisca.

Amarilli.


Oh quanto hai poco core!

E poco sia, purch’a bontà mi vaglia. Amarilli, se lecito ti fai

di mancarmi tu in questo, anch’io ben posso giustamente mancarti. Addio.

Corisca,


non ti partir; ascolta.

Una parola

sola non udirei, se non prometti...

Ti prometto d’udirlo, ma con questo, ch'ad altro non m’astringa...

Altro non chiede. ... e tu gli facci credere che nulla saputo i’ n’abbia...

Mostrerò che tutto abbia portato il caso.

... e ch’indi possa partirmi a mio piacer, né mi contrasti... Quando ti piacerà, pur che l’ascolti.

...e brevemente si spedisca.


ancora si farà.


E questo


...né mi s’accosti quanto è lungo il mìo dardo.

Oimè, che pena

m’è oggi il riformar cotesta tua semplicità! Fuor che la lingua, ogn’altro membro gli legherò, si che sicura star ne potrai : vuoi altro ?

Altro non voglio.

E quando il farai tu?

Quando a te piace,

pur che tanto di tempo or mi conceda ch’i’ torni a casa, ove di queste nozze mi vo’ meglio informar.


Corisca.


Vanne, ma guarda


7 2


IL PASTOR FIDO


di farlo accortamente. Or odi quello ch’io vo pensando: ch’oggi sul meriggio qui, sola, fra quest’ombre e senz’alcuna de le tue ninfe tu ten venghi, dove mi troverò per questo effetto anch’io. Meco saran Nerine, Aglauro, Elisa, e Fillide e Licori, tutte mie non meno accorte e sagge che fedeli e segrete compagne, ove, con loro facendo tu, come sovente suoli, il giuoco « de la cieca », agevolmente Mirtillo crederà che non per lui, ma per diporto tuo ci sii venuta.

Amarii.li. Questo mi piace assai; ma non vorrei che quelle ninfe fossero presenti a le parole di Mirtillo, sai?

Corisca. T’intendo, e ben avvisi; e fie mia cura che tu di questo alcun timor non aggia, ch’io le farò sparir quando fia tempo. Vattene pur, e ti ricorda intanto d’amar la tua fidissima Corisca.

Amarii.li. Se posto ho il cor ne le sue mani, a lei starà di farsi amar quanto le piace.

Corisca. Parti ch’ella stia salda? A questa ròcca maggior forza bisogna. S’a l’assalto de le parole mie può far difesa, a quelle di Mirtillo certamente resister non potrà. So ben anch’ io quel che nel cor di tenera fanciulla possano i preghi di gradito amante.

Se ridur ci si lascia, a tal partito la stringerò ben io con questo giuoco, che non l’avrà da giuoco. Ed io non solo da le parole sue, voglia o non voglia, potrò spiar, ma penetrar ancora fin ne l’interne viscere il suo core.


ATTO SECONDO


73


Come questo abbia in mano e già padrona sia del segreto suo, farò di lei ciò che vorrò senza fatica alcuna, e condurrolla a quel che bramo, in guisa ch’ella stessa, non ch’altri, agevolmente creder potrà che l’abbia a ciò condotta il suo sfrenato amor, non l’arte mia.


SCENA SESTA Corisca, Satiro.


CoRISCA.

Satiro.

Corisca.

Satiro.

Corisca.

Satiro.


Corisca.

Satiro.


Corisca.


Oimè, son morta!

Ed io son vivo.

Torna,

torna, Amarilli mia, ché presa sono. Amarilli non t’ode. Ah! questa volta ti converrà star salda.

Oimè, le chiome!

T’ho pur si lungamente attesa al varco, che ne la rete se’ caduta. E sai, questo non è il mantello; è ’l crin, sorella. A me, Satiro?

A te. Non se’ tu quella Corisca si famosa ed eccellente maestra di menzogne, che mentite parolette e speranze e finti sguardi vendi a si caro prezzo? che tradito m’ha’in tanti modi e dileggiato sempre, ingannatrice e pessima Corisca?

Corisca son ben io; ma non già quella, Satiro mio gentil, ch’agli occhi tuoi un tempo fu si cara.


Satiro.


Or son gentile,


74


IL PASTOR FIDO


CORISCA.

Satiro.


CORISCA.

Satiro.


CORISCA.


Satiro.

CORISCA.

Satiro. CORISCA.


si, scelerata; ma gentil non fui, quando per Coridon tu mi lasciasti.

Te per altrui?

Or odi meraviglia e cosa nuova a l’animo sincero !

E quando l’arco a Lilla e ’1 velo a Clori, la veste a Dafne ed i coturni a Silvia m’inducesti a rubar, perché’l mio furto fosse di quell’amor poscia mercede, ch’a me promesso, fu donato altrui: e quando la bellissima ghirlanda, che donata i’ t’avea, donasti a Niso; e quando, a la caverna, al bosco, al fonte facendomi vegghiar le fredde notti, m’hai schernito e beffato, allor ti parvi gentile, ah, scelerata? Or pagherai, credimi, or pagherai di tutto il fio.

Tu mi strascini, oimè! come s’i' lussi una giovenca.

Tu ’l dicesti a punto.

Scòtiti pur, se sai; già non tem’io che quinci or tu mi fugga: a questa presa non ti varranno inganni. Un'altra volta ten fuggisti, malvagia; ma se’l capo qui non mi lasci, indarno t’affatichi d’uscirmi oggi di man.

Deh ! non negarmi

tanto di tempo almen, che teco i’ possa dir mia ragion comodamente.

Parla.

Come vuoi tu ch’io parli, essendo presa? Lasciami.

Ch’i’ti lasci?

I’ ti prometto

la fede mia di non fuggir.


Satiro.


Qual fede


ATTO SECONDO


75


perfidissima femmina? ancor osi parlar meco di fede? I’ vo’ condurti ne la più spaventevole caverna di questo monte, ove non giunga mai raggio di sol, non che vestigio umano.

Del resto non ti parlo; il sentirai.

Farò con mio diletto e con tuo scorno quello strazio di te, che meritasti.

Corisca. Puoi tu dunque, crudele, a questa chioma che ti legò già il core, a questo volto che fu già il tuo diletto, a questa un tempo più de la vita tua cara Corisca, per cui giuravi che ti fora stato anco dolce il morire, a questa puoi soffrir di far oltraggio? Oh cielo! oh sorte! In cui pos’io speranza? a cui debb’io creder mai più, meschina?

Satiro. Ah, scelerata!

pensi ancor d’ingannarmi? ancor mi tenti con le lusinghe tue, con le tue frodi?

Corisca. Deh, Satiro gentil, non far più strazio di chi t’adora. Oimè! non se’già fèra, non hai già il cor di marmo o di macigno. Eccomi a’ piedi tuoi. Se mai t’offesi, idolo del mio cor, perdon ti cheggio.

Per queste nerborute e sovraumane

tue ginocchia ch’abbraccio, a cui m’inchino;

per quello amor che mi portasti un tempo;

per quella soavissima dolcezza

che trar solevi già dagli occhi miei,

che tue stelle chiamavi, or son duo fonti;

per queste amare lagrime, ti prego,

abbi pietà di me, lasciami ornai.

Satiro. (La perfida m’ha mosso; e, s’io credessi solo a l’affetto, a fé che sarei vinto!)

Ma insomma io non ti credo. Tu se’ troppo


76


IL PASTOR FIDO


CORISCA.


Satiro.

CORISCA

Satiro.


Co RISC a. Satiro.

CORISCA.

Satiro. CORISCA. Satiro.

CORISCA.


Satiro.

CORISCA.

Satiro.

CORISCA.

Satiro.


malvagia e ’nganni più chi più si fida.

Sotto quell’umiltà, sotto que’ preghi si nasconde Corista : tu non puoi esser da te diversa. Ancor contendi?

Oimè il mio capo! Ah crudo! ancor un poco ferma, ti prego; ed una sola grazia non mi negar, almen.

Che grazia è questa? Che tu m’ascolti ancor un poco.

Forse

ti pensi tu con parolette finte e mendicate lagrime piegarmi?

Deh ! Satiro cortese, e pur tu vuoi far di me strazio?

Il proverai. Vien’ pure. Senza avermi pietà?

Senza pietate.

E ’n ciò se’ tu ben fermo?

In ciò ben fermo.

Hai tu finito ancor questo incantesimo?

O villano indiscreto ed importuno, mezz’uomo e mezzo capra, e tutto bestia, carogna fracidissima e difetto di natura nefando, se tu credi che Corisca non t’ami, il vero credi.

Che vuoi tu ch’ami in te? quel tuo bel ceffo? quella sucida barba? quell’orecchie caprigne? e quella putrida e bavosa isdentata caverna?

O scelerata!


a me questo?

A te questo.

A me, ribalda?


A te, caprone!

Ed io con queste mani non ti trarrò cotesta tua canina ed importuna lingua?


ATTO SECONDO


CORISCA.

Satiro.


Corisca.

Satiro.

Corisca.

Satiro.

Corisca.

Satiro.

Corisca.

Satiro.


Corisca.

Satiro.


Corisca.

Satiro.

Corisca.

Satiro.


Se t’accosti

e fossi tanto ardito...


In tale stato

una vii femminuzza, in queste mani, e non teme? e m’oltraggia? e mi dispregia? Io ti farò...

Che mi farai, villano?

I’ ti mangerò viva.

E con qua’ denti,

se tu non gli hai?

O ciel, come il comporti? Ma s’io non te ne pago... Vien’ pur via. Non vo’ venir.

Non ci verrai, malvagia?

No, mal tuo grado; no.

Tu ci verrai,

se mi credessi di lasciarci queste braccia.

Non ci verrò, se questo capo di lasciarci credessi.

Orsù! veggiamo chi di noi ha più forte e più tenace, tu il collo, od io le braccia. Tu ci metti le mani, né con questo anco potrai difenderti, perversa.

Or il vedremo.


Si certo.


Tira ben. Satiro, addio; fiaccati il collo.


Oimè dolente ! ahi lasso ! oimè il capo! oimè il fianco! oimè la schiena oh che fiera caduta! A pena i’ posso movermi e rilevarmene. E pur vero è ch’ella fugga e qui rimanga il teschio?

Oh maraviglia inusitata! O ninfe, o pastori, accorrete e rimirate


78


IL PASTOR FIDO


il magico stupor di chi sen fugge e vive senza capo. Oh come è lieve! quanto ha poco cervello e come il sangue fuor non ne spiccia! Ma che miro? o sciocco! o mentecatto! Senza capo lei?

Senza capo se’ tu. Chi vide mai uom di te più schernito? Or mira s’ella ha saputo fuggir, quando tu meglio la pensavi tener. Perfida maga!

Non ti bastava aver mentito il core e ’l volto e le parole e ’l riso e ’l guardo, s’anco il crin non mentivi? Ecco! poeti, questo è l’oro nativo e l’ambra pura che pazzamente voi lodate. Ornai arrossite, insensati, e, ricantando, vostro soggetto in quella vece sia l’arte d’una impurissima e malvagia incantatrice, che i sepolcri spoglia e, dai fracidi teschi il crin furando, al suo l’intesse e cosi ben l’asconde, che v’ha fatto lodar quel che aborrire dovevate assai più che di Megera le viperine e mostruose chiome.

Amanti, or non son questi i vostri nodi? Mirate e vergognatevi, meschini.

E se, come voi dite, i vostri còri son pur qui ritenuti, ornai ciascuno potrà senza sospiri e senza pianto ricoverar il suo. Ma che più tardo a publicar le sue vergogne? Certo non fu mai si famosa né si chiara la chioma eh’è là sù con tante stelle ornamento del ciel, come fie questa per la mia lingua, e molto più colei che la portava, eternamente infame.


ATTO SECONDO


79


CORO

Ah, ben fu di colei grave l’errore,

cagion del nostro male,

che le leggi santissime d’Amore,

di fé mancando, offese;

poscia ch’indi s’accese

degli immortali dèi l’ira mortale,

che, per lagrime e sangue

di tante alme innocenti, ancor non langue.

Cosi la Fé, d’ogni virtù radice,

e d’ogn’alma ben nata unico fregio,

là su si tiene in pregio!

Cosi di farci amanti, onde felice si fa nostra natura, l’eterno Amante ha cura!

Ciechi mortali, voi che tanta sete

di possedere avete,

l’urna amata guardando

d’un cadavero d’òr, quasi nud’ombra

che vada intorno al suo sepolcro errando;

qual amore o vaghezza

d’una morta bellezza il cor v’ingombra?

Le ricchezze e i tesori

son insensati amori. Il vero e vivo

amor de l’alma, è l’alma: ogn’altro oggetto,

perché d’amare è privo,

degno non è de l’amoroso affetto.

L’anima, perché sola è riamante, sola è degna d’amor, degna d’amante.

Ben è soave cosa

quel bacio che si prende

da una vermiglia e delicata rosa

di bella guancia. E pur chi ’l vero intende,


So


IL PASTOR FIDO


com’intendete vui, avventurosi amanti che ’l provate, dirà che quello è morto bacio, a cui la baciata beltà bacio non rende.

Ma i colpi di due labbra innamorate,

quando a ferir si va bocca con bocca

e che in un punto scocca

Amor con soavissima vendetta

l’una e l’altra saetta,

son veri baci, ove con giuste voglie

tanto si dona altrui, quanto si toglie.

Baci pur bocca curiosa e scaltra

o seno o fronte o mano: unqua non fia

che parte alcuna in bella donna baci

che baciatrice sia,

se non la bocca, ove l’un’alma e l’altra

corre e si bacia anch’ella, e con vivaci

spiriti pellegrini

dà vita al bel tesoro

de’ bacianti rubini,

si che parlan tra loro

gran cose in picciol suono,

e segreti dolcissimi che sono

a lor solo palesi, altrui celati.

Tal gioia amando prova, anzi tal vita, alma con alma unita, e son come d’amor baci baciati gli incontri di duo còri amanti amati.


ATTO TERZO


SCENA PRIMA

Mirtillo.

O primavera, gioventù de l’anno, bella madre di fiori, d’erbe novelle e di novelli amori, tu torni ben, ma teco non tornano i sereni e fortunati di de le mie gioie; tu torni ben, tu torni, ma teco altro non torna che del perduto mio caro tesoro la rimembranza misera e dolente.

Tu quella se’, tu quella

ch’eri pur dianzi si vezzosa e bella;

ma non son io già quel ch’un tempo fui

si caro agli occhi altrui.

O dolcezze amarissime d’Amore, quanto è più duro perdervi, che mai non v’aver o provate o possedute!

Come saria l’amar felice stato,

se ’l già goduto ben non si perdesse;

o, quando egli si perde,

ogni memoria ancora

del dileguato ben si dileguasse!

Ma, se le mie speranze oggi non sono, com’è l’usato lor, di fragil vetro,


G. B. Guarini.


6


82


IL PASTOR FIDO


o se maggior del vero

non fa la speme il desiar soverchio,

qui pur vedrò colei

eh’è ’l sol degli occhi miei;

e, s’altri non m’inganna,

qui pur vedrolla al suon de’ miei sospiri

fermar il piè fugace.

Qui pur da le dolcezze di quel bel volto avrà soave cibo nel suo lungo digiun l’avida vista; qui pur vedrò quell’empia girar inverso me le luci altère, se non dolci, alinen fere, e, se non cardie d’amorosa gioia, si crude almen, eh’ i’ moia.

Oh lungamente sospirato invano

avventuroso di, se, dopo tanti

foschi giorni di pianti,

tu mi concedi, Amor, di veder oggi

ne’ begli occhi di lei

girar sereno il sol degli occhi miei!

Ma qui mandommi Ergasto, ove mi disse

ch'esser doveano insieme

Corisca e la bellissima Amarilli

per fare il gioco «de la cieca»; e pure

qui non veggio altra cieca

che la mia cieca voglia,

che va con l’altrui scorta

cercando la sua luce, e non la trova.

O pur frapposto a le dolcezze mie

un qualche amaro intoppo

non abbia il mio destino invido e crudo?

Questa lunga dimora

di paura e d’affanno il cor m’ingombra,

ch’un secolo agli amanti

par ogn’ora che tardi, ogni momento,


ATTO TERZO


83


quell’aspettato ben che fa contento.

Ma chi sa? troppo tardi

son fors’io giunto, e qui m’avrà Corisca,

fors’anco, indarno lungamente atteso.

Fui pur anco sollecito a partirmi.

Oimè! se questa è vero, i’ vo’ morire.


SCENA SECONDA

Amarilli, Mirtillo, coro di ninfe, Corisca.

Amarilli. Ecco la cieca.

Mirtillo. Eccola a punto. Ahi, vista!

Amarilli. Or che si tarda?

Mirtillo. Ahi, voce che m’ha punto

e sanato in un punto!

Amarilli. Ove séte? che fate? e tu, Lisetta,

che si bramavi il gioco « de la cieca », che badi? e tu, Corisca, ove se’ ita?

Mirtillo. Or si che si può dire

eh'Amor è cieco ed ha bendati gli occhi.

Amarilli. Ascoltatemi voi,

che ’l sentier mi scorgete e quinci e quindi

mi tenete per man: come fien giunte

l’altre nostre compagne,

guidatemi lontan da queste piante,

ov’è maggior il vano, e, quivi sola

lasciandomi nel mezzo,

ite con l’altre in schiera e tutte insieme

fatemi cerchio, e s’incominci il gioco.

Mirtillo. Ma che sarà di me? fin qui non veggio qual mi possa venir da questo gioco comodità che ’l mio desire adempia; né so veder Corisca, eh’è la mia tramontana. Il del m’aiti.


84


IL PASTOR FIDO


Amarilli. Alfin séte venute. E che pensaste

di non far altro che bendarmi gli occhi? Pazzerelle che séte! Or cominciamo. Coro. Cieco, Amor, non ti cred’io, ma fai cieco il desio di chi ti crede;

ché, s’hai pur poca vista, hai minor fede. Cieco o no, mi tenti invano; e per girti lontano ecco m’allargo;

che, cosi cieco, ancor vedi più d’Argo.

Cosi cieco m’annodasti

e cieco m’ingannasti;

or che vo sciolto,

se ti credessi più, sarei ben stolto.

Fuggi e scherza pur, se sai; già non fara’ tu mai che ’n te mi fidi,

perché non sai scherzar se non ancidi. Amarilli. Ma voi giocate troppo largo e troppo vi guardate da rischio: fuggir bisogna si, ma ferir prima. Toccatemi, accostatevi, ché sempre non ve n’andrete sciolte.

Mirtillo. O sommi dèi, che miro? o dove sono? in cielo o in terra? O cieli, i vostri eterni giri

han si dolce armonia? le vostre stelle han si leggiadri aspetti?

Coro. Ma tu pur, perfido cieco, mi chiami a scherzar teco; ed ecco scherzo

e col piè fuggo e con la man ti sferzo.

E corro e ti percoto, e tu t’aggiri a vóto.

Ti pungo ad ora ad ora:


ATTO TERZO


85


né tu mi prendi ancora, o cieco Amore, perché libero ho il core.

Amarilli. In buona fé, Licori,

ch'i’ mi pensai d’averti presa, e trovo d’aver presa una pianta.

Sento ben che tu ridi.

Mirtillo. Deh, foss’io quella pianta!

Or non vegg’io Corisca

tra quelle fratte ascosa? È dessa certo;

e non so che m’accenna,

che non intendo, e pur m’accenna ancora.

Coro. Sciolto cor fa piè fugace.

O lusinghier fallace, ancor m’alletti

a’ tuo’ vezzi mentiti, a’ tuo’ diletti?

E pur di nuovo i’ riedo,

e giro e fuggo e fiedo

e torno; e non mi prendi *

e sempre invan m’attendi,

o cieco Amore,

perché libero ho il core.

Amarilli. Oh! fusti svelta, maladetta pianta, che pur anco ti prendo, quantunque un’altra al brancolar mi sembri!

. Forse eh’i’non credei

d’averti franca a questa volta, Elisa?

Mirtillo. E pur anco non cessa

d’accennarmi Corisca, e si sdegnosa, che sembra minacciar. Vorrebbe forse che mi mischiassi anch’io tra quelle ninfe?

Amarilli. Dunque giocar debb’io tutt’oggi con le piante?

Corisca. Bisogna pur che mal mio grado i’ parli ed esca de la buca.

Prendila, dappochissimo: che badi?


86


IL PASTOR FIDO


ch’ella ti corra in braccio? o lasciati almen prendere. Su, dammi cotesto dardo, e valle incontra, sciocco! Mirtillo. Oh come mal s’accorda l’animo col desio!

Si poco ardisce il cor che tanto brama! Amarilli. Per questa volta ancor tornisi al gioco,

ché son già stanca e, per mia fé, voi séte troppo indiscrete a farmi correr tanto. Coro. Mira nume trionfante,

a cui dà il mondo amante empio tributo ! •

Eccol oggi deriso, eccol battuto.

Si come ai rai del sole cieca nottola suole, c’ha mille augei d’intorno che le fan guerra e scorno, ed ella picchia

col becco invano e s’erge e si rannichia; cosi se’ tu beffato,

Amore, in ogni lato: chi ’l tergo e chi le gote ti stimola e percote; e poco vale

perché stendi gli artigli o batti l’ale.

Gioco dolce ha pania amara;

e ben l’impara

augei che vi s’invesca.

Non sa fuggir Amor, chi seco tresca.


ATTO TERZO


  • 7


SCENA TERZA Amarilli, Corisca, Mirtillo.


Amarilli. Affé t’ho colta, Aglauro !

Tu vuoi fuggir? t’abbraccerò si stretta... Corisca. (Certamente, se contra

non gliel avessi a l’improvviso spinto con si grand’urto, i’ faticava in vano per far ch'egli vi gisse.)

Amarilli. Tu non parli: se’ dessa o non se’dessa? Corisca. (Qui ripongo il suo dardo, e nel cespuglio torno per osservar ciò che ne segue.) Amarilli. Or ti conosco, si: tu se’Corisca,

che se’ si grande e senza chioma. A punto altra che te non volev’io, per darti de le pugna a mio senno.

Or te’ questo e quest’altro,

e quest’anco e poi questo. Ancor non parli?

Ma, se tu mi legasti, anco mi sciogli,

e fa’ tosto, cor mio,

ch’i’ vo’ poi darti il più soave bacio,

ch’avessi mai. Che tardi?

par che la man ti tremi. Se’ si stanca?

Mettici i denti, se non puoi con l’ugna.

Oh quanto se’melensa!

Ma lascia far a me, ché da me stessa mi leverò d’impaccio.

Or ve’ con quanti nodi mi legasti tu stretta !

Se può toccar a te Tesser la cieca...

Son pur, ecco, sbendata. Oimè! che veggio? Lasciami, traditori Oimè! son morta!


ss


IL PASTOR FIDO


Mirtillo. Sta’ cheta, anima mia!

Amarilli. Lasciami, dico,

lasciami! Cosi dunque si fa forza a le ninfe? Aglauro, Elisa! ah, perfide! ove séte?

Lasciami, traditore!

Mirtillo. Ecco ti lascio.

Amarilli. Quest’è un inganno di Corisca. Or togli quel che n’hai guadagnato.

Mirtillo. Dove fuggi, crudele

Mira almen la mia morte. Ecco, mi passo con questo dardo il petto.

Amarilli. Oimè! che fai?

Mirtillo. Quel che forse ti pesa

ch’altri faccia per te, ninfa crudele.

Amarilli. Oimè, son quasi morta!

Mirtillo. E se quest’opra a la tua man si deve, ecco ’l ferro, ecco ’l petto.

Amarilli. Ben il meriteresti. E chi t’ha dato cotanto ardir, presontuoso?

Mirtillo. Amore.

Amarilli. Amor non è cagion d’atto villano.

Mirtillo. Dunque in me credi amore,

poi che discreto fui, ché se prendesti tu prima me, son io tanto men degno d’esser da te di villania notato, quanto, con si vezzosa comodità d’esser ardito e quando potei le leggi usar teco d’Amore, fui però si discreto, che quasi mi scordai d’esser amante.

Amarilli. Non mi rimproverar quel che fei cieca.

Mirtillo. Ah, che tanto più cieco

son io di te, quanto più sono amante!

Amarilli. Preghi e lusinghe, e non insidie e furti, usa il discreto amante.


atto terzo


39

Mirtillo. Come selvaggia fera, cacciata da la fame, esce dal bosco e ’l peregrino assale, tal io, ché sol de’ tuo’ begli occhi i’ vivo.

Poi che l’amato cibo

o tua fierezza o mio destin mi nega,

se, famelico amante,

uscendo oggi de’ boschi ov’io soffersi

digiun misero e lungo,

quello scampo tentai per mia salute,

che mi dettò necessità d’amore,

% non incolpar già me, ninfa crudele;

te sola pur incolpa, ché, se co' preghi sol, come dicesti, s’ama discretamente, e con lusinghe, e ciò da me non aspettasti mai, tu sola, tu m’hai tolto, con la durezza tua, con la tua fuga,

Tesser discreto amante.

Amarili.i. Assai discreto amante esser potevi, lasciando di seguir chi ti fuggiva.

Pur sai che ’nvan mi segui.

Che vói da me?

Mirtillo. Ch’una sola fiata

degni almen d’ascoltarmi, anzi ch’io moia.

Amarili.i. Buon per te che la grazia,

prima che l’abbi chiesta, hai ricevuta.

Vattene dunque.

Mirtillo. Ah! ninfa,

quel che t’ho detto, a pena è una minuta stilla de l’infinito mar del pianto mio.

Deh! se non per pietate,

almen per tuo diletto ascolta, cruda,

di chi si vuol morir gli ultimi accenti.

Amarilli. Per levar te d’errore e me d’impaccio,



IL PASTOR FIDO


son contenta d’udirti;

ma ve’ ! con queste leggi :

di’ poco, e tosto parti, e più non torna.

Mirtillo. In troppo picciol fascio, crudelissima ninfa, stringer tu mi comandi quell’immenso desio, che, se con altro, misurar si potesse che con pensiero umano, a pena il capiria ciò che capire puote in pensiero umano.

Ch’i’t’ami, e t’ami più de la mia vita,

se tu noi sai, crudele,

chiedilo a queste selve,

che tei diranno, e tei diran con esse

le fère loro e i duri sterpi e i sassi

di questi alpestri monti,

ch’i’ho si spesse volte

inteneriti al suon de’ miei lamenti.

Ma che bisogna far cotanta fede de l’amor mio, dov’è bellezza tanta?

Mira quante vaghezze ha '1 ciel sereno, quante la terra, e tutte raccogli in picciol giro; indi vedrai l’alta necessità de l’arder mio.

E come l’acqua scende e ’l foco sale

per sua natura, e l’aria

vaga e posa la terra e ’l ciel s’aggira,

cosi naturalmente a te s’inchina,

come a suo bene, il mio pensiero, e corre

a le bellezze amate

con ogni affetto suo l’anima mia.

E chi di traviarla

dal caro oggetto suo forse pensasse,

prima torcer porria

da l’usato cammino e cielo e terra


ATTO TERZO


91


ed acqua ed aria e foco, e tutto trar da le sue sedi il mondo.

Ma, perché mi comandi ch’io dica poco, ah cruda! poco dirò, s’io dirò sol ch’io moro; e men farò morendo,

s’io miro a quel che del mio strazio brami.

Ma farò quello, aimè! che sol m’avanza, miseramente amando.

Ma, poi che sarò morto, anima cruda, avrai tu almen pietà de le mie pene?

Deh ! bella e cara e si soave un tempo

cagion del viver mio, mentre a Dio piacque,

volgi una volta, volgi

quelle stelle amorose,

come le vidi mai, cosi tranquille

e piene di pietà, prima ch’i’ moia,

ché ’l morir mi sia dolce.

E dritto è ben che, se mi furo un tempo

dolci segni di vita, or sien di morte

que’ begli occhi amorosi;

e quel soave sguardo,

che mi scorse ad amare,

mi scorga anco a morire;

e chi fu l’alba mia,

del mio cadente di l’espero or sia.

Ma tu, più che mai dura, favilla di pietà non senti ancora; anzi t’inaspri più, quanto più prego.

Cosi senza parlar dunque m’ascolti?

A chi parlo, infelice? a un muto marmo?

S’altro non mi vuoi dir, dimmi almen: — Mori! — e morir mi vedrai.

Questa è ben, empio Amor, miseria estrema, che si rigida ninfa e del mio fin si vaga,


9 2


IL PASTOR FIDO


Amarilli.


perché grazia di lei

non sia la morte mia, morte mi neghi, né mi risponda, e l’armi d’ una sola sdegnosa e cruda voce sdegni di proferire al mio morir.

Se dianzi t’avess’ io promesso di risponderti, si come d’ascoltar ti promisi, qualche giusta cagion di lamentarti del mio silenzio avresti.

Tu mi chiami crudele, immaginando

che da la ferità rimproverata

agevole ti sia forse il ritrarmi

al suo contrario affetto;

né sai tu che l’orecchie

cosi non mi lusinga il suon di quelle

da me si poco meritate e molto

meno gradite lodi,

che mi dai di beltà, come mi giova

il sentirmi chiamar da te crudele.

L’esser cruda ad ogn’altro, già noi nego, è peccato; a l’amante, è virtute; ed è vera onestate quella che ’n bella donna chiami tu feritate.

Ma sia, come tu vuoi, peccato e biasmo Tesser cruda a l’amante: or quando mai ti fu cruda Amarilli?

Forse allor che giustizia

stato sarebbe il non usar pietate?

E pur teco l’usai

tanto, ch’a dura morte i’ ti sottrassi.

I’ dico allor che tu, fra nobil coro di vergini pudiche,


ATTO TERZO


93


libidinoso amante,

sotto abito mentito di donzella

ti mescolasti e, i puri scherzi altrui

contaminando, ardisti

mischiar tra finti ed innocenti baci

baci impuri e lascivi,

che la memoria ancor se ne vergogna.

Ma sallo il ciel, ch’allor non ti conobbi,

e che poi, conosciuto,

sdegno n’ebbi, e serbai

da le lascivie tue l’animo intatto;

né lasciai che corresse

Pamoroso veneno al cor pudico,

ch’alfin non violasti

se non la sommità di queste labbra.

« Bocca baciata a forza,

se ’l bacio sputa, ogni vergogna ammorza ». Ma dimmi tu: qual frutto avresti allora dal temerario tuo furto raccolto, se t’avess’io scoperto a quelle ninfe?

Non fu su P Ebro mai

si fieramente lacerato e morto

da le donne di Tracia il tracio Orfeo,

come stato da loro

saresti tu, se non ti dava aita

la pietà di colei che cruda or chiami.

Ma non è cruda già quanto bisogna,

ché, se cotanto ardisci

quando ti son crudele,

ché faresti tu poi,

se pietosa ti fussi?

Quella sana pietà che dar potei, quella t’ho dato. In altro modo è vano che tu la chiedi o speri, ché pietate amorosa mal si dà per colei


94


IL PASTOR FIDO


che per sé non la trova, poi che l’ha data altrui.

Ama l’onestà mia, s’amante sei; ama la mia salute, ama la vita.

Troppo lunge se’ tu da quel che brami.

Il proibisce il ciel, la terra il guarda e ’l vendica la morte;

ma più d’ogn’altro e con più saldo scudo l’onestate il difende, ché sdegna alma bennata più fido guardatore

aver del proprio onore. Or datti pace

dunque, Mirtillo, e guerra

non far a me. Fuggi lontano e vivi,

se saggio se’: ch’abbandonar la vita

per soverchio dolore,

non è atto o pensiero

di magnanimo core;

ed è vera virtute

il sapersi astener da quel che piace, se quel, che piace, offende.

Mirtillo. Non è in man di chi perde l’anima, il non morire.

Amarilli. Chi s’arma di virtù, vince ogni affetto. Mirtillo. Virtù non vince ove trionfa Amore.

Amarilli. Chi non può quel che vuol, quel che può voglia. Mirtillo. Necessità d’amor legge non bave.

Amarilli. La lontananza ogni gran piaga salda. Mirtillo. Quel che nel cor si porta, invan si fugge. Amarilli. Scaccerà vecchio amor novo desio.

Mirtillo. Si, s’un’altra alma e un altro core avessi. Amarilli. Consuma il tempo finalmente amore. Mirtillo. Ma prima il crudo amor l’alma consuma. Amarilli. Cosi, dunque, il tuo mal non ha rimedio? Mirtillo. Non ha rimedio alcun, se non la morte. Amarilli. La morte? Or tu m’ascolta e fa’ che legge


ATTO TERZO


95


ti sian queste parole. Ancor ch’i’ sappia che ’1 morir degli amanti è più tosto uso d’innamorata lingua che desio d’animo in ciò deliberato e fermo, pur se talento mai e si strano e si folle a te venisse, sappi che la tua morte non men de la mia fama che de la vita tua morte sarebbe.

Vivi dunque, se m’ami;

vattene, e da qui innanzi avrò per chiaro

segno che tu sii saggio,

se con ogni tuo ingegno

ti guarderai di capitarmi innanti.

Mirtillo. Oh sentenza crudele!

Come viver poss’io

senza la vita? o come

dar fin senza la morte al mio tormento?

Amarilli. Orsù ! Mirtillo, è tempo

che tu ten vada; e troppo lungamente hai dimorato ancora.

Partiti; e ti consola, ch’infinità è la schiera degli infelici amanti.

Vive ben altri in pianti si come tu, Mirtillo. Ogni ferita ha seco il suo dolore, né se’ tu solo a lagrimar d'amore.

Mirtillo. Misero infra gli amanti

già solo non son io; ma son ben solo miserabile esempio e de’ vivi e de’ morti, non potendo né viver né morire.

Amarilli. Orsù ! partiti ornai.

Mirtillo. Ah, dolente partita!

ah, fin de la mia vita!


IL PASTOR FIDO


da te parto e non moro? E pur i’ provo

la pena de la morte

e sento nel partire

un vivace morire,

che dà vita al dolore

per far che moia immortalmente il core.


SCENA QUARTA Amarilli.

O Mirtillo, Mirtillo, anima mia,

se vedessi qui dentro

come sta il cor di questa

che chiami crudelissima Amarilli,

so ben che tu di lei

quella pietà, che da lei chiedi, avresti.

Oh anime in amor troppo infelici!

che giova a te, cor mio, Tesser amato?

che giova a me l’aver si caro amante?

Perché, crudo destino,

ne disunisci tu, s’Amor ne strigne?

e tu, perché ne strigni,

se ne parte il destin, perfido Amore?

Oh fortunate voi, fère selvagge, a cui l'alma natura

non die’ legge in amar se non d'amore !

Legge umana inumana,

che dài per pena de l’amar la morte!

Se ’1 peccar è si dolce

e ’l non peccar si necessario, oh troppo

imperfetta natura

che repugni a la legge!

oh ! troppo dura legge

che la natura offendi!


ATTO TERZO


97


Ma che? poco ama altrui chi ’l morir teme.

Piacesse pur al ciel, Mirtillo mio,

che sol pena al peccar fusse la morte !

Santissima Onestà, che sola sei

d’alma bennata inviolabil nume,

quest’amorosa voglia,

che svenata ho col ferro

del tuo santo rigor, qual innocente

vittima a te consacro.

E tu, Mirtillo, anima mia, perdona

a chi t’è cruda sol dove pietosa

esser non può; perdona a questa, solo

nei detti e nel sembiante

rigida tua nemica, ma nel core

pietosissima amante;

e, se pur hai desio di vendicarti,

deh ! qual vendetta aver puoi tu maggiore

del tuo proprio dolore?

Che se tu se’ ’l cor mio,

come se’ pur mal grado

del cielo e de la terra,

qualor piagni e sospiri,

quelle lagrime tue sono il mio sangue,

que’ sospiri il mio spirto e quelle pene

e quel dolor, che senti,

son miei, non tuoi, tormenti.


SCENA QUINTA Corisca, Amarilli.

Corisca. Non t’asconder già più, sorella mia. Amarilli. (Meschina me, son discoperta!)

Corisca. Il tutto

ho troppo ben inteso. Or non m’apposi?


G. B. Guarini.


7


98


IL PASTOR FIDO


non ti diss’io ch’amavi? Or ne son certa. E da me tu ti guardi? a me l’ascondi? a me che t’amo si? Non t’arrossire, non t’arrossir, ché questo è mal comune.

Amarilli. Io son vinta, Corisca, e tei confesso.

Corisca. Or che negar noi puoi, tu mel confessi.

Amarilli. E ben m’avveggio, ahi, lassa!

che troppo angusto vaso è debil core a traboccante amore.

Corisca. O cruda al tuo Mirtillo, e più cruda a t.e stessa!

Amarilli. Non è fierezza quella che nasce da pietate.

Corisca. Aconito e cicuta

nascer da salutifera radice non si vide già mai.

Che differenza fai da crudeltà ch’offende,

4

a pietà che non giova?

Amarilli. Oimè, Corisca!

Corisca. Il sospirar, sorella,

è debolezza e vanità di core, e proprio è de le femmine da poche.

Amarilli. Non sarei più crudele,

se ’n lui nudrissi amor senza speranza?

Il fuggirlo è pur segno ch’i' ho compassione del suo male e del mio.

Corisca. Perché senza speranza?

Amarilli. Non sai tu che promessa a Silvio sono? Non sai tu che la legge condanna a morte ogni donzella ch’aggia violata la fede?

Corisca. O semplicetta! ed altro non t’arresta? Qual è tra noi più antica, la legge di Diana o pur d’Amore?


ATTO TERZO


99


Questa ne’ nostri petti

nasce, Amarilli, e con l’età s’avanza;

né s’apprende o s’insegna,

ma negli umani cuori,

senza maestro, la natura stessa

di propria man l’imprime;

e dov’ella comanda,

ubbidisce anco il ciel, non che la terra.

Amarilli. E pur, se questa legge mi togliesse la vita, quella d’Amor non mi darebbe aita.

Corisca. Tu se’ troppo guardinga. Se cotali fusser tutte le donne e cotali rispetti avesser tutte, buon tempo, addio! Soggette a questa pena stimo le poche pratiche, Amarilli; per quelle, che son sagge, non è fatta la legge.

Se tutte le colpevoli uccidesse,

credimi, senza donne

resterebbe il paese; e, se le sciocche

v’ inciampano, è ben dritto

che ’l rubar sia vietato

a chi leggiadramente

non sa celare il furto,

ch’altro alfin l’onestate

non è che un’arte di parere onesta.

Creda ognun a suo modo: io cosi credo.

Amarilli. Queste son vanità, Corisca mia.

Gran senno è lasciar tosto quel che non può tenersi.

Corisca. E chi tei vieta, sciocca?

Troppo breve è la vita da trapassarla con un solo amore; troppo gli uomini avari, o sia difetto o pur fierezza loro,


IOO


IL PASTOR FIDO


ci son de le lor grazie.

E sai? tanto siam care,

tanto gradite altrui, quanto siam fresche.

Levaci la beltà, la giovinezza;

come alberghi di pecchie

restiamo, senza favi e senza mèle,

negletti aridi tronchi.

Lascia gracchiar agli uomini, Amarilli,

però ch’essi non sanno

né sentono i disagi de le donne,

e troppo differente

da la condizion de l’uomo è quella

de la misera donna.

Quanto più invecchia, l’uomo

diventa più perfetto,

e, se perde bellezza, acquista senno.

Ma in noi con la beltate

e con la gioventù, da cui si spesso

il viril senno e la possanza è vinta,

manca ogni nostro ben; né si può dire

né pensar la più sozza

cosa né la più vii di donna vecchia.

Or, prima che tu giunga a questa nostra universal miseria, conosci i pregi tuoi.

Se t’è la vita destra, non l’usar a sinistra.

Che varrebbe al leone

la sua ferocità, se non l’usasse?

Che gioverebbe a l’uomo,

l’ingegno suo, se non l’usasse a tempo?

Cosi noi la bellezza,

eh’è virtù nostra, cosi propria come

la forza del leone

e l’ingegno de l’uomo,

usiam mentre l’abbiamo.


ATTO TERZO



IOI


Godiam, sorella mia,

godiam, ché ’1 tempo vola e posson gli anni

ben ristorar i danni

de la passata lor fredda vecchiezza;

ma, s’in noi giovinezza

una volta si perde,

mai più non si rinverde.

Ed a canuto e livido sembiante può ben tornar amor, ma non amante.

Amarilli. Tu, come credo, in questa guisa parli per tentarmi, Corisca, più tosto che per dir quel che ne senti.

E però sii pur certa

che, se tu non mi mostri agevol modo,

e sopra tutto onesto,

di fuggir queste nozze,

ho fatto irrevocabile pensiero

di più tosto morir che macchiar mai

l’onestà mia, Corisca.

Corisca. (Non ho veduto mai la più ostinata femmina di costei.)

Poi che questo conchiudi, eccomi pronta.

Dimmi un poco, Amarilli:

credi tu forse che ’1 tuo Silvio sia

tanto di fede amico

quanto tu d’onestate?

Amarilli. Tu mi farai ben ridere: di fede amico Silvio? e come, s’è nemico d’amore?

Corisca. Silvio d’amor nemico? O semplicetta! tu noi conosci. E’ sa far e tacere, ti so dir io. Quest’anime si schife, eh? non ti fidar di loro.

Non è furto d’amor tanto sicuro né di tanta finezza, quanto quel che s’asconde


102


IL PASTOR FIDO


sotto il vel d’onestate.

Ama dunque il tuo Silvio, ma non già te, sorella.

Amarilli. E quale è questa dea,

ché certo esser non può donna mortale, che l’ha d’amore acceso?

Corisca. Né dea né anco ninfa.

Amarilli. Oh che mi narri!

Corisca. Conosci tu la mia Lisetta?

Amarilli. Quale

Lisetta tua? la pecoraia?

Corisca. Quella.

Amarilli. Di’ tu vero, Corisca?

Corisca. Questa è dessa,

questa è l’anima sua.

Amarilli. Or vedi se lo schifo

s’è d’un leggiadro amor ben provveduto!

Corisca. E sai come ne spasima e ne muore?

Ogni giorno s’infinge d’ire a la caccia. ...

Amarilli. Ogni mattina a punto

sento su l’alba il maladetto corno.

Corisca. ... e sul fitto meriggio,

mentre che gli altri sono

più fervidi ne l’opra, ed egli allotta

da’compagni s’invola e vien soletto

per via non trita al mio giardino, ov’ella

tra le fessure d’una siepe ombrosa,

che ’l giardin chiude, i suoi sospiri ardenti,

i suoi prieghi amorosi ascolta, e poi

a me gli narra e ride. Or odi quello

che pensato ho di fare, anzi ho già fatto,

per tuo servigio. Io credo ben che sappi

che la medesma legge, che comanda

a la donna il servar fede al suo sposo,

ha comandato ancor che, ritrovando


ATTO TERZO


IO 3


Amarilli

CoRISCA.


Amarilli.

CORISCA.


ella il suo sposo in atto di perfidia, possa, mal grado de’ parenti suoi, negar d’essergli sposa, e d’altro amante onestamente provvedersi.

Questo

so molto bene, ed anco alcuno esempio veduto n’ho: Leucippe a Ligurino,

Egle a Licota, ed a Turingo Armilla, trovati senza fé, la data fede ricoveraron tutte.

Or tu m’ascolta.

Lisetta mia, cosi da me avvertita, ha col fanciullo amante e poco cauto d’esser in quello speco oggi con lei ordine dato, ond’egli è ’l più contento garzon che viva, e sol n’attende l’ora. Quivi vo’ che tu ’l colga. I’ sarò teco per testimon del tutto, ché senz’esso vana sarebbe l’opra, e cosi sciolta sarai senza periglio, e con tuo onore e con onor del padre tuo, da questo si noioso legame.

Oh quanto bene

hai pensato, Corisca! Or che ci resta? Quel ch’ora intenderai. Tu bene osserva le mie parole. A mezzo de lo speco, eh’è di forma assai lunga e poco larga, su la man dritta, è nel cavato sasso una, non so ben dir se fatta sia o per natura o per industria umana, picciola cavernetta, d’ogni intorno tutta vestita d’edera tenace, a cui dà lume un picciolo pertugio che d’alto s’apre, assai grato ricetto ed a’ furti d’amor comodo molto.

Or tu, gli amanti prevenendo, quivi


io*


IL PASTOR FIDO


fa’ che t’ascondi e ’l venir loro attendi. Invierò la mia Lisetta intanto; poi, le vestigia di lontan seguendo di Silvio, come pria sceso ne l’antro vedrollo, entrando anch’io subitamente, il prenderò perché non fugga, e ’nsieme farò (ché cosi seco ho divisato) con Lisetta grandissimi rumori, a’ quali tosto accorrerai tu ancora e, secondo il costume, esequirai contra Silvio la legge; e poi n’andremo ambedue con Lisetta al sacerdote, e cosi il maritai nodo sciorrai.

Amarilli. Dinanzi al padre suo?

Corisca. Che ’mporta questo?

Pensi tu che Montano il suo privato

comodo debbia al publico antiporre? ed al sacro il profano?

Amarilli. Or dunque, gli occhi

chiudendo, fedelissima mia scorta,

a te regger mi lascio.

Corisca. Ma non tardar; entra, ben mio.

Amarilli. Vo’ prima

girmene al tempio a venerar gli dèi, ché fortunato fin non può sortire, se non la scorge il ciel, mortale impresa.

Corisca. Ogni loco, Amarilli, è degno tempio di ben devoto core.

Perderai troppo tempo.

Amarilli. Non si può perder tempo nel far preghi a coloro che comandano al tempo.

Corisca. Vanne dunque, e vien’ tosto.

Or, s’io non erro, a buon camin son vòlta. Mi turba sol questa tardanza. Pure potrebbe anco giovarmi. Or mi bisogna


ATTO TERZO


105


tesser novello inganno. A Coridone amante mio creder farò che seco trovar mi voglia; e nel medesim’antro dopo Amarilli il manderò, là dove farò venir per più segreta strada di Diana i ministri a prender lei, la qual, come colpevole, a morire sarà senz’alcun dubbio condennata.

Spenta la mia rivale, alcun contrasto non avrò più per ispugnar Mirtillo, che per lei m’è crudele. Eccol a punto.

Oh come a tempo! I’vo'tentarlo alquanto, mentre Amarilli mi dà tempo. Amore, vien’ ne la lingua mia tutto e nel volto.


SCENA SESTA Mirtillo, Corisca,

Mirtillo. Udite, lagrimosi

spirti d’Averno, udite

nova sorte di pena e di tormento;

mirate crudo affetto

in sembiante pietoso:

la mia donna, crudel più de l’inferno,

perch’una sola morte

non può far sazia la sua fiera voglia

(e la mia vita è quasi

una perpetua morte),

mi comanda eh’i’viva,

perché la vita mia

di mille morti il di ricetto sia.

Corisca. (M’infingerò di non l’aver veduto).

Sento una voce querula e dolente sonar d’intorno, e non so dir di cui. Oh! se’tu, il mio Mirtillo?


106 IL PASTOR FIDO

Mirtillo. Cosi foss’io nud’ombra e poca polve!

Corisca. E ben, come ti senti

da poi che lungamente ragionasti con l’amata tua donna?

Mirtillo. Come assetato infermo che bramò lungamente il vietato licor, se mai vi giunge, meschin ! beve la morte, e spegne anzi la vita che la sete; tal io, gran tempo infermo e d’amorosa sete arso e consunto, in duo bramati fonti, che stillan ghiaccio da l’alpestre vena d’un indurato core, ho bevuto il veleno, e spento il viver mio più tosto che ’1 desio.

Corisca. Tanto è possente amore

quanto dai nostri cor forza riceve,

caro Mirtillo; e, come l’orsa suole

con la lingua dar forma

a l’informe suo parto,

che per sé fora inutilmente nato,

cosi l’amante ai semplice desire,

che nel suo nascimento

era infermo ed informe,

dando forma e vigore,

ne fa nascere amore.

Il qual prima, nascendo,

è delicato e tenero bambino,

e, mentre è tale in noi, sempre è soave

ma, se troppo s’avanza

divien aspro e crudele,

ch’alfin, Mirtillo, un invecchiato affetto

si fa pena e difetto.

Che, s’in un sol pensiero


ATTO TERZO


107


l’anima, immaginando, si condensa e troppo in lui s’affisa, l’amor, ch’esser dovrebbe pura gioia e dolcezza, si fa malinconia

e, quel eh’è peggio, alfin morte o pazzia. Però saggio è quel core che spesso cangia amore.

Mirtillo. Prima che mai cangiar voglia o pensiero, cangerò vita in morte, però che la bellissima Amarilli, cosi com’è crudel, com’è spietata, sola è la vita mia, né può già sostener corporea salma più d’un cor, più d’un’alma.

Corisca. O misero pastore, come sai mal usare per lo suo dritto amore!

Amar chi m’odia e seguir chi mi fugge? Eh! i’ mi morrei ben prima.

Mirtillo. Come l’oro nel foco,

cosi la fede nel dolor s’affina,

Corisca mia, né può senza fierezza dimostrar sua possanza amorosa invincibile costanza.

Questo solo mi resta,

fra tanti affanni miei, dolce conforto.

Arda pur sempre o mora

o languisca il cor mio,

a lui fien lievi pene

per si bella cagion pianti e sospiri,

strazio, pene, tormenti, esilio e morte,

pur che prima la vita,

che questa fé, si scioglia,

ch’assai peggio di morte è il cangiar voglia.

Corisca. Oh bella impresa! Oh valoroso amante,


io8


IL PASTOR FIDO


come ostinata fèra, come insensato scoglio, rigido e pertinace!

Non è la maggior peste

né ’l più fero e mortifero veleno

a un’anima amorosa, de la fede.

Infelice quel core

che si lascia ingannar da questa vana fantasima d’errore e de’ più cari amorosi diletti turbatrice importuna!

Dimmi, povero amante:

con cotesta tua folle

virtù de la costanza,

che cosa ami in colei che ti disprezza?

Ami tu la bellezza,

che non è tua? la gioia che non hai? la pietà che sospiri? la mercé che non speri?

Altro non ami alfin, se dritto miri,

che '1 tuo mal, che ’l tuo duol, che la tua morte.

E se’ si forsennato,

ch’amar vuoi sempre, e non esser amato?

Deh! risorgi, Mirtillo; riconosci te stesso.

Forse ti mancheran gli amori? forse non troverai chi ti gradisca e pregi?

Mirtillo. M’è più dolce il penar per Amarilli, che il gioir di mill'altre; e se gioir di lei

mi vieta il mio destino, oggi si moia per me pure ogni gioia.

Viver io fortunato

per altra donna mai, per altro amore? né, volendo, il potrei, né, potendo, il vorrei.


atto terzo


109


E, s'esser può che ’n alcun tempo mai

ciò voglia il mio volere

o possa il mio potere,

prego il cielo ed Amor che tolto pria

ogni voler, ogni poter mi sia.

Corisca. Oh core ammaliato !

Per una cruda, dunque, tanto sprezzi te stesso?

Mirtillo. Chi non spera pietà, non teme affanno, Corisca mia.

Corisca. Non t’ingannar, Mirtillo,

ché forse da dovero

non credi ancor ch’ella non t’ami e ch’ella da dovero ti sprezzi.

Se tu sapessi quello

che sovente di te meco ragiona!

Mi rtillo. Tutti questi pur sono

amorosi trofei de la mia fede.

Trionferò con questa

del cielo e de la terra,

de la sua cruda voglia,

de le mie pene e de la dura sorte,

di fortuna, del mondo e de la morte.

Corisca. (Che farebbe costui quando sapesse

d’esser da lei si grandemente amato?)

Oh qual compassione

t’ho io, Mirtillo, di cotesta tua

misera frenesia!

Dimmi : amasti tu mai altra donna che questa?

Mirtillo. Primo amor del cor mio fu la bella Amarilli, e la bella Amarilli sarà l’ultimo ancora.

Corisca. Dunque, per quel ch’i’veggia, non provasti tu mai


I IO


IL PASTOR FIDO


se non crudele Amor, se non sdegnoso.

Deh, s’una volta sola il provassi soave e cortese e gentile !

Provalo un poco, provalo; e vedrai com’è dolce il gioire per gratissima donna che t’adori quanto fai tu la tua

%

crudele ed amarissima Amarilli;

com’è soave cosa

tanto goder quanto ami,

tanto aver quanto brami;

sentir che la tua donna

ai tuoi caldi sospiri

caldamente sospiri,

e dica poi: — Ben mio,

quanto son, quanto miri,

tutto è tuo. S’io son bella,

a te solo son bella; a te s’adorna

questo viso, quest’oro e questo seno;

in questo petto mio

alberghi tu, caro mio cor, non io. —

Ma questo è un picciol rivo

rispetto a l’ampio mar de le dolcezze

che fa gustar Amore;

ma non le sa ben dir chi non le prova.

Mirtillo. Oh mille volte fortunato e mille chi nasce in tale stella!

Corisca. Ascoltami, Mirtillo

(quasi m’usci di bocca «anima mia»), una ninfa gentile,

fra quante o spieghi al vento o ’n treccia annodi

chioma d’oro leggiadra,

degna de l’amor tuo

come se’ tu del suo,

onor di queste selve,


ATTO TERZO


i r r


amor di tutti i cori ;

dai più degni pastori

invan sollecitata, invan seguita,

te solo adora ed ama

più de la vita sua. più del suo core.

Se saggio se’, Mirtillo,

tu non la sprezzerai.

Come l’ombra del corpo, cosi questa fia sempre de l’orme tue seguace; al tuo detto, al tuo cenno ubbidiente ancella, a tutte l’ore de la notte e del di teco l’avrai.

Deh ! non lasciar, Mirtillo, questa rara ventura.

Non è piacere al mondo più soave di quel che non ti costa né sospiri né pianto né periglio né tempo.

Un comodo diletto, una dolcezza a le tue voglie pronta, a l’appetito tuo sempre, al tuo gusto apparecchiata, oimè! non è tesoro che la possa pagar. Mirtillo, lascia, lascia di piè fugace la disperata traccia, e chi ti cerca, abbraccia.

Né di speranze vane ti pascerò, Mirtillo: a te sta comandare.

Non è molto lontan chi ti desia.

Se vuoi ora, ora sia.

Mirtillo. Non è il mio cor soggetto d’amoroso diletto.

Corisca. Provai sola una volta,

e poi torna al tuo solito tormento,


I I 2


IL PASTOR FIDO


perché sappi almen dire com’è fatto il gioire.

Mirtillo. Corrotto gusto ogni dolcezza aborre.

Corisca. Fallo almen per dar vita

a chi del sol de’ tuo’ begli occhi vive.

Crudel ! tu sai pur anco

che cosa è povertate

e l’andar mendicando. Ah! se tu brami

per te stesso pietate,

non la negare altrui.

Mirtillo. Che pietà posso dare, non la potendo avere?

Insomma io son fermato

di serbar fin ch’io viva

fede a colei ch’adoro, o cruda o pia

ch’ella sia stata e sia.

Corisca. Oh veramente cieco ed infelice, oh stupido Mirtillo!

A chi serbi tu fede?

Non volea già contaminarti e pena

giugner a la tua pena;

ma troppo se’ tradito,

ed io, che t’amo, sofferir noi posso.

Credi tu ch’Amarilli

ti sia cruda per zelo

o di religione o d’onestate?

Folle se’ ben se ’l credi.

Occupata è la stanza, misero ! ed a te tocca pianger quand’altri ride.

Tu non parli? se’ muto?

Mirtillo. Sta la mia vita in forse tra ’l viver e ’l morire, mentre sta in dubbio il core se ciò creda o non creda; però son io cosi stupido e muto.


ATTO TERZO


"3


Corisca. Dunque tu non mel credi?

Mirtillo. S’io tei credessi, certo

mi vedresti morire; e, s’egli è vero, i’ vo’ morire or ora.

Corisca. Vivi, meschino, vivi;

sèrbati a la vendetta.

Mirtillo. Ma non tei credo e so che non è vero.

Corisca. Ancor non credi, e pur cercando vai

ch’io dica quel che d’ascoltar ti duole.

Vedi tu là quell’antro?

quello è fido custode

de la fé, de l’onor de la tua donna.

Quivi di te si ride, quivi con le tue pene si condiscon le gioie del fortunato tuo lieto rivale.

Quivi, per dirti in somma, molto sovente suole la tua fida Amarilli a rozzo pastorei recarsi in braccio.

Or va', piagni e sospira; or serva fede: tu n’hai cotal mercede.

Mirtillo. Oimè! Corisca, dunque

il ver mi narri e pur convien che il creda?

Corisca. Quanto più vai cercando, tanto peggio udirai e peggio troverai.

Mirtillo. E l’hai veduto tu, Corisca? ahi lasso!

Corisca. Non pur l’ho vedut’io, ma tu ancor il potrai per te stesso vedere, ed oggi a punto, ch’oggi l’ordine è dato, e questa è l’ora. Talché, se tu t’ascondi tra qualcuna di queste fratte vicine, la vedrai tu stesso scender ne l’antro ed indi a poco il vago.


G. B. Guarini.


8


IL PASTOR FIDO


114

Mirtillo. Si tosto ho da morir?

Corisca. Vedila a punto,

che per la via del tempio vien pian piano scendendo.

La vedi tu, Mirtillo?

e non ti par che mova

furtivo il piè, com’ha furtivo il core?

Or qui l’attendi, e ne vedrai l’effetto.

Ci rivedrem da poi.

Mirtillo. Già ch’io son si vicino a chiarirmi del vero, sospenderò con la credenza mia e la vita e la morte.


SCENA SETTIMA

Amarilli.

Non cominci mortale alcuna impresa senza scorta divina. Assai confusa e con incerto cor quinci partimmi per gire al tempio, onde, mercé del cielo, e ben disposta e consolata i’ torno, ch’a le preghiere mie pure e devote m’è paruto sentir moversi dentro un animoso spirito celeste e rincorarmi e quasi dir: — Che temi?

Va’ sicura, Amarilli. — E cosi voglio sicuramente andar, ché ’l ciel mi guida. Bella madre d’Amore, favorisci colei

che ’l tuo soccorso attende.

Donna del terzo giro,

se mai provasti di tuo figlio il foco,

abbi del mio pietate.


ATTO TERZO


1 15


Scorgi, cortese dea,

con piè veloce e scaltro

il pastorello a cui la fede ho data.

E tu, cara spelonca, si chiusamente nel tuo sen ricevi questa serva d’Amor, eh’ in te fornire possa ogni suo desire.

Ma che tardi, Amarilli?

Qui non è chi mi vegga o chi m’ascolti. Entra sicuramente.

O Mirtillo, Mirtillo,

se di trovarmi qui sognar potessi!


SCENA OTTAVA Mirtillo.

Ah pur troppo son desto e troppo miro!

Cosi nato senz’occhi

foss’io piuttosto, o più tosto non nato!

A che, fero destin, serbarmi in vita per condurmi a vedere spettacolo si crudo e si dolente?

O più d’ogni infernale anima tormentata, tormentato Mirtillo,

non stare in dubbio, no; la tua credenza

non sospender già più; tu l’hai veduta

con gli occhi propri, e con gli orecchi udita.

La tua donna è d’altrui,

non per legge del mondo,

che la toglie ad ogni altro;

ma per legge d’Amore,

che la toglie a te solo,

O crudele Amarilli,


IL PASTOR FIDO


dunque non ti bastava

di dar a questo misero la morte,

s’anco non lo schernivi

con quella insidiosa ed incostante

bocca, che le dolcezze di Mirtillo

gradi pur una volta?

Or l’odiato nome,

che forse ti sovvenne

per tuo rimordimento,

non hai voluto a parte

de le dolcezze tue, de le tue gioie,

e ’1 vomitasti fuore,

ninfa crudel, per non l’aver nel core.

Ma che tardi, Mirtillo?

Colei che ti dà vita,

a te l’ha tolta e l’ha donata altrui;

e tu vivi, meschino? e tu non mori?

Mori, Mirtillo, mori

al tormento, al dolore,

com’al tuo ben, com’al gioir se’ morto.

Mori, morto Mirtillo:

hai finita la vita,

finisci anco il tormento.

Esci, misero amante,

di questa dura ed angosciosa morte,

che per maggior tuo mal ti tiene in vita.

Ma che? debb’io morir senza vendetta?

Farò prima morir chi mi dà morte.

Tanto in me si sospenda

il desio di morire,

che giustamente abbia la vita tolta

a chi m’ha tolto ingiustamente il core.

Ceda il dolore a la vendetta, ceda

la pietate a lo sdegno

e la morte a la vita,

finch'abbia con la vita


ATTO TERZO


vendicato la morte.

Non beva questo ferro

del suo signor l’invendicato sangue,

e questa man non sia

ministra di pietate

che non sia prima d’ira.

Ben ti farò sentire,

chiunque se’ che del mio ben gioisci,

nel precipizio mio la tua ruina.

M’appiatterò qui dentro nel medesmo cespuglio, e, come prima a la caverna avvicinar vedrollo, improvviso assalendolo, nel fianco il ferirò con questo acuto dardo.

Ma non sarà viltà ferir altrui nascosamente? Si. Sfidalo adunque a singoiar contesa, ove virtute del tuo giusto dolor possa far fede.

No, che potrebbon di leggieri in questo loco, a tutti si noto e si frequente, accorrere i pastori ed impedirci, e ricercar ancor, che peggio fora, la cagion che mi move: e s’io la nego, malvagio, e s’io la fingo, senza fede ne sarò riputato, e s’io la scopro, d’eterna infamia rimarrà macchiato de la mia donna il nome, in cui, ben ch’io non ami quel che veggio, almen quell’amo che sempre volli e vorrò fin eh’i’viva e che sperai e che veder devrei.

Moia dunque l’adultero malvagio, ch’a lei l’onore, a me la vita invola!

Ma, se l’uccido qui, non sarà il sangue chiaro indizio del fatto? E che tem’io la pena del morir, se morir bramo?

Ma l’omicidio, alfin fatto palese,


IL PASTOR FIDO


scoprirà la cagione; onde cadrai

nel medesmo periglio de l’infamia

che può venirne a questa ingrata. Or entra

ne la speloncà e qui Tassali. È buono,

questo mi piace. Entrerò cheto cheto,

si ch’ella non mi senta. E credo bene

che ne la più segreta e chiusa parte,

come accennò di far ne’ detti suoi,

si sarà ricovrata, ond’io non voglio

penetrar molto a dentro. Una fessura

fatta nel sasso e di frondosi rami

tutta coperta, a man sinistra a punto

si trova a piè de l’alta scesa: quivi

più che si può tacitamente entrando,

il tempo attenderò di dar effetto

a quel che bramo. Il mio nemico morto

a la nemica mia porterò innanzi ;

cosi d’ambiduo lor farò vendetta;

indi trapasserò col ferro stesso

a me medesmo il petto, e tre saranno

gli estinti, duo dal ferro, una dal duolo.

Vedrà questa crudele

de l’amante gradito

non men che del tradito

tragedia miserabile e funesta;

e sarà questo speco,

eh'esser dovea de le sue gioie albergo,

de l’un e l’altro amante,

e, quel che più desio,

de le vergogne sue tomba e sepolcro.

Ma voi, orme già tanto invan seguite, cosi fido sentiero

voi mi segnate? a cosi caro albergo voi mi scorgete? e pur v’inchino e seguo. O Corisca, Corisca,

or si m’hai detto il vero, or si ti credo.


ATTO TERZO


I1Q


SCENA NONA

Satiro.

Costui crede a Corisca? e segue Torme di lei ne la spelonca d’Ericina?

Stupido è ben chi non intende il resto.

Ma certo e’ ti bisogna aver gran pegno de la sua fede in man, se tu le credi, e stretta lei con più tenaci nodi che non ebb’io quando nel crin la presi.

Ma nodi più possenti in lei dei doni certo avuto non hai. Questa malvagia, nemica d’onestate, oggi a costui s’è venduta al suo solito, e qui dentro si paga il prezzo del mercato infame.

Ma forse costà giù ti mandò il cielo per tuo castigo e per vendetta mia.

Da le parole di costui si scorge ch’egli non crede invano, e le vestigia, che vedute ha di lei, son chiari indizi ch’ella è già ne lo speco. Or fa’ un bel colpo: chiudi il foro dell’antro con quel grave e soprastante sasso, acciò che quinci sia lor negata di fuggir l’uscita.

Poi vanne, e ’l sacerdote e’ suoi ministri per la strada del colle a pochi nota conduci, e falla prendere, e, secondo la legge e’ suoi misfatti, alfin morire.

E so ben io che data a Coridone ha la fé maritale, il qual si tace perché teme di me, che minacciato l’ho molte volte. Oggi farò ben io ch’egli di due vendicherà l’oltraggio.

Non vo’ perder più tempo. Un sodo tronco


1 20


IL PASTOR FIDO


schianterò da quest’elce... a punto questo fia buono..., ond’io potrò più prontamente smover il sasso. Oh come è grave! oh come è ben affisso! Qui bisogna il tronco spinger di forza e penetrar si dentro, che questa mole alquanto si divella.

11 consiglio fu buono. Anco si faccia il medesmo di qua. Come s’appoggia tenacemente! È più dura l’impresa di quel che mi pensava. Ancor non posso svellerlo, né per urto anco piegarlo.

Forse il mondo è qui dentro? o pur mi manca

il solito vigor? Stelle perverse,

che machinate? il moverò mal grado.

Maladetta Corisca e, quasi dissi,

quante femmine ha il mondo! O Pan Liceo,

o Pan che tutto se’, che tutto puoi,

moviti a’ prieghi miei :

fosti amante ancor tu di cor protervo.

Vendica ne la perfida Corisca i tuoi scherniti amori.

Cosi in virtù del tuo gran nume il movo, cosi in virtù del tuo gran nume e’ cade.

La mala volpe è ne la tana chiusa; or le si darà il foco, ov’io vorrei veder quante son femmine malvage in un incendio solo arse e distrutte.


Coro.

Come se’ grande, Amore,

di natura miracolo e del mondo!

qual cor si rozzo o qual si fiera gente

il tuo valor non sente?

ma qual si scaltro ingegno e si profondo


ATTO TERZO


I 2 I


il tuo valor intende?

Chi sa gli ardori che ’1 tuo foco accende, importuni e lascivi, dirà: — Spirto mortai, tu regni e vivi ne la corporea salma. —

Ma chi sa poi come a virtù l’amante

si desti e come soglia

farsi al suo foco, ogni sfrenata voglia

subito spenta, pallido e tremante,

dirà: — Spirto immortale, hai tu ne l’alma

il tuo solo e santissimo ricetto. —

Raro mostro e mirabile, d’umano

e di divino aspetto;

di veder cieco e di saver insano;

di senso e d’intelletto,

di ragion e desio confuso affetto!

e tale, hai tu l’impero

de la terra e del ciel ch’a te soggiace.

Ma (dirol con tua pace) miracolo più altèro

ha di te il mondo e più stupendo assai, però che quanto fai di maraviglia e di stupor tra noi, tutto in virtù di bella donna puoi.

O donna, o don del cielo,

anzi pur di Colui

che ’l tuo leggiadro velo

fe', d’ambo creator, più bel di lui,

qual cosa non hai tu del ciel più bella?

Ne la sua vasta fronte,

mostruoso ciclope, un occhio ei gira,

non di luce a chi ’l mira,

ma d’alta cecità cagione e fonte.

Se sospira o favella,

com’irato leon rugge e spaventa;

e non più ciel, ma campo


122


IL PASTOR FIDO


di tempestosa ed orrida procella,

col fiero lampeggiar folgori avventa

Tu col soave lampo

e con la vista angelica amorosa

di duo soli visibili e sereni,

l’anima tempestosa

di chi ti mira, acqueti e rassereni,

E suono e moto e lume

e valor e bellezza e leggiadria

fan si dolce armonia nel tuo bel viso,

che ’1 cielo invan presume

(se ’l cielo è pur men bel del paradiso)

di pareggiarsi a te, cosa divina.

E ben ha gran ragione quell’altèro animale

ch’«uomo» s’appella ed a cui pur s’inchina

ogni cosa mortale,

se, mirando di te l’alta cagione,

t’inchina e cede; e, s’ei trionfa e regna,

non è perché di scettro o di vittoria

sii tu di lui men degna,

ma per maggior tua gloria,

ché quanto il vinto è di più pregio, tanto

più glorioso è di chi vince il vanto.

Ma che la tua beltate vinca con l’uomo ancor l’umanitate, oggi ne fa Mirtillo a chi noi crede maravigliosa fede.

E mancava ben questo al tuo valore, donna, di far senza speranza amore.


ATTO QUARTO


SCENA PRIMA

CORISCA.

Tanto in condur la semplicetta al varco ebbi pur dianzi il cor fisso e la mente, che di pensar non mi sovvenne mai de la mia cara chioma, che rapita m’ha quel brutto villano, e com’io possa ricoverarla. Oh, quanto mi fu grave d’avermi a riscattar con si gran prezzo e con si caro pegno! Ma fu forza uscir di man de l’indiscreta bestia, che, quantunque egli sia più d’un coniglio pusilianimo assai, m’avria potuto far nondimeno mille oltraggi e mille fiere vergogne. Io l’ho schernito sempre, e fin che sangue ha ne le vene avuto, come sansuga l’ho succhiato. Or duolsi che più non l’ami, e di dolersi avrebbe giusta cagion, se mai l’avessi amato: amar cosa inamabile non puossi.

Com’erba che fu dianzi, a chi la colse

per uso salutifero, si cara,

poi che’l succo n’è tratto, inutil resta

e come cosa fracida s’abborre,

cosi costui : poi che spremuto ho quanto


124


IL PASTOR FIDO


era di buono in lui, che far ne debbo se non gettarne il fracidume al ciacco?

Or vo’ veder se Coridone è sceso ancor ne la spelonca. Oh, che fia questo? Che novità vegg’io? son desta o sogno? o son ebbra o tra veggio? So pur certo ch’era la bocca di quest’antro aperta, guari non ha. Com’ora è chiusa? e come questa pietra si grave e tanto antica, allo ’mprovviso è ruinata a basso?

Non s’è già scossa di tremuoto udita. Sapessi almen se Coridon v’è chiuso con Amarilli, ché del resto poi poco mi curerei. Dovria pur egli esser giunto oggimai, si buona pezza è che parti, se ben Lisetta intesi.

Chi sa che non sia dentro e che Mirtillo cosi non gli abbia amendue chiusi? Amore punto da sdegno il mondo anco potrebbe scuoter, non eh'una pietra. Se ciò fosse, già non avria potuto far Mirtillo più secondo il mio cor, se nel suo core fosse Corisca in vece d’Amarilli.

Meglio sarà che per la via del monte mi conduca ne l’antro e’l ver n’intenda.


SCENA SECONDA Dorinda, Linco.

Dorinda. E conosciuta certo

tu non m’avevi, Linco?

Linco. Chi ti conoscerebbe

sotto queste si rozze, orride spoglie per Dorinda gentile?


ATTO QUARTO


125


S’io fossi un fiero can, come son Lineo, mal grado tuo t’avrei troppo ben conosciuta.

Oh, che veggio? oh, che veggio?

Dorinda. Un affetto d’amor tu vedi, Lineo, un effetto d’amare misero e singolare.

Linco. Una fanciulla, come tu, si molle e tenerella ancora,

ch’eri pur dianzi, si può dir, bambina; e mi par che pur ieri t’avessi tra le braccia pargoletta, e, le tenere piante reggendo, t’insegnassi a formar « babbo » e « mamma », quando ai servigi del tuo padre i’ stava; tu che qual damma timida solevi, prima eh'amor sentissi, paventar d’ogni cosa

ch’a lo ’mprovviso si movesse; ogn’aura,

ogn’augellin che ramo

scotesse, ogni lucertola che fuori

de la fratta corresse,

ogni tremante foglia

ti facea sbigottire;

or vai soletta errando

per montagne e per boschi,

né di fèra hai paura né di veltro?

Dorinda. Chi è ferito d’amoroso strale, d’altra piaga non teme.

Linco. Ben ha potuto in te, Dorinda, amore, poi che di donna in uomo, anzi di donna in lupo ti trasforma.

Dorinda. Oh! se qui dentro, Linco, scorger tu mi potessi, vedresti un vivo lupo,


126


IL PASTOR FIDO


quasi agnella innocente l’anima divorarmi.

Linco. E qual è il lupo? Silvio?

Dorinda. Ah! tu l’hai detto.

Linco. E tu, poi ch’egli è lupo,

in lupa volentier ti se’ cangiata,

perché, se non l'ha mosso il viso umano,

il mova almen questo ferino, e t’ami.

Ma dimmi : ove trovasti questi ruvidi panni?

Dorinda. l’ti dirò. Mi mossi

stamani assai per tempo

verso là dove inteso avea che Silvio,

a piè de 1’ Erimanto,

nobilissima caccia

al fier cignale apparecchiata avea;

e, ne l’uscir de l’eliceto a punto,

quinci non molto lunge,

verso il rigagno che dal poggio scende,

trovai Melampo, il cane

del bellissimo Silvio, che la sete

quivi, come cred’io, s’avea già tratta

e nel prato vicin posando stava.

Io, ch’ogni cosa del mio Silvio ho cara, e l’ombra ancor del suo bel corpo e l’orma del piè leggiadro, non che ’l can da lui cotanto amato, inchino, subitamente il presi; ed ei, senza contrasto,

. qual mansueto agnel meco ne venne.

E, mentre i’ vo pensando di ricondurlo al suo signore e mio, sperando far, con dono a lui si caro, de la sua grazia acquisto, eccolo a punto che venia diritto cercandone i vestigi, e qui fermossi.


ATTO QUARTO


127


Caro Lineo, non voglio

perder tempo in narrarti

minutamente quello

eh’è passato tra noi;

ma dirò ben, per ispedirmi in breve,

che, dopo un lungo giro

di mentite promesse e di parole,

mi s’è involata il crudo,

pien d’ira e di disdegno,

col suo fido Melampo

e con la cara mia dolce mercede.

Linco. Oh dispietato Silvio, oh garzon fiero!

E tu che festi allor? non ti sdegnasti de la sua fellonia?

Dorinda. Anzi, come s’a punto il foco del suo sdegno fosse stato al mio cor foco amoroso, crebbe per l’ira sua l’incendio mio; e, tuttavia seguendone i vestigi e pur verso la caccia l’interrotto cammin continuando, non molto lunge il mio Lupin raggiunsi, che quinci poco prima di me s’era partito; onde mi venne tosto pensier di travestirmi e ’n questi abiti suoi servili

nascondermi si ben, che tra pastori potessi per pastore esser tenuta e seguir e mirar comodamente il mio bel Silvio.

Linco. E ’n sembianza di lupo

tu se’ ita a la caccia, e t’han veduta i cani e quinci salva se’ ritornata? Hai fatto assai, Dorinda.

Dorinda. Non ti maravigliar, Linco, ché i cani non potean far offesa


128


IL PASTOR FIDO


a chi del signor loro è destinata preda.

Quivi confusa infra la spessa turba de’ vicini pastori,

ch’eran concorsi a la famosa caccia, stav’io fuor de le tende spettatrice amorosa

via più del cacciator che .de la caccia.

A ciascun moto de la fera alpestre

palpitava il cor mio;

a ciascun atto del mio caro Silvio

correa subitamente

con ogni affetto suo l’anima mia.

Ma il mio sommo diletto turbava assai la paventosa vista del terribil cignale smisurato di forza e di grandezza.

Come rapido turbo

d’impetuosa e subita procella,

che tetti e piante e sassi e ciò ch’incontra

in poco giro, in poco tempo atterra;

cosi, a un solo rotar di quelle zanne

e spumose e sanguigne,

si vedean tutti insieme

cani uccisi, aste rotte, uomini offesi.

Quante volte bramai

di patteggiar con la rabbiosa fèra

per la vita di Silvio il sangue mio !

Quante volte d’accorrervi e di fare

con questo petto al suo bel petto scudo!

Quante volte dicea

fra me stessa: — Perdona,

fiero cignal, perdona

al delicato sen del mio bel Silvio! —

Cosi meco parlava, sospirando e pregando,


ATTO QUARTO


I 29


quand’egli di squamosa e dura scorza

il suo Melampo armato

contra la fèra impetuoso spinse,

che più superba ognora

s’avea fatta d’intorno

di molti uccisi cani e di feriti

pastori orrida strage.

Lineo, non potrei dirti

il valor di quel cane,

e ben ha gran ragion Silvio se l’ama.

Come irato leon che ’l fiero corno

de l’indomito tauro

ora incontri, ora fugga;

una sola fiata

che nel tergo l’afferri

con le robuste branche,

il ferma si ch’ogni poter n’emunge:

tale il forte Melampo,

fuggendo accortamente

gli spessi giri e le mortali rote

di quella fera mostruosa, alfine

l’assannò ne l’orecchia,

e, dopo averla impetuosamente

prima crollata alquante volte e scossa,

ferma la tenne si, che potea farsi

nel vasto corpo suo, quantunque altrove

leggermente ferito,

di ferita mortai certo disegno.

Allor subitamente il mio bel Silvio, invocando Diana:

— Drizza tu questo colpo,

— disse, — ch’a te fo voto

di sacrar, santa dea, l’orribil teschio. — E, ’n questo dir, da la faretra d’oro tratto un rapido strale, fin da l’orecchia al ferro


G. B. Guarini.


9


IL PASTOR FIDO


  • 30


tese l’arco possente, e nel medesmo punto restò piagato ove confina il collo con l’ómero sinistro il fier cinghiale, il qual subito cadde. l’respirai, vedendo Silvio mio fuor di periglio.

O fortunata fèra,

degna d’uscir di vita

per quella man che ’nvola

si dolcemente il cor dai petti umani!

Linco. Ma che sarà di quella fèra uccisa?

Dorinda. Noi so, perché men venni,

per non esser veduta, innanzi a tutti; ma crederò che porteranno in breve, secondo il voto del mio Silvio, il teschio solennemente al tempio.

Linco. E tu non vuoi uscir di questi panni?

Dorinda. Si voglio; ma Lupino

ebbe la veste mia con l’altro arnese, e disse d’aspettarmi

con essi al fonte, e non ve l’ho trovato. Caro Linco, se m’ami, va’ tu per queste selve di lui cercando, ché non può già molto esser lontano. Poserò frattanto là in quel cespuglio; il vedi? Ivi t’attendo; ch’io son da la stanchezza vinta e dal sonno, e ritornar non voglio con queste spoglie a casa.

Io vo. Tu non partire di là fin ch’io non torni.


Linco.


ATTO QUARTO


  • 3'

SCENA TERZA Coro, Ergasto.

Coro. Pastori, avete inteso

che ’l nostro semideo, figlio ben degno

del gran Montano e degno

discendente d’Alcide,

oggi n’ha liberati

da la fèra terribile, che tutta

infestava l’Arcadia;

e che già si prepara

di sciòrne il voto al tempio.

Se grati esser vogliamo di tanto beneficio,

andiamo tutti ad incontrarlo, e come

nostro liberatore

sia da noi onorato

con la lingua e col core.

E, ben che d’alma valorosa e bella l’onor sia poco pregio, è però quello che si può dar maggiore a la virtute in terra.

Ergasto. Oh sciagura dolente! oh caso amaro!

Oh piaga immedicabile e mortale!

Oh sempre acerbo e lagrimevol giorno!

Coro. Qual voce odo d’orror piena e di pianto?

Ergasto. Stelle nemiche a la salute nostra, cosi la fé schernite? cosi il nostro sperar levaste in alto perché poscia, cadendo, con maggior pena il precipizio avesse?

Coro. Questi mi par Ergasto, e certo è desso.

Ergasto. Ma perché il cielo accuso?

Te pur accusa, Ergasto;


132


IL PASTOR FIDO


tu solo avvicinasti l’ésca pericolosa

al focile d'Amor, tu il percotesti e tu sol ne traesti le faville, onde è nato l’incendio inestinguibile e mortale.

Ma sallo il ciel, se da buon fin mi mossi e se fu sol pietà che mi c’indusse.

Oh sfortunati amanti !

oh misera Amarilli!

oh Titiro infelice! oh orbo padre!

oh dolente Montano!

oh desolata Arcadia! oh noi meschini!

oh, finalmente, misero e infelice

quant’ho veduto e veggio,

quanto parlo, quant’odo e quanto penso!

Coro. Oimè! qual fia cotesto si misero accidente,

che’n sé comprende ogni miseria nostra?

Andiam, pastori, andiamo

verso di lui, ch’a punto

egli ci vien incontra. Eterni numi,

ah ! non è tempo ancora

di rallentar lo sdegno?

Dinne, Ergasto gentile:

qual fiero caso a lamentar ti mena?

Che piangi?

Ergasto. Amici cari,

piango la mia, piango la vostra, piango la mina d’Arcadia.

Coro. Oimè! che narri?

Ergasto. È caduto il sostegno

d’ogni nostra speranza.

Coro. Deh! parlaci più chiaro.

Ergasto. La figliuola di Titiro, quel solo

del suo ceppo cadente e del cadente


ATTO QUARTO


I 33


Coro.

Ergasto.

Coro.

Ergasto.

Coro.

Ergasto.


Coro.


Ergasto.


Coro.


padre appoggio e rampollo;

quell'unica speranza

de la nostra salute,

ch’ai figlio di Montano era dal cielo

destinata e promessa

per liberar con le sue nozze Arcadia;

quella ninfa celeste,

quella saggia Amarilli,

quell’esempio d’onore,

quel fior di castitate;

oimè ! quella... ah! mi scoppia

il core a dirlo!

' È morta?

No, ma sta per morire.

Oimè! che intendo?

E nulla ancor intendi !

Peggio è che more infame.

Amarillide infame? e come, Ergasto? Trovata con l’adultero. E se quinci non partite si tosto, la vedrete condurre cattiva al tempio.

O bella e singolare, ma troppo malagevole virtute del sesso femminile*, o pudicizia, come oggi se’rara!

Dunque non si dirà donna pudica se non quella che mai non fu sollecitata?

Oh secolo infelice !

Veramente potrassi con gran ragione avere d’ogn’altra donna l’onestà sospetta, se disonesta l’Onestà si trova.

Deh ! cortese pastor, non ti sia grave di raccontarci il tutto.


>34


IL PASTOR FIDO


Ergasto. Io vi dirò. Stamane assai per tempo venne, come sapete, il sacerdote al tempio con l’infelice padre de la misera ninfa,

da un medesmo pensier ainbidue mossi, d’agevolar co’ prieghi le nozze de’ lor figli, da lor bramate tanto.

Per questo solo in un medesmo tempo

fur le vittime offerte

e fatto il sacrificio

solennemente e con si lieti auspici,

che non fur viste mai

né viscere più belle

né fiamma più sincera o men turbata;

onde, da questi segni

mosso, il cieco indovino:

— Oggi — disse a Montano —

sarà il tuo Silvio amante; e la tua figlia

oggi, Titiro, sposa.

Vanne tu tosto a preparar le nozze. — Oh insensate e vane menti degli indovini! e tu di dentro non men che di fuor cieco!

S’a Titiro l’esequie

in vece de le nozze avessi detto,

ti potevi ben dir certo indovino.

Già tutti consolati

erano i circostanti, e i vecchi padri piangean di tenerezza, e partito era già Titiro, quando furon nel tempio orribilmente uditi di subito e veduti sinistri augùri e paventosi segni, nunzi de l’ira sacra,


ATTO QUARTO


135


ai quali, oimè! si repentini e fieri

s’attonito e confuso

restasse ognun dopo si lieti augùri,

pensatel voi, cari pastori. Intanto

s’erano i sacerdoti

nel sacrario maggior soli rinchiusi ;

e mentre, essi di dentro e noi di fuori,

lagrimosi e divoti,

stavamo intenti a le preghiere sante,

ecco il malvagio Satiro, che chiede

con molta fretta e per instante caso

dal sacerdote udienza. E, perché questa

è, come voi sapete,

mia cura, fui quell’io, che l’introdussi.

Ed egli (ah, ben ha ceffo

da non portar altra novella!) disse:

— Padri, s'ai vostri voti

non rispondon le vittime e gli incensi,

se sopra i vostri altari

splende fiamma non pura,

non vi maravigliate. Impuro ancora

è quel che si commette

oggi contra la legge

ne l’antro d’Ericina.

Una perfida ninfa con l’adultero infame ivi profana a voi la legge, altrui la fede rompe. Vengan meco i ministri: mostrerò lor di prenderli sul fatto agevolmente il modo. —

Allora (o mente umana, come nel tuo destino se’tu stupida e cieca!) respirarono alquanto gli afflitti e buoni padri, parendo lor che fosse


IL PASTOR FIDO


trovata la cagion che pria sospesi gli ebbe a tener nel sacro ufficio infausto; onde subitamente il sacerdote al ministro maggior, Nicandro, impose che sen gisse col Satiro e cattivi conducesse ammendue gli amanti al tempio. Ond’egli, accompagnato da tutto il nostro coro de’ ministri minori,

per quella via che ’l Satiro avea mostra, tenebrosa ed obliqua, si condusse ne l’antro.

La giovane infelice,

forse da lo splendor de le facelle

d’improvviso assalita e spaventata,

uscendo fuor d’una riposta cava

eh’è nel mezzo de l’antro,

si provò di fuggir, come cred’io,

verso cotesta uscita, che fu dianzi

dal Satiro malvagio,

com’e’ ci disse, chiusa.

Coro. Ed egli, intanto, che facea?

Ergasto. Partissi,

subito che ’l sentiero ebbe scorto a Nicandro.

Non si può dir, fratelli,

quanto rimase ognuno

stupefatto ed attonito, vedendo

che quella era la figlia

di Titiro, la quale

non fu si tosto presa,

che subito v’accorsc,

ma non saprei già dirvi onde s’uscisse,

l’animoso Mirtillo,

e per ferir Nicandro,

il dardo ond’era armato.


ATTO QUARTO


Coro. Erg asto.

Coro. Erg asto.


Coro.

Ergasto.


impetuoso spinse: e se giungeva il ferro là ’ve la mano il destinò, Nicandro oggi vivo non fora.

Ma in quel medesmo punto,

che drizzò l’uno il colpo,

s’arretrò l’altro. O fosse caso o fosse

avvedimento accorto,

sfuggi il ferro mortale,

lasciando il petto, che die’ luogo, intatto;

e ne l’irsuta spoglia

non pur fini quel periglioso colpo,

ma s’intricò, non so dir come, in modo

che, noi potendo ricovrar, Mirtillo

restò cattivo anch’egli.

E di lui che segui?

Per altra via

nel condussero al tempio.

E per far che?

Per meglio trar da lui di questo fatto il vero. E chi sa? forse non merta impunità l’aver tentato di por man ne’ ministri e ’ncontra loro la maestà sacerdotale offesa.

Avessi almen potuto consolarlo, il meschino!

E perché non potesti?

Perché vieta la legge ai ministri minori di favellar co’ rei.

Per questo sol mi sono dilungato dagli altri ; e per altro sentiero mi vo’ condurre al tempio, e con prieghi e con lagrime devote chieder al ciel ch’a più sereno stato


13»


II- PASTOR FIDO


giri questa oscurissima procella.

Addio, cari pastori,

restate in pace, e voi co’ preghi nostri

accompagnate i vostri.

Coro. Cosi farem, poi che per noi fornito

sarà verso il buon Silvio il nostro a lui cosi devoto officio.

O dèi del sommo cielo,

deh ! mostratevi ornai

con la pietà, non col furore, eterni.


SCENA QUARTA

CORISCA.

Cingetemi d’intorno, o trionfanti allori, le vincitrici e gloriose chiome.

Oggi felicemente

ho nel campo d’Amor pugnato e vinto; oggi il cielo e la terra, e la natura e l’arte, e la fortuna e ’l fato, e gli amici e i nemici han per me combattuto.

Anco il perverso Satiro, che tanto

m’ha pur in odio, hammi giovato, come

se parte anch’egli in favorirmi avesse.

Quanto meglio dal caso

Mirtillo fu ne la spelonca tratto,

che non fu Coridon dal mio consiglio,

per far più verisimile e più grave

la colpa d’Amarilli! E, ben che seco

sia preso anco Mirtillo,

ciò non importa: e’ fie ben anco sciolto,


ATTO QUARTO


'39


ché solo è de l’adultera la pena.

Oh vittoria solenne, oh bel trionfo ! Drizzatemi un trofeo, amorose menzogne:

voi séte in questa lingua, in questo petto forze sopra natura onnipotenti.

Ma che tardi, Corisca?

Non è tempo da starsi.

Allontànati pur, fin che la legge

contra la tua rivale oggi s’adempia,

però che del suo fallo

graverà te per iscolpar se stessa,

e vorrà forse il sacerdote, prima

che far altro di lei.

saper di ciò per la tua lingua il vero.

Fuggi dunque, Corisca. A gran periglio

va per lingua mendace

chi non ha il piè fugace.

M’asconderò tra queste selve, e quivi

starò fin che sia tempo

di venir a goder de le mie gioie.

Oh beata Corisca !

Chi vide mai più fortunata impresa?


SCENA QUINTA Nicandro, Amarilli.

Nicandro. Ben duro cor avrebbe, o non avrebbe più tosto cor né sentimento umano, chi non avesse del tuo mal pietate, misera ninfa, e non sentisse affanno de la sciagura tua, tanto maggiore quanto men la pensò chi più la intende; ché ’l veder sol cattiva una donzella,


140


IL PASTOR FIDO


venerabile in vista e di sembiante celeste e degna a cui consagri il mondo, per divina beltà, vittime e tempi, condur vittima al tempio, è cosa certo da non veder se non con occhi molli.

Ma chi sa poi di te, come se’ nata

ed a che fin se’ nata, e che se’ figlia

di Titiro e che nuora di Montano

esser dovevi, e ch’ambidue pur sono

questi d'Arcadia i più pregiati e chiari

non so se debbia dir pastori o padri:

e che tale e che tanta e si famosa

e si vaga donzella e si lontana

dal naturai confin de la tua vita,

cosi t’appressi al rischio de la morte;

chi sa questo e non piange e non sen duole,

uomo non è, ma fèra in volto umano.

Amarilli. Se la miseria mia fosse mia colpa,

Nicandro, e fosse, come credi, effetto

di malvagio pensiero,

siccome in vista par, d’opra malvagia;

men grave assai mi fora

che di grave fallire

fosse pena il morire,

ché ben giusto sarebbe

che dovesse il mio sangue

lavar l’anima immonda,

placar l’ira del cielo,

e dar suo dritto a la giustizia umana.

Cosi pur i’ potrei

quetar l’anima afflitta,

e, con un giusto sentimento interno

di meritata morte

mortificando i sensi,

avvezzarmi al morire,

e con tranquillo varco


ATTO QUARTO


141


passar fors’anco a più tranquilla vita.

Ma troppo, oimè! Nicandro, troppo mi pesa in si giovane etate, in si alta fortuna, il dover cosi subito morire, e morir innocente.

Nicandro. Piacesse a! ciel che gli uomini più tosto avesser contra te, ninfa, peccato, che tu peccato incontra ’1 cielo avessi, ch’assai più agevolmente oggi potremmo ristorar te del violato nome, che lui placar del violato nume.

Ma non so già veder chi t’abbia offesa, se non te stessa tu, misera ninfa.

Dimmi: non se’ tu stata in loco chiuso trovata con l’adultero? e con lui sola con solo? e non se’ tu promessa al figlio di Montano? e tu per questo non hai la fede maritai tradita?

Come dunque innocente?

Amarilli. E pur, in tanto

e si grave fallir, contra la legge non ho peccato, ed innocente sono.

Nicandro. Contra la legge di natura forse

non hai, ninfa, peccato: « Ama, se piace »; ma ben hai tu peccato incontra quella degli uomini e del cielo: « Ama, se lice ».

Amarilli. Han peccato per me gli uomini e ’l cielo, se pur è ver che di là su derivi ogni nostra ventura; ch’altri che ’l mio destino, non può voler che sia il peccato d’altrui, la pena mia.

Nicandro. Ninfa, che parli? frena,

frena la lingua, da soverchio sdegno trasportata là dove


142


IL PASTOR FIDO


mente devota a gran fatica sale.

Non incolpar le stelle, ché noi soli a noi stessi fabbri siam pur de le miserie nostre. Amarilli. Già nel ciel non accuso

altro che ’l mio destino empio e crudele; ma, più del mio destino, chi m’ha ingannata accuso.

Nicandro. Dunque te sol, che t’ingannasti, accusa. Amarilli. M’ingannai si, ma ne l’inganno altrui. Nicandro. Non si fa inganno a cui l’inganno è caro. Amarilli. Dunque m’hai tu per impudica tanto? Nicandro. Ciò non so dirti: a l’opra pure il chiedi. Amarilli. Spesso del cor segno fallace è l’opra. Nicandro. Pur l’opra solo, e non il cor, si vede. Amarilli. Con gli occhi de la mente il cor si vede. Nicandro. Ma ciechi son, se non gli scorge il senso. Amarilli. Se ragion noi governa, ingiusto è il senso. Nicandro. E ingiusta è la ragion, se dubbio è il fatto. Amarilli. Comunque sia, so ben che ’l core ho giusto. Nicandro. E chi ti trasse, altri che tu, ne l’antro? Amarilli. La mia semplicitade e ’l creder troppo. Nicandro. Dunque a l’amante l’onestà credesti? Amarilli. A l’amica infedel, non a l’amante. Nicandro. A qual amica? a l’amorosa voglia? Amarilli. A la suora d’Ormin, che m’ha tradita. Nicandro. Oh dolce con l’amante esser tradita! Amarilli. Mirtillo entrò, che noi sepp’io, ne l’antro. Nicandro. Come dunque v’entrasti? ed a qual fine? Amarilli. Basta che per Mirtillo io non v’entrai. Nicandro. Convinta sei, s’altra cagion non rechi. Amarilli. Chiedasi a lui de l’innocenza mia. Nicandro. A lui che fu cagion de la tua colpa? Amarilli. Ella, che mi tradi, fede ne faccia.

Nicandro. E qual fede può far chi non ha fede? Amarilli. Io giurerò nel nome di Diana.


ATTO QUARTO


Nicandro. Spergiurato pur troppo hai tu con l’opre. Ninfa, non ti lusingo e parlo chiaro, perché poscia confusa al maggior uopo non abbi a restar tu. Questi son sogni. Onda di fiume torbido non lava, né torto cor parla ben dritto; e, dove il fatto accusa, ogni difesa offende.

Tu la tua castità guardar dovevi più de la luce assai degli occhi tuoi.

Che pur vaneggi? a che te stessa inganni?

Amarilli. Cosi dunque morire, oimè! Nicandro, cosi morir debb’ io?

Né sarà chi m’ascolti o mi difenda?

Cosi da tutti abbandonata e priva d’ogni speranza? accompagnata solo da un’estrema, infelice e, funesta pietà che non m’aita?

Nicandro. Ninfa, queta il tuo core;

e se ’n peccar si poco saggia fusti, mostra almen senno in sostener l’affanno de la fatai tua pena.

Drizza gli occhi nel cielo, se derivi dal cielo.

Tutto quel, che c’incontra

o di bene o di male,

sol di là su deriva, come fiume

nasce da fonte o da radice pianta;

e quanto qui par male,

dove ogni ben con molto male è misto,

è ben là su, dov’ogni ben s’annida.

Sallo il gran Giove, a cui pensiero umano non è nascosto; sallo il venerabil nume

di quella dea di cui ministro i’ sono,

quanto di te m’incresca;

e, se t’ho col mio dir cosi trafitta,


M4


IL PASTOR FIDO


ho fatto come suol medica mano pietosamente acerba, che va con ferro o stilo le latebre tentando di profonda ferita,

ov’ella è più sospetta e più mortale.

Quétati dunque ornai, né voler contrastar più lungamente a quel eh’è già di te scritto nel cielo. Amarilli. Oh sentenza crudele,

ovunque ella sia scritta, o ’n cielo o ’n terra!

Ma in ciel già non è scritta,

ché là su nota è l’innocenzia mia.

Ma che mi vai, se pur convien eh’i’mora? Ahi, questo è pure il duro passo! ahi, questo è pur l’amaro calice, Nicandro!

Deh! per quella pietà che tu mi mostri, non mi condur, ti prego, si tosto al tempio. Aspetta ancora, aspetta. Nicandro. O ninfa, ninfa! a chi ’l morir è grave, ogni momento è morte.

Che tardi tu il tuo male?

Altro mal non ha morte che ’l pensar a morire.

E chi morir pur deve, quanto più tosto more, tanto più tosto al suo morir s’invola. Amarilli. Mi verrà forse alcun soccorso intanto.

Padre mio, caro padre, e tu ancor m’abbandoni?

Padre d’unica figlia,

cosi morir mi lasci e non m’aiti?

Almen non mi negar gli ultimi baci.

Ferirà pur duo petti un ferro solo; verserà pur la piaga di tua figlia il tuo sangue.


ATTO QUARTO


Padre, un tempo si dolce e caro nome ch’invocar non soleva indarno mai, cosi le nozze fai de la tua cara figlia?

Sposa il mattino e vittima la sera?

Nicandro. Deh! non penar più, ninfa.

A che tormenti indarno e te stessa ed altrui?

È tempo ornai che ti conduca al tempio, né ’l mio debito vuol che più s’indugi.

Amarilli. Dunque addio, care selve; care mie selve, addio!

Ricevete questi ultimi sospiri,

fin che, sciolta da ferro ingiusto e crudo,

torni la mia fredd'ombra

a le vostr’ombre amate,

ché nel penoso inferno

non può gir innocente,

né può star tra’ beati

disperata e dolente.

O Mirtillo, Mirtillo!

ben fu misero il di che pria ti vidi

e ’l di che pria ti piacqui,

poi che la vita mia,

più cara a te che la tua vita assai,

cosi pur non dovea

per altro esser tua vita,

che per esser cagion de la mia morte.

Cosi (chi ’l crederia?)

per te dannata more

colei che ti fu cruda

per viver innocente.

Oh, per me troppo ardente e per te poco ardito! Era pur meglio o peccar o fuggire.

In ogni modo, i’ moro, e senza colpa


G. B. Guarini.


146


IL PASTOR FIDO


e senza frutto e senza te, cor mio.

Mi moro, oimè ! Mirti...

Nicandro. Certo ella more.

Oh meschina! accorrete, sostenetela meco. Oh, fiero caso!

Nel nome di Mirtillo ha finito il suo corso; e l’amor e ’1 dolor ne la sua morte ha prevenuto il ferro.

Oh misera donzella!

Pur vive ancora, e sento al palpitante cor segni di vita.

Portiamla al fonte qui vicino. Forse

rivocheremo in lei

con l’onda fresca gli smarriti spirti.

Ma chi sa che non sia opra di crudeltà Tesser pietoso a chi muor di dolore per non morir di ferro?

Comunque sia, pur si soccorra e quello

facciasi che conviene

a la pietà presente,

ché del futuro sol presago è ’1 cielo.


SCENA SESTA

Coro di cacciatori, coro di pastori con Silvio.

Cacciatori. O fanciul glorioso, vera stirpe d’Alcide, che fère già si mostruose ancide!

Pastori. O fanciul glorioso,

per cui de TErimanto

giace la fèra superata e spenta,

che parea, viva, insuperabil tanto!


ATTO QUARTO


147


Ecco l’orribil teschio

che, cosi morto, par che morte spiri.

Questo è ’1 chiaro trofeo,

questa la nobilissima fatica

del nostro semideo.

Celebrate, pastori, il suo gran nome,

e questo di tra noi

sempre solenne sia, sempre festoso.

Cacciatori. O fanciul glorioso, vera stirpe d’Alcide, che fère già si mostruose ancide!

Pastori. O fanciul glorioso,

che sprezzi per altrui la propria vita,

questo è ’l vero cammino

di poggiar a virtute;

però eh’innanzi a lei

la fatica e ’l sudor poser gli dèi.

Chi vuol goder degli agi,

soffra prima i disagi;

né da riposo infruttuoso e vile,

che ’l faticar aborre,

ma da fatica, che virtù precorre,

nasce il vero riposo.

Cacciatori. O fanciul glorioso, vera stirpe d’Alcide, che fère già si mostruose ancide 1

Pastori. O fanciul glorioso,

per cui le ricche piagge, prive già di cultura e di cultori, han ricovrati i lor fecondi onori!

Va pur sicuro e prendi

ornai, bifolco, il neghittoso aratro;

spargi il gravido seme

e ’l caro frutto in sua stagione attendi.

Fiero piè, fiero dente

non fie più che tei tronchi o tei calpesti,


I4&


IL PASTOR FIDO


né sarai per sostegno

de la vita a te grave, altrui noioso.

Cacciatori. O fanciul glorioso, vera stirpe d’Alcide, che fère già si mostruose ancide !

Pastori. O fanciul glorioso,

come presago di tua gloria, il cielo a la tua gloria arride. Era tal, forse, il famoso cignale

che vivo Ercole vinse, e tal l’avresti forse ancor tu, s’egli di te non fosse cosi prima fatica,

come fu già del tuo grand’avo terza.

Ma con le fère scherza la tua virtude giovinetta ancora, per far de’ mostri in più matura etate strazio poi sanguinoso.

Cacciatori. O fanciul glorioso, vera stirpe d’Alcide, che fère già si mostruose ancide!

Pastori. O fanciul glorioso,

come il valor con la pietate accoppii !

Ecco, Cintia, ecco il voto del tuo Silvio devoto.

Mira il capo superbo

che quinci e quindi in tuo disprezzo s’arma

di curvo e bianco dente,

ch’emulo par de le tue corna altère.

Dunque, possente dea,

se tu drizzasti del garzon lo strale,

ben déssi a te di sua vittoria il pregio,

per te vittorioso.

Cacciatori. O fanciul glorioso, vera stirpe d’Alcide, che fère già si mostruose ancide !


ATTO QUARTO


149


SCENA SETTIMA

CORIDONE.

Son ben io stato infin a qui sospeso nel prestar fede a quel che di Corisca testé m’ha detto il Satiro, temendo non sua favola fosse a danno mio cosi da lui malignamente finta; troppo dal ver parendomi lontano che nel medesmo loco ov’ella meco esser dovea (se non è falso quello che da sua parte mi recò Lisetta), si repentinamente oggi sia stata con l’adultero còlta. Ma, nel vero, mi par gran segno e mi perturba assai la bocca di quest’ antro in quella guisa ch’egli a punto m’ha detto e che si vede, da si grave petron turata e chiusa.

O Corisca, Corisca! i’t’ho sentita troppo bene a la mano, ch’incappando tu cosi spesso, alfin ti conveniva cader senza rilievo. Tanti inganni, tante perfidie tue, tante menzogne certo dovean di si mortai caduta esser veri presagi a chi non fosse stato privo di mente e d’amor cieco.

Buon per me, che tardai! Fu gran ventura che’l padre mio mi trattenesse (sciocco!), quel che mi parve un fiero intoppo allora; ché, se veniva al tempo che prescritto da Lisetta mi fu, certo poteva qualche strano accidente oggi incontrarmi. Ma che farò? debb’io, di sdegno armato,


IL PASTOR FIDO


150


ricorrer agli oltraggi? a le vendette?

No, ché troppo l’onoro; anzi, se voglio discorrer sanamente, è caso degno più tosto di pietà che di vendetta.

Avrai dunque pietà di chi t’inganna? Ingannata ha se stessa, che, lasciando un che con pura fé l’ha sempre amata, ad un vii pastorei s’è data in preda, vagabondo e straniero, che domani sarà di lei più perfido e bugiardo.

Che? debb’io dunque vendicar l’oltraggio che seco porta la vendetta, e l’ira supera si, che fa pietà lo sdegno?

Pur t’ha schernito, anzi onorato; ed io ho ben onde pregiarmi, or che mi sprezza femmina ch’ai suo mal sempre s’appiglia e le leggi non sa né de l’amare né de Tesser amata, e che ’1 men degno sempre gradisce e ’l più gentile aborre.

Ma dimmi, Coridon: se non ti move

10 sdegno del disprezzo a vendicarti, com’esser può che non ti mova almeno

11 dolor de la perdita e del danno?

Non ho perduta lei, che mia non era; ho ricovrato me, ch’era d’altrui.

Né il restar senza femmina si vana e si pronta e si agile a cangiarsi, perdita si può dire. E finalmente che cosa ho io perduto? una bellezza senza onestate, un volto senza senno, un petto senza core, un cor senz’alma, un’alma senza fede, un’ombra vana, una larva, un cadavero d’Amore, che doman sarà fracido e putente.

E questa si dé’ dir perdita? acquisto molto ben caro e fortunato ancora.


ATTO QUARTO


Mancheranno le femmine, se manca Corisca? mancheranno a Coridone ninfe di lei più degne e più leggiadre? Mancherà ben a lei fedele amante com’era Coridon, di cui fu indegna.

Or, se volessi far quel che di lei m’ha consigliato il Satiro, so certo che, se la fede a me già da lei data oggi accusassi, i’ la farei morire.

Ma non ho già si basso cor, che basti mobilità di femmina a turbarlo.

Troppo felice ed onorata fora la femminil perfidia, se con pena di cor virile e con turbar la pace e la felicità d’alma bennata s’avesse a vendicar. Oggi Corisca per me dunque si viva o, per dir meglio, per me non moia e per altrui si viva: sarà la vita sua vendetta mia.

Viva a l’infamia sua, viva al suo drudo, poi eh’è tal, ch’io non l'odio ed ho più tosto pietà di lei che gelosia di lui.


SCENA OTTAVA Silvio.

O dea, che non se’ dea se non di gente vana, oziosa e cieca, che con impura mente e con religion stolta e profana ti sacra altari e tempii...

Ma che tempii diss’io? più tosto asili d’opre sozze e nefande, per onestar la loro


IL PASTOR FIDO


empia disonestate col titolo famoso de la tua deitate.

E tu, sordida dea,

perché le tue vergogne

ne le vergogne altrui si veggan meno,

rallenti lor d’ogni lascivia il freno,

nemica di ragione,

macchinatrice sol d’opre furtive,

corruttela de l’alme,

calamità degli uomini e del mondo,

figlia del mar ben degna

e degnamente nata

di quel perfido mostro,

che con aura di speme allettatrice

prima lusinghi e poi

movi ne’ petti umani

tante fiere procelle

d’impetuosi e torbidi desiri,

di pianti e di sospiri,

che madre di tempeste e di furore

devria chiamarti il mondo,

e non madre d’Amore:

ecco in quanta miseria

tu hai precipitati

que’ duo miseri amanti.

Or va’ tu, che ti vanti

d'esser onnipotente,

va’ tu, perfida dea; salva, se puoi,

la vita a quella ninfa,

che tu, con tue dolcezze

avvelenate, hai pur condotta a morte.

Oh per me fortunato

quel di che ti sacrai l’animo casto,

Cintia, mia sola dea,

santa mia deità, mio vero nume,


ATTO QUARTO


e cosi nume in terra de l'anime più belle, come lume del cielo più bel de l’altre stelle!

Quanto son più lodevoli e sicuri de’ cari amici tuoi l'opre e gli studi, che non son quei degl’infelici servi di Venere impudica!

Uccidono i cignali i tuoi devoti; ma i devoti di lei miseramente son dai cignali uccisi.

O arco, mia possanza e mio diletto; strali, invitte mie forze; or venga in prova, venga quella vana fantasima d’Amore con le sue armi effeminate; venga al paragon di voi, che ferite e pungete.

Ma che? troppo t’onoro, vii pargoletto imbelle; e, perché tu m’intenda, ad alta voce il dico: la ferza a gastigarti sola mi basta. — Basta. —

Chi se’ tu che rispondi ?

Eco, o più tosto Amor, che cosi d’Eco imita il sono? — Sono. —

A punto i’ ti volea; ma dimmi: certo se’ tu poi desso? — Esso. —

Il figlio di colei che per Adone già si miseramente ardea? — Dea. — Come ti piace, su! di quella dea concubina di Marte, che le stelle di sua lascivia ammorba e gli elementi? — Menti. —

Oh, quanto è lieve il cinguettare al vento


154


IL PASTOR FIDO


Vien’ fuori, vien’; né star ascoso. — Oso. —

Ed io t’ho per vigliacco. Ma di lei se’ legittimo figlio o pur bastardo? — Ardo. —

O buon! né figlio di Vulcan per questo già ti cred’io. — Dio. —

E dio di che? del core immondo? — Mondo. — Gnaffe! de l’universo?

Quel terribil garzon, di chi ti sprezza vindice si possente e si severo?—Vero. —

E quali son le pene

ch’a’ tuoi rubelli e contumaci dai

cotanto amare? — Amare. —

E di me, che ti sprezzo, che farai,

se ’l cor più duro ho di diamante? — Amante. —

Amante me? se’folle!

Quando sarà che ’n questo cor pudico amor alloggi ? — Oggi. —

Dunque si tosto s'innamora? — Ora. —

E qual sarà colei

che far potrà ch’oggi l’adori? — Dori. — Dorinda forse, o bambo, vuoi dir in tua mozza favella? — Ella. — Dorinda, ch’odio più che lupo agnella?

Chi farà forza in questo al voler mio? — Io. —

E come? e con qual'armi? e con qual arco? Forse col tuo? — Col tuo. —

Come col mio? vuoi dir quando l’avrai con la lascivia tua corrotto? — Rotto. —

E le mie armi rotte

mi faran guerra? e romperailo tu? — Tu. — Oh, questo si mi fa veder affatto che tu se’ ubbriaco.

Va’, dormi! va’! Ma dimmi:


ATTO QUARTO


155


dove fien queste maraviglie? qui? — Qui. — O sciocco! ed io mi parto.

Vedi come se’ stato oggi indovino pien di vino. — Divino. —

Ma veggio, o veder parmi, colà, posando in quel cespuglio, starsi un non so che di bigio, ch’a lupo s’assomiglia.

Ben mi par desso, ed è per certo il lupo. Oh, come è smisurato! Oh per me giorno destinato a le prede! O dea cortese, che favori son questi? in un di solo trionfar di due fière?

Ma che tardo, mia dea?

Ecco, nel nome tuo questa saetta scelgo per la più rapida e pungente di quante n’abbia la faretra mia.

A te la raccomando: levala tu, saettatrice eterna, di man de la fortuna e ne la fèra col tuo nume infallibile la drizza, a cui fo voto di sacrar la spoglia, e nel tuo nome scocco.

Oh bellissimo colpo,

colpo caduto a punto

dove l’occhio e la man l’ha destinato!

Deh, avessi il mio dardo,

per ispedirlo a un tratto,

prima che mi s’involi e si rinselvi!

Ma, non avendo altr’arine, il ferirò con quelle de la terra.

Ben rari sono in questa chiostra i sassi, ch’a pena un qui ne trovo.

Ma che vo io cercando armi, s’armato sono?

Se quest’altro quadrello


IL PASTOR FIDO


156

il va a ferir nel vivo... Oimè! che veggio? Oimè! Silvio infelice, oimè! che hai tu fatto?

Hai ferito un pastor sotto la scorza d’un lupo. Oh fiero caso! oh caso acerbo, da viver sempre misero e dolente !

E’ mi par di conoscerlo, il meschino; e Lineo è seco, che ’l sostene e regge.

Oh funesta saetta ! oh voto infausto !

E tu che la scorgesti,

e tu che l’esaudisti,

nume di lei più infausto e più funesto!

Io dunque reo de l’altrui sangue? io dunque cagion de l’altrui morte? io, che fui dianzi per la salute altrui si largo sprezzator de la mia vita, sprezzator del mio sangue?

Va’, getta l’armi e senza gloria vivi, profano cacciator, profano arciero!

Ma ecco lo infelice,

di te però men infelice assai.

SCENA NONA Linco, Silvio, Dorinda.

Linco. Reggiti, figlia mia;

reggiti tutta pur su queste braccia, infelice Dorinda.

Silvio. (Oimè! Dorinda?

Son morto.)

Dorinda. O Linco, Linco,

o mio secondo padre!

Silvio. (È Dorinda per certo. Ahi voce! ahi vista!) Dorinda. Ben era, Linco, il sostener Dorinda ufficio a te fatale.


ATTO QUARTO


Linco.

Silvio.

Dorinda.

Silvio.

Linco.

Dorinda.

Linco.

Silvio.


Dorinda.


Accogliesti i singulti

primi del mio natale;

accorrai tu fors’anco

gli ultimi de la morte,

e coteste tue braccia, che, pietose,

mi fur già culla, or mi saran ferètro.

O figlia, a me più cara

che se figlia mi fussi, io non ti posso

risponder, ché ’1 dolore

ogni mio detto in lagrime dissolve.

(O terra, ché non t’apri e non m’inghiotti?) Deh ! ferma il passo e ’l pianto, pietosissimo Linco,

ché l’un cresce il dolor, l’altro la piaga.

(Ahi! che dura mercede

ricevi del tuo amor, misera ninfa.)

Fa’ buon animo, figlia,

ché la tua piaga non sarà mortale.

Ma Dorinda mortale sarà ben tosto morta.

Sapessi almen chi m’ha cosi piagata!

Curiam pur la ferita e non l’offesa, ché per vendetta mai non sanò piaga.

(Ma che fai qui? che tardi?

Soffrirai tu ch’ella ti veggia? avrai tanto cor, tanta fronte?

Fuggi la pena meritata, Silvio,

di quella vista ultrice;

fuggi il giusto coltei de la sua voce.

Ah ! che non posso; e non so come o quale necessità fatale

a forza mi ritegna e mi sospinga più verso quel che più luggir devrei.)

Cosi dunque debb’io

morir senza saper chi mi dà morte?

Silvio t’ha dato morte.


Linco.


15»


IL PASTOR FIDO


Dorinda. Silvio? oimè! che ne sai?

Linco. Riconosco il suo strale.

Dorinda. Oh dolce uscir di vita, se Silvio m’ha ferita!

I.inco. Eccolo a punto in atto

ed in sembiante tal, che da se stesso

par che s’accusi. Or sia lodato il cielo,

Silvio, ché se’ pur ito

dimenandoti si per queste selve

con cotesto tuo arco

e cotesti tuoi strali onnipotenti,

c’hai fatto un colpo da maestro. Dimmi,

tu che vivi da Silvio e non da Linco:

questo colpo, che hai fatto si leggiadro,

è fors’egli da Linco o pur da Silvio?

O fanciul troppo savio, avessi tu creduto a questo pazzo vecchio !

Rispondimi, infelice:

qual vita fia la tua, se costei more?

So ben che tu dirai ch’errasti e di ferir credesti un lupo, quasi non sia tua colpa il saettare da fanciul vagabondo e non curante, senza veder s’uomo saetti o fèra.

Qual caprar, per tua vita, o qual bifolco

non vedestù coperto

di cosi fatte spoglie? Eh, Silvio, Silvio!

chi coglie acerbo il senno,

maturo sempre ha d’ignoranza il frutto.

Credi tu, garzon vano,

che questo caso a caso oggi ti sia

cosi incontrato? Oh, come male avvisi!

Senza nume divin, questi accidenti

si mostruosi e novi

non avvengono agli uomini. Non vedi


ATTO QUARTO


159


che ’1 cielo è fastidito

di cotesto tuo tanto

fastoso, insopportabile disprezzo

d’araor, del mondo e d’ogn’affetto umano?

Non piace ai sommi dèi

l’aver compagni in terra,

né piace lor ne la virtute ancora

tanta alterezza. Or tu se’ muto si,

ch’eri pur dianzi intollerabil tanto ?

Dorinda. Silvio, lascia dir Lineo,

ch’egli non sa quale, in virtù d’Amore, tu abbi signoria sovra Dorinda e di vita e di morte.

Se tu mi saettasti,

quel eh’è tuo saettasti,

e feristi quel segno

eh’è proprio del tuo strale.

Quelle mani, a ferirmi,

han seguito lo stil de’ tuo’ begli occhi.

Ecco. Silvio, colei che ’n odio hai tanto,

eccola in quella guisa

che la volevi a punto.

Bramastila ferir: ferita l’hai; bramastila tua preda: eccola preda; bramastila alfin morta: eccola a morte.

Che vuoi tu più da lei? che ti può dare più di questo Dorinda? Ah garzon crudo! ah cor senza pietà! Tu non credesti la piaga che per te mi fece Amore: puoi questa or tu negar de la tua mano? Non hai creduto il sangue eh’i’ versava dagli occhi: crederai questo, che ’l mio fianco versa? Ma, se con la pietà non è in te spenta gentilezza e valor, che teco nacque, non mi negar, ti prego,


l6o IL PASTOR FIDO

anima cruda si. ma però bella, non mi negar a l’ultimo sospiro un tuo solo sospir. Beata morte, se raddolcissi tu con questa sola voce cortese e pia:

— Va’ in pace, anima mia! —

Silvio. Dorinda, ah! dirò «mia» se mia non sei se non quando ti perdo e quando morte da me ricevi, e mia non fosti allora ch’i’ti potei dar vita?

Pur « mia » dirò, ché mia sarai mal grado di mia dura sorte; e, se mia non sarai con la tua vita, sarai con la mia morte.

Tutto quel che ’n me vedi, a vendicarti è pronto.

Con quest’armi t’ancisi, e tu con queste ancor m’anciderai.

Ti fui crudele, ed io

altro da te che crudeltà non bramo.

Ti disprezzai superbo:

ecco, piegando le ginocchia a terra,

riverente t’adoro

e ti cheggio perdon, ma non già vita.

Ecco gli strali e l’arco;

ma non ferir già tu gli occhi o le mani,

colpevoli ministri

d’innocente voler; ferisci il petto,

ferisci questo mostro,

di pietade e d’amore aspro nemico;

ferisci questo cor che ti fu crudo:

eccoti il petto ignudo.

Dorinda. Ferir quel petto, Silvio?

Non bisognava agli occhi miei scovrirlo, s’avevi pur desio ch’io tei ferissi.

O bellissimo scoglio,


ATTO QUARTO


già da l’onda e dal vento

de le lagrime mie, de’ miei sospiri

si spesso invan percosso,

è pur ver che tu spiri

e che senti pietate? o pur m’inganno?

Ma sii tu pure o petto molle o marmo,

già non vo'che m'inganni

d’un candido alabastro il bel sembiante,

come quel d’una fèra

oggi ingannato ha il tuo signore e mio.

Ferir io te? te pur ferisca Amore,

ché vendetta maggiore

non so bramar che di vederti amante.

Sia benedetto il di che da prim’arsi! benedette le lagrime e i martiri ! di voi lodar, non vendicar, mi voglio.

Ma tu, Silvio cortese, che t’inchini a colei di cui tu signor sei, deh ! non istar in atto di servo; o, se pur servo di Dorinda esser vuoi, ergiti ai cenni suoi.

Questo sia di tua fede il primo pegno; il secondo, che vivi.

Sia pur di me quel che nel cielo è scritto;

in te vivrà il cor mio,

né, pur che vivi tu, morir poss’io.

E, se ’ngiusto ti par ch’oggi impunita

resti la mia ferita,

chi la fe’ si punisca:

fèlla quell’arco, e sol quell’arco péra:

sovra quell’omicida

cada la pena, ed egli sol s’ancida.

Linco. Oh sentenza giustissima e cortese !

Silvio. E cosi fia. Tu dunque


G. B. Guarini.


IÓ2


IL PASTOR FIDO


la pena pagherai, legno funesto;

e, perché tu de l’altrui vita il filo

mai più non rompa, ecco te rompo e snervo

e, qual fosti a la selva,

ti rendo inutil tronco.

E voi, strali, di lui, che ’l fianco aperse

de la mia cara donna, e per natura

e per malvagità forse fratelli,

non rimarrete interi,

non più strali o quadrella,

ma verghe invan pennute, invano armate,

ferri tarpati e disarmati vanni.

Ben mel dicesti, Amor, tra quelle frondi in suon d’Eco indovina.

O nume, domator d’uomini e dèi,

già nemico, or signore

di tutti i pensier miei ;

se la tua gloria stimi

d’aver domato un cor superbo e duro,

difendimi, ti prego,

da l’empio strai di Morte,

che con un colpo solo

anciderà Dorinda e con Dorinda

Silvio, da te pur vinto:

cosi Morte crudel, se costei more,

trionferà del trionfante Amore.

Linco. Cosi feriti ambiduo séte. Oh piaghe e fortunate e care, ma senza fine amare, se questa di Dorinda oggi non sana !

Dunque andiamo a sanarla.

Dorinda. Deh! Linco mio, non mi condur, ti prego, con queste spoglie a le paterne case.

Silvio. Tu dunque in altro albergo,

Dorinda, poserai che ’n quel di Silvio?

Certo ne le mie case,


Linco.

Dorinda.

Silvio.

Linco.

Silvio.


Dorinda.

Silvio.

Dorinda.

Silvio.

Linco.

Silvio.

Dorinda.


ATTO QUARTO 163

o viva o morta, oggi sarai mia sposa; e teco sarà Silvio o vivo o morto.

E come a tempo, or ch’Amarilli ha spento e le nozze e la vita e l’onestate!

Oh coppia benedetta! O sommi dèi, date con una sola salute a duo la vita.

Silvio, come son lassa! A pena posso reggermi, oimè! su questo fianco offeso.

Sta’ di buon cor, ch’a questo si troverà rimedio. A noi sarai tu cara soma e noi a te sostegno.

Linco, dammi la mano.

Eccola pronta.

Tiella ben ferma, e del tuo braccio e mio a lei si faccia seggio.

Tu, Dorinda, qui posa;

e quinci col tuo destro

braccio il collo di Linco, e quindi il mio

cingi col tuo sinistro; e si t’adatta

soavemente che ’l ferito fianco

non se ne dolga.

Ahi, punta

crudel che mi trafigge!

A tuo bell’agio

acconciati, ben mio.

Or mi par di star bene.

Linco, va’ col piè fermo.

E tu col braccio

non vacillar, ma va’ diritto e sodo, ché ti bisogna, sai? Questo è ben altro trionfar che d’un teschio.

Dimmi, Dorinda mia: come ti pugne forte lo strai?

Mi pugne, si, cor mio; ma nelle braccia tue Tesser punta m’è caro e’l morir dolce.


64


JL PASTOR FIDO


Coro.

Oh bella età de l’oro, quand’era cibo il latte del pargoletto mondo e culla il bosco; e i cari parti loro godean le gregge intatte, né temea il mondo ancor ferro né tosco ! Pensier torbido e fosco allor non facea velo al sol di luce eterna.

Or la ragion, che verna

tra le nubi del senso, ha chiuso il cielo,

ond’è che il peregrino

va l’altrui terra, e ’l mar turbando il pino.

Quel suon fastoso e vano, quell’inutil soggetto di lusinghe, di titoli e d’inganno, ch’«onor» dal volgo insano indegnamente è detto, non era ancor degli animi tiranno.

Ma sostener affanno

per le vere dolcezze;

tra i boschi e tra le gregge

la fede aver per legge,

fu di quell'alme, al ben oprar avvezze,

cura d’onor felice,

cui dettava Onestà: «Piaccia, se lice».

Allor tra prati e linfe gli scherzi e le carole, di legittimo amor furon le faci.

Avean pastori e ninfe

il cor ne le parole;

dava lor Imeneo le gioie e i baci

più dolci e più tenaci.


ATTO QUARTO


165


Un sol godeva ignude d’Amor le vive rose; furtivo amante ascose

le trovò sempre, ed aspre voglie e crude, o in antro o in selva o in lago, ed era un nome sol marito e vago.

Secol rio, che velasti co’ tuoi sozzi diletti il bel de l’alma, ed a nudrir la sete dei desiri insegnasti co’ sembianti ristretti, sfrenando poi l’impurità segrete!

Cosi, qual tesa rete

tra fiori e fronde sparte,

celi pensier lascivi

con atti santi e schivi ;

bontà stimi il parer, la vita un’arte;

né curi, e parti onore,

che furto sia, pur che s’asconda, amore.

Ma tu, deh ! spirti egregi forma ne’ petti nostri, verace Onor, de le grand’alme donno.

O regnator de’ regi,

deh! torna in questi chiostri,

che senza te beati esser non ponno.

Dèstin dal mortai sonno

tuoi stimoli potenti

chi per indegna e bassa

voglia, seguir te lassa,

e lassa il pregio de l'antiche genti.

Speriam, ché ’1 mal fa tregua talor, se speme in noi non si dilegua. Speriam, ché ’l sol cadente anco rinasce, e ’l ciel, quando men luce, l’aspettato seren spesso n’adduce.



ATTO QUINTO


Uranio.

Carino.


SCENA PRIMA Uranio, Carino.


Per tutto è buona stanza, ov’altri goda, ed ogni stanza al valentuomo è patria.

Gli è vero, Uranio, e troppo ben per prova tei so dir io, che le paterne case giovinetto lasciando e d’altro vago che di pascer armenti o fender solco, or qua or là peregrinando, al fine torno canuto onde partii già biondo.

Pur è soave cosa, a chi del tutto non è privo di senso, il patrio nido, ché die’ natura al nascimento umano verso il caro paese, ov’altri è nato, un non so che di non inteso affetto, che sempre vive e non invecchia mai.

Come la calamita, ancor che lunge il sagace nocchier la porti, errando or dove nasce, or dove more il sole, quell’occulta virtute, ond’ella mira la tramontana sua, non perde mai; cosi chi va lontan da la sua patria, benché molto s’aggiri e spesse volte in peregrina terra ancor s’annidi, quel naturale amor sempre ritiene, che pur l’inchina a le natie contrade.


i68


IL PASTOR FIDO


Uranio.


Carino.


O da me più d’ogn’altra amata e cara più d’ogn’altra, gentil terra d’Arcadia, che col piè tocco e con la mente inchino, se ne’ confini tuoi, madre gentile, foss’io giunto a chiusi occhi, anco t’avrei troppo ben conosciuto, cosi tosto m’è corso per le vene un certo amico consentimento incognito e latente, si pien di tenerezza e di diletto, che l’ha sentito in ogni fibra il sangue.

Tu dunque, Uranio mio, se del cammino mi se’ stato compagno e del disagio, ben è ragion che nel gioire ancora de le dolcezze mie tu m’accompagni.

Del disagio compagno e non del frutto stato ti son, ché tu se’ giunto ornai ne la tua terra, ove posar le stanche membra potrai e più la stanca mente; ma io, che giungo peregrino, e tanto dal mio povero albergo e da la mia più povera e smarrita famigliuola dilungato mi son, teco traendo per lunga via l’affaticato fianco, posso ben ristorar l’afflitte membra, ma non l’afflitta mente, a quel pensando che m’ho lasciato addietro e quanto ancora d’aspro cammin per riposar m’avanza.

Né so qual altro in questa età canuta m’avesse, se non tu, d’Elide tratto, senza saper de la cagion, che mosso t’abbia a condurmi in si rimota parte.

Tu sai che ’l mio dolcissimo Mirtillo, che ’l ciel mi die’ per figlio, infermo, venne qui per sanarsi (e già passati sono duo mesi, e più fors’anco) il mio consiglio, anzi quel de l’oracolo seguendo,


Uranio.


Carino.


ATTO QUINTO 169

che sol potea sanarlo il ciel d’Arcadia.

Io, che veder lontan pegno si caro lungamente non posso, a quella stessa fatai voce ricorsi, a quella chiesi del bramato ritorno anco consiglio.

La qual rispose in cotal guisa a punto:

«Torna a l’antica patria, ove felice sarai col tuo dolcissimo Mirtillo, però ch’ivi a gran cose il ciel sortillo.

Ma fuor d’Arcadia il ciò ridir non lice ».

Tu dunque, o fedelissimo compagno, diletto Uranio mio, che meco a parte d’ogni fortuna mia se’ stato sempre, posa le membra pur, ch’avrai ben onde posar anco la mente: ogni mia sorte, s’ella pur fia come l’addita il cielo, sarà teco comune. Indarno fora di sua felicità lieto Carino, se si dolesse Uranio.

Ogni fatica

che sia fatta per te, pur che t’aggradi, sempre, Carino mio, seco ha il suo premio.

Ma qual fu la cagion che fé’ lasciarti, se t’è si caro, il tuo natio paese?

Musico spirto in giovanil vaghezza d’acquistar fama ov’ è più chiaro il grido, ch’avido anch’io di peregrina gloria, sdegnai che sola mi lodasse e sola m’udisse Arcadia, la mia terra, quasi del mio crescente stil termine angusto; e colà venni, ov’è si chiaro il nome d’Elide e Pisa e fa si chiaro altrui.

Quivi il famoso Egon di lauro adorno vidi, poi d’ostro e di virtù pur sempre, si che Febo sembrava, ond’io, devoto, al suo nome sacrai la cetra e ’l core.


170


Uranio.


Carino.


IL PASTOR FIDO

E ’n quella parte, ove la gloria alberga, ben mi dovea bastar d’esser ornai giunto a quel segno ov’aspirò il mio core, se, come il ciel mi feo felice in terra, cosi conoscitor, cosi custode di mia felicità fatto m’avesse.

Come poi per veder Argo e Micene lasciassi Elide e Pisa, e quivi fussi adorator di deità terrena, con tutto quel che ’n servitù soffersi, troppo noiosa istoria a te l’udirlo, a me dolente il raccontarlo fóra.

Ti dirò sol che perdei l’opra e’1 frutto. Scrissi, piansi, cantai, arsi, gelai, corsi, stetti, sostenni, or tristo or lieto, or alto or basso, or vilipeso or caro, e, come il ferro delfico, stromento or d’impresa sublime, or d’opra vile, non temei risco e non schivai fatica.

Tutto fei, nulla fui. Per cangiar loco, stato, vita, pensier, costumi e pelo, mai non cangiai fortuna. Alfin conobbi e sospirai la libertà primiera, e dopo tanti strazi, Argo lasciando e le grandezze di miseria piene, tornai di Pisa ai riposati alberghi, dove, mercé di provvidenza eterna, del mio caro Mirtillo acquisto fei, consolator d’ogni passata noia.

Oh mille volte fortunato e mille chi sa por meta a’ suoi pensieri, in tanto che, per vana speranza immoderata, di moderato ben non perde il frutto !

Ma chi creduto avria di venir meno tra le grandezze e impoverir ne l’oro?

I’ mi pensai che ne’ reali alberghi


atto quinto


fossero tanto più le genti umane, quant’esse han più di tutto quel dovizia ond’è l’umanità si nobil fregio; ma vi trovai tutto ’l contrario, Uranio. Gente di nome e di parlar cortese, ma d’opre scarsa e di pietà nemica; gente placida in vista e mansueta, ma più del cupo mar tumida e fèra; gente sol d’apparenza, in cui se miri viso di carità, mente d’invidia poi trovi, e ’n dritto sguardo animo bieco, e minor fede allor che più lusinga.

Quel, eh'altrove è virtù, quivi è difetto: dir vero, oprar non torto, amar non finto, pietà sincera, inviolabil fede, e di core e di man vita innocente, stiman d’animo vii, di basso ingegno, sciocchezza e vanità degna di riso. L’ingannare, il mentir, la frode, il furto e la rapina di pietà vestita, crescer col danno e precipizio altrui e far a sé de l’altrui biasmo onore, son le virtù di quella gente infida.

Non merto, non valor, non riverenza né d’età né di grado né di legge, non freno di vergogna, non rispetto né d’amor né di sangue, non memoria di ricevuto ben, né, finalmente, cosa si venerabile o si santa o si giusta esser può, ch'a quella vasta cupidigia d’onori, a quella ingorda fame d’avere inviolabil sia.

Or io, eh’incauto e di lor arti ignaro sempre mi vissi e portai scritto in fronte il mio pensiero e disvelato il core, tu puoi pensar s’a non sospetti strali d’invida gente fui scoperto segno.


172


IL PASTOR FIDO


Uranio. Or chi dirà d’esser felice in terra, se tanto a la virtù nóce l’invidia?

Carino. Uranio mio, se da quel di, che meco passò la musa mia d’Elide in Argo, avessi avuto di cantar tant’agio. quanta cagion di lagrimar sempr’ebbi, con si sublime stil forse cantato avrei del mio signor Tarmi e gli onori, ch’or non avria de la meonia tromba da invidiar Achille; e la mia patria, madre di cigni sfortunati, andrebbe già per me cinta del secondo alloro.

Ma oggi è fatta (oh secolo inumano!) l’arte del poetar troppo infelice.

Lieto nido, ésca dolce, aura cortese bramano i cigni; e non si va in Parnaso con le cure mordaci. E chi pur garre sempre col suo destino e col disagio, vien roco e perde il canto e la favella. Ma tempo è già di ricercar Mirtillo.

Ben che si nuove e si cangiate i’ trovi, da quel ch’esser solean, queste contrade, ché ’n esse a pena i’ riconosco Arcadia, con tutto ciò vien’ lietamente, Uranio. Scorta non manca a peregrin c’ha lingua. Ma forse è ben ch’ai più vicino ostello, poi che se’ stanco, a riposar ti resti.

SCENA SECONDA Titiro, messo.

Titiro. Che piangerò di te prima, mia figlia, la vita e l’onestate?

Piangerò l’onestate,

ché di padre mortai se’ tu ben nata,


ATTO QUINTO


17.3


Messo.


Titiro.

Messo.

Titiro.

Messo.

Titiro.

Messo.


ma non di padre infame;

e’nvece de la tua

piangerò la mia vita, oggi serbata

a veder in te spenta

la vita e l’onestate.

O Montano, Montano,

tu sol co’ tuoi fallaci

e mali intesi oracoli, e col tuo

d’Amore e di mia figlia

disprezzator superbo, a cotal fine

l’hai tu condotta. Ahi, quanto meno incerti

degli oracoli tuoi

son oggi stati i miei !

Ch’onestà contr’amore è troppo frale schermo in giovinetto core, e donna scompagnata è sempre mal guardata.

(Se non è morto o se per l’aria i venti non Fhan portato, i’devrei pur trovarlo. Ma eccol, s’io non erro, quando meno il pensai).

O da me tardi e per te troppo a tempo, vecchio padre infelice, allin trovato, che novelle t’arreco!

Che rechi tu ne la tua lingua? Il ferro che svenò la mia figlia?

Questo non già, ma poco meno. E come l’hai tu per altra via si tosto inteso?

Vive ella dunque?

Vive, e ’n man di lei sta il vivere e ’l morire.

Benedetto sii tu, che m'hai da morte tornato in vita! Or come non è salva, s’a lei sta il non morire?

Perché viver non vuole.


174


IL PASTOR FIDO


Titiro. Viver non vuole? E qual follia l’induce a sprezzar si la vita?

Messo. L’altrui morte.

E, se tu non la smovi,

ha cosi fisso il suo pensiero in questo,

che spende ogn’altro invan preghi e parole.

Titiro. Or che si tarda? Andiamo.

Messo. Fermati, ché le porte

del tempio ancor son chiuse.

Non sai tu che toccar la sacra soglia, se non a piè sacerdotal, non lice fin che non esca del sacrario adorna la destinata vittima agli altari?

Titiro. E s’ella desse intanto

al fiero suo proponimento effetto?

Messo. . Non può, eh’è custodita.

Titiro. In questo mezzo dunque

narrami il tutto, e senza velo ornai fa’ che ’l vero n’intenda.

Messo. Giunta dinanzi al sacerdote (ahi, vista piena d’orror!) la tua dolente figlia, che trasse, non dirò dai circostanti, ma, per mia fé, da le colonne ancora del tempio stesso e da le dure pietre, che senso aver parean, lagrime amare; fu quasi in un sol punto accusata, convinta e condennata.

Titiro. Misera figlia! E perché tanta fretta?

Messo. Perché de la difesa eran gli indici troppo maggiori; e certa sua ninfa, ch’ella in testimon recava de l’innocenza sua, né quivi era presente, né fu mai chi trovar la sapesse.

I fieri segni intanto e gli accidenti mostruosi e pieni


ATTO QUINTO


di spavento e d’orror, che son nel tempio,

non pativano indugio,

tanto più gravi a noi quanto più nuovi,

e più mai non sentiti

dal di che minacciàr l’ira celeste,

vendicatrice dei traditi amori

del sacerdote Aminta,

sola cagion d’ogni miseria nostra.

Suda sangue la dea, trema la terra,

e la caverna sacra

mugge tutta e risuona

d’insoliti ululati e di funesti

gemiti, e fiato si putente spira,

che da l’immonde fauci

più grave non cred’io l’esali Averno.

Già con l’ordine sacro,

per condur la tua figlia a cruda morte,

il sacerdote s’inviava, quando,

vedendola Mirtillo (oh, che stupendo

caso udrai!), s’offerse

di dar con la sua morte a lei la vita,

gridando ad alta voce:

— Sciogliete quelle mani! (ah, lacci indegni!) ed invece di lei, eh'esser dovea vittima di Diana, me traete agli altari, vittima d’Amarilli. —

Titiro. Oh di fedele amante

e di cor generoso atto cortese!

Messo. Or odi maraviglia.

Quella, che fu pur dianzi

si da la tèma del morire oppressa,

fatta allor di repente

a le parole di Mirtillo invitta,

con intrepido cor cosi rispose:

— Pensi dunque, Mirtillo,


1-6


IL PASTOR FIDO


di dar col tuo morire vita a chi di te vive?

O, miracolo ingiusto! Su, ministri, su! che si tarda? ornai menatemi agli altari.

— Ah, che tanta pietà non volev’io! — soggiunse allor Mirtillo.

— Torna cruda, Amarilli, .

ché cotesta pietà si dispietata

troppo di me la miglior parte offende.

A me tocca il morire. — Anzi a me pure — rispondeva Amarilli, — ché per legge son condennata. — E quivi si contendea tra lor, come s’a punto fosse vita il morire, il viver morte.

Oh anime bennate, oh coppia degna di sempiterni onori !

Oh vivi e morti gloriosi amanti!

Se tante lingue avessi e tante voci quant’occhi il cielo e quante arene il mare, perderien tutte il suono e la favella nel dir a pien le vostre lodi immense.

Figlia del cielo, eterna e gloriosa donna,

che l’opre de’ mortali al tempo involi, accogli tu la bella istoria e scrivi con lettre d’oro in solido diamante l’alta pietà de l’uno e l’altro amante.

Titiro. Ma qual fin ebbe poi quella mortai contesa?

Messo. Vinse Mirtillo (oh, che mirabil guerra, dove del vivo ebbe vittoria il morto!), però che ’l sacerdote disse a la figlia tua: — Quètati, ninfa, ché « campar per altrui non può chi per altrui s’offerse a morte ».


ATTO QUINTO


177


Titiro.


Messo.


Titiro.

Messo.

Titiro.

Messo.

Titiro.

Messo.


Cosi la legge nostra a noi prescrive. —

Poi comandò che la donzella fosse si ben guardata, che ’l dolore estremo a disperato fin non la traesse.

In tale stato eran le cose, quando di te mandommi a ricercar Montano. Insomma egli è pur vero: senz’odorati fiori

le rive e i poggi e senza verdi onori vedrai le selve a la stagion novella, prima che senza amor vaga donzella.

Ma, se qui dimoriam, come sapremo l’ora di gir al tempio?

Qui meglio assai che altrove,

ché questo a punto è ’l loco, ov'esser deve

il buon pastore in sacrificio offerto.

E perché no nel tempio?

Perché si dà la pena o\e fu il fallo.

E perché no ne l’antro, se ne l’antro fu il fallo?

Perché a scoperto ciel sacrar si deve.

E onde hai tu questi misteri intesi?

Dal ministro maggior. Cosi dic’egli da l’antico Tirenio aver inteso che ’l fido Aminta e l’infedel Lucrina sacrificati fóro.

Ma tempo è di partire. Ecco che scende la sacra pompa al piano.

Sarà forse ben fatto che per quest’altra via

ce n’andiam noi per la tua figlia al tempio.


G. B. Guarini.


12


173


IL PASTOR FIDO


SCENA TERZA

Coro di pastori, coro di sacerdoti, Montano, Mirtillo.

Pastori. O figlia del gran Giove,

o sorella del Sol, ch'ai cieco mondo splendi nel primo ciel, Febo secondo!

Sacerdoti. Tu, che col tuo vitale e temperato raggio scemi l’ardor de la fraterna luce, onde qua giù produce felicemente poi l'alma natura tutti i suoi parti, e fa d'erbe e di piante, d’uomini e d’animai ricca e feconda l’aria, la terra e l’onda; deh! si come in altrui tempri l’arsura, cosi spegni in te l’ira ond'oggi Arcadia tua piagne e sospira.

Pastori. O figlia del gran Giove,

o sorella del Sol, ch’ai cieco mondo splendi nel primo ciel, Febo secondo!

Montano. Drizzate ornai gli altari, sacri ministri; e voi, o devoti pastori, a la gran dea, reiterando le canore voci, invocate il suo nome.

Sacerdoti. O figlia del gran Giove,

o sorella del Sol, ch'ai cieco mondo splendi nel primo ciel, Febo secondo!

Montano. Traetevi in disparte,

pastori e servi miei, né qua venite, se da la voce mia non séte mossi.

Giovane valoroso,

che, per dar vita altrui, vita abbandoni, mori pur consolato.


ATTO QUINTO


1 79


Tu con un breve sospirar, che morte sembra agli animi vili, immortalmente al tuo morir t’involi.

E, quando avrà già fatto l’invida età, dopo mill’anni e mille, di tanti nomi altrui l’usato scempio, vivrai tu allor, di vera fede esempio.

Ma, perché vuol la legge che taciturna vittima tu moia, prima che pieghi le ginocchia a terra, se cosa hai qui da dir, dilla, e poi taci.

Mirtillo. Padre, ché padre di chiamarti, ancora

che morir debbia per tua man, mi giova, lascio il corpo a la terra e lo spirto a colei eh’è la mia vita.

Ma, s’avvien ch’ella moia,

come di far minaccia, oimè! qual parte

di me resterà viva?

Oh, che dolce morir, quando sol meco il mio mortai moria, né bramava morir l’anima mia!

Ma, se merta pietà colui che more per soverchia pietà, padre cortese, provvedi tu ch’ella non moia, e ch’io con questa speme a miglior vita i’ passi. Paghisi il mio destin de la mia morte, sfoghisi col mio strazio.

Ma, poi ch’io sarò morto, ah! non mi tolga ch’i’ viva almeno in lei con l’alma da le membra disunita, se d’unirmi con lei mi tolse in vita.

Montano. (A gran pena le lagrime ritegno.

O nostra umanità, quanto se’frale!)

Figlio, sta’ di buon cor, ché quanto brami di far prometto. E ciò per questo capo ti giuro, e questa man ti do per pegno.


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IL PASTOR FIDO


Mirtillo. Or consolato moro e consolato a te vengo, Amarilli.

Ricevi il tuo Mirtillo,

del tuo fido pastor l’anima prendi,

ché, ne l’amato nome d’Amarilli

terminando la vita e le parole,

qui piego a morte le ginocchia e taccio.

Montano. Or non s’indugi più. Sacri ministri, suscitate la fiamma, e, spargendovi sopra incenso e mirra, traetene vapor che ’n alto ascenda.

Pastori. O figlia del gran Giove,

o sorella del Sol, ch’ai cieco mondo splendi nel primo ciel, Febo secondo!

SCENA QUARTA

Carino, Montano, Nicandro, Mirtillo, coro di pastori.

Carino. (Chi vide mai si rari abitatori

in si spessi abituri? Or, s’io non erro,

eccone la cagione:

vèlli qua tutti in un drappel ridotti.

Oh quanta turba, oh quanta !

Coin’è ricca e solenne! veramente qui si fa sacrificio.)

Montano. Porgimi il vasel d’oro,

Nicandro, ov’è riposto l’almo licor di Bacco.

Nicandro. Eccotel pronto.

Montano. Cosi il sangue innocente

ammollisca il tuo petto, o santa dea, come rammorbidisce l’incenerita ed arida favilla questa d’almo licor cadente stilla.

Or tu riponi il vasel d’oro, e poscia dammi il nappo d’argento.


ATTO QUINTO


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Nicandro. Eccoti il nappo.

Montano. Cosi l’ira sia spenta

che destò nel tuo cor perfida ninfa, come spegne la fiamma questa cadente linfa.

Carino. (Pur questo è sacrificio, né vittima ci veggio.)

Montano. Or tutto è preparato,

né manca altro che ’1 fin. Dammi la scure.

Carino. (Vegg’io forse, o m’inganno, un che nel tergo ad uom si rassomiglia, con le ginocchia a terra?

È forse egli la vittima? Oh meschino!

Egli è per certo, e gli tien già la mano il sacerdote in capo.

Infelice mia patria! ancor non hai l’ira del ciel dopo tant’anni estinta?)

Pastori. O figlia del gran Giove,

o sorella del Sol, ch’ai cieco mondo splendi nel primo ciel, Febo secondo!

Montano. Vindice dea, che la privata colpa con publico flagello in noi punisci,

(cosi ti piace, e forse

cosi sta ne l’abisso

de l’immutabil providenza eterna),

poi che l’impuro sangue

de l’infedel Lucrina in te non valse

a dissetar quella giustizia ardente

che del ben nostro ha sete,

bevi questo innocente

di volontaria vittima e d’amante

non inen d’Aminta fido,

ch’ai sacro altare in tua vendetta uccido.

Pastori. O figlia del gran Giove,

o sorella del Sol, ch’ai cieco mondo splendi nel primo ciel, Febo secondo!


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IL PASTOR FIDO


Montano. (Deh, come di pietà pur ora il petto intenerir mi sento !

Che ’nsolito stupor mi lega i sensi !

Par che non osi il cor né la man possa levar questa bipenne.)

Carino. (Vorrei prima nel viso

veder quell’infelice e poi partirmi, ché non posso mirar cosa si fiera.)

Montano. (Chi sa che ’n faccia al sol, ben che tramonti, non sia fallo il sacrar vittima umana, e perciò la fortezza

languisca in me de l’anima e del corpo?)

Volgiti alquanto e gira la moribonda faccia inverso il monte.

Cosi sta ben.

Carino. (Misero me! Che veggio?

Non è quello il mio figlio? il mio caro Mirtillo?

Montano. (Or posso...)

Carino. (È troppo desso.)

Montano. (...e’1 colpo libro.)

Carino. Che fai, sacro ministro?

Montano. E tu, uomo profano,

perché ritieni il sacro ferro ed osi di por tu qui la temeraria mano?

Carino. O Mirtillo, ben mio,

già d’abbracciarti in si dolente guisa...

Nicandro. Va’in malora, insolente e pazzo vecchio!

Carino. ...non mi credev’io mai.

Nicandro. Scostati, dico,

ché con impura man toccar non lice cosa sacra agli dèi.

Carino. Caro agli dèi

son ben anch’io, ché con la scorta loro qui mi condussi.

Montano. Cessa,

Nicandro. Udiamlo prima, e poi si parta.


ATTO QUINTO


183


Carino. Deh! ministro cortese, prima che sopra il capo di quel garzon cada il tuo ferro, dimmi perché more il meschino. Io te ne prego per quella dea ch’adori.

Montano. Per nume tal tu mi scongiuri, ch’empio sarei se tei negassi.

Ma che t’importa ciò?

Carino. Più che non credi.

Montano. Perch’egli stesso a volontaria morte s’è per altrui donato.

Carino. Dunque per altrui more?

Anch’io morrò per lui. Deh! per pietate, drizza in vece di quello a questo capo già cadente il colpo.

Montano. Amico, tu vaneggi.

Carino. E perché a me si nega quel ch’a lui si concede?

Montano. Perché se’ forastiero.

Carino. E s’io non fussi?

Montano. Né fare anco il potresti, ché « campar per altrui non può chi per altrui s’offerse a morte ». Ma dimmi: chi se’tu, se pur è vero che non sii forestiero?

A l’abito tu certo arcade non mi sembri.

Carino. Arcade sono.

Montano. In questa terra già non mi sovviene d'averti io mai veduto.

Carino. In questa terra nacqui, e son Carino, padre di quel meschino.

Montano. Padre tu di Mirtillo? oh come giugni a te stesso ed a noi troppo importuno ! Scostati immantenente, ché col paterno affetto


IL PASTOR FIDO


184

render potresti infruttuoso e vano il sacrificio nostro.

Carino. Ah, se tu fussi padre!

Montano. Son padre, e padre ancor d’unico figlio, e pur tenero padre. Nondimeno, se questo fosse del mio Silvio il capo, già non sarei men pronto a far di lui quel che del tuo far deggio, ché sacro manto indegnamente veste chi, per publico ben, del suo privato comodo non si spoglia.

Carino. Lascia ch’i ’1 baci almen prima ch’e’ mora.

Montano. E questo molto meno.

Carino. O sangue mio, e tu ancor se’ si crudo, che non rispondi al tuo dolente padre?

Mirtillo. Deh ! padre, ornai t’acqueta,...

Montano. Oh, noi meschini

Contaminato è ’l sacrificio, o dèi!

Mirtillo. ... ché spender non potrei più degnamente la vita che m’hai data.

Montano. Troppo ben m’avvisai

ch’a le paterne lagrime costui romperebbe il silenzio.

Mirtillo. Misero! qual errore

ho io commesso ! oh come la legge del tacer m’usci di mente?

Montano. Ma che si tarda? Su, ministri, al tempio rimenatelo tosto,

e ne la sacra cella un’altra volta da lui si prenda il volontario voto.

Qui poscia ritornandolo, portate con esso voi per sacrificio novo nov’acqua, novo vino e novo foco.

Su, speditevi tosto, ché già s’inchina il sole.


ATTO QUINTO


SCENA QUINTA Montano, Carino, Dameta.


Montano. Ma tu, vecchio importuno,

ringrazia pur il del che padre sei; se ciò non fosse, i’ ti farei (per questa sacra testa tei giuro) oggi sentire quel che può l’ira in me, poi che si male usi la sofferenza.

Sai tu forse chi sono?

Sai tu che qui con una sola verga reggo l’umane e le divine cose?

Carino. Per domandar mercede signoria non s’offende.

Montano. Troppo t’ ho io sofferto, e tu per questo se’ venuto insolente.

Né sai tu che, se l’ira in giusto petto

lungamente si coce,

quanto più tarda fu, tanto più nóce?

Carino. Tempestoso furor non fu mai l’ira in magnanimo petto, ma un fiato sol di generoso affetto, che, spirando ne l’alma, quand’ella è più con la ragione unita, la desta e rende a le bell’opre ardita. Dunque, se grazia non impetro, almeno fa’ che giustizia i’ trovi, e ciò negarmi per debito non puoi, ché chi dà legge altrui, non è da legge in ogni parte sciolto, e quanto se’ maggiore nel comandar, tanto più d’ubbidire se’ tenut’anco a chi giustizia chiede.


i86


IL PASTOR FIDO


Ed ecco i’ te la cheggio:

s’a me far non la vuoi, falla a te stesso,

ché, Mirtillo uccidendo, ingiusto sei.

Montano. E come ingiusto son? Fa’che t’intenda.

Carino. Non mi dicesti tu che qui non lice sacrificar d’uomo straniero il sangue?

Montano. Dissilo, e dissi quel che ’l ciel comanda.

Carino. Pur quello è forestier che sacrar vuoi.

Montano. E come forestier? Non è tuo figlio?

Carino. Bastiti questo, e non cercar più innanzi.

Montano. Forse perché tra noi noi generasti?

Carino. Spesso men sa chi troppo intender vuole.

Montano. Ma qui s’attende il sangue e non il loco.

Carino. Perché noi generai, straniero il chiamo.

Montano. Dunque è tuo figlio, e tu noi generasti?

Carino. E, se noi generai, non è mio figlio.

Montano. Non mi dicesti tu eh’è di te nato?

Carino. Dissi eh’è figlio mio, non di me nato.

Montano. Il soverchio dolor t’ha fatto insano.

Carino. Non sentirei dolor, se fussi insano.

Montano. Non puoi fuggir d'esser malvagio o stolto.

Carino. Come può star malvagità col vero?

Montano. Come può star in un figlio e non figlio?

Carino. Può star figlio d’amor, non di natura.

Montano. Dunque, s’è figlio tuo, non è straniero; e se non è, non hai ragione in lui.

Cosi convinto se’, padre o non padre.

Carino. Sempre di verità non è convinto chi di parole è vinto.

Montano. Sempre convinta è di colui la fede, che nel suo favellar si contraddice.

Carino. Ti torno a dir che tu fai opra ingiusta.

Montano. Sopra questo mio capo

e sopra il capo di mio figlio cada tutta questa ingiustizia.

Carino. Tu te ne pentirai.


ATTO QUINTO I 87

Montano. Ti pentirai ben tu, se non mi lasci fornir l'ufficio mio.

Carino. In testimon ne chiamo uomini e dèi.

Montano. Chiami tu forse i dèi, ch’hai disprezzati ?

Carino. E, poi che tu non m’odi, odami cielo e terra, odami la gran dea che qui s’adora, che Mirtillo è straniero e che non è mio figlio, e che profani il sacrificio santo.

Montano. (Il ciel m’aiti

con quest’uomo importuno).

Chi è dunque suo padre, se non è figlio tuo?

Carino. Non tei so dire;

so ben che non son io.

Montano. Vedi come vacilli?

È egli del tuo sangue?

Carino. Né questo ancora.

Montano. E perché figlio il chiami?

Carino. Perché l’ho come figlio, dal primo di ch’i’l’ebbi, per fin a questa età, sempre nudrito ne le mie case e come figlio amato.

Montano. Il comprasti? il rapisti? onde l’avesti?

Carino. In Elide l’ebb’io, cortese dono d’uomo straniero.

Montano. E quell'uomo straniero

donde l’ebb’egli?

Carino. A lui l’avea dat’io.

Montano. Sdegno tu movi in un sol punto e riso.

Dunque avesti tu in dono quel che donato avevi?

Carino. Quel ch’era suo, gli diedi,

ed egli a me ne fe’ cortese dono.

Montano. E tu, poi ch’oggi a vaneggiar mi tiri, onde avuto l’avevi?


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IL PASTOR FIDO


Carino. In un cespuglio d’odorato mirto poco prima i’ l’aveva ne la foce d’Alfeo trovato a caso: per questo solo il nominai Mirtillo. Montano. Oh, come ben favole fingi ed orni!

Han fere i vostri boschi?

Carino. E di che sorte!

Montano. Come noi divoràro?

Carino. Un rapido torrente

l’avea portato in quel cespuglio e quivi lasciatolo, nel seno di picciola isoletta,

che d’ogn’intorno il difendea con l’onda. Montano. Tu certo ordisci ben menzogne e fole!

Ed era stata si pietosa l’onda, che non l’avea sommerso?

Son si discreti in tuo paese i fiumi, che nudriscon gl’infanti?

Carino. Posava entr’una culla; e questa, quasi discreta navicella, d’altra soda materia, che soglion ragunar sempre i torrenti, accompagnata e cinta, l’avea portato in quel cespuglio a caso. Montano. Posava entr’una culla?

Carino. Entr’una culla.

Montano. Bambino in fasce?

Carino. E ben vezzoso ancora.

Montano. E quanto ha che fu questo?

Carino. Fa’ tuo conto

che son passati già diciannove anni dal gran diluvio; e’ son tant’anni a punto. Montano. (Oh qual mi sento orror vagar per Possa! Carino. (Egli non sa che dire.

Oh superbo costume

de le grand’alme! Oh pertinace ingegno,


ATTO QUINTO


189


che, vinto, anco non cede, e pensa d’avanzar cosi di senno come di forze avanza !

Questi certo è convinto, e se ne duole, s’io bene al malinteso

suo mormorar l’intendo; e ’n qualche modo, ch’avesse pur di verità sembianza, coprir vorrebbe il fallo de l’ostinata mente.)

Montano. Ma che ragione in quel bambino avea

quell’uom di cui tu parli? era suo figlio?

Carino. Questo non ti so dir.

Montano. Né mai di lui

notizia avesti tu maggior di questa?

Carino. Tanto a punto ne so. Vedi novelle!

Montano. Conoscerestil tu?

Carino. Sol ch’io’l vedessi:

rozzo pastor a l'abito ed al viso, di mezzana statura e di pel nero, d’ispida barba e di setose ciglia.

Montano. Venite a me, pastori e servi miei!

Dameta. Eccoci pronti.

Montano. Or mira:

a qual di questi più si rassomiglia l’uom di cui parli?

Carino. A quel che teco parla.

Non sol si rassomiglia, ma quegli a punto è desso; e’ mi par quello stesso ch’era vent’anni già, ch’un pelo solo non ha canuto, ed io son tutto bianco.

Montano. Tornatevi in disparte! E tu qui meco resta, Dameta, e dimmi: conosci tu costui?

Dameta. Mi par di si, ma dove

già non so dirti o come.


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IL PASTOR FIDO


Carino.

Montano

Carino.

Montano

Carino.

Montano


Dameta.

Montano

Dameta.

Montano


Dameta.

Montano

Dameta.

Montano

Carino.

Dameta.

Montano

Carino.

Dameta.


Or io di tutto

ben ricordar farollo.

A me tu prima

lascia favellar seco, e non t’incresca d’allontanarti alquanto.

E volentieri

fo quanto mi comandi.

Or mi rispondi, Dameta, e guarda ben di non mentire. (Che sarà questo, oh dèi?)

Tornando tu da ricercar, già sono

vent’anni, il mio bambin, che con la culla

rapi il fiero torrente,

non mi dicesti tu che le contrade

tutte, che bagna Alfeo, cercate avevi

senz’alcun frutto?

E perché ciò mi chiedi? Rispondi a questo pur: non mi dicesti che ritrovato non l’avevi?

11 dissi.

, Or che bambino è quello, ch’allor donasti in Elide a colui che qui t’ha conosciuto?

Or son vent’anni,

e vuoi ch’un vecchio si ricordi tanto?

Ed egli è vecchio, e pur se ne ricorda. Più tosto egli vaneggia.

Or il vedremo.

Dove se’, peregrino?

Eccomi.

(Oh fossi

tanto sotterra!)

Dimmi :

non è questo il pastor che ti fe’ il dono? Questo per certo.

E di qual dono parli?


ATTO QUINTO 19 r

Carino. Non ti ricordi tu, quando nel tempio de l’olimpico Giove, avendo quivi da l’oracolo avuta già la risposta e stando tu per partire, i’ mi ti feci incontro, chiedendoti di quello che ricercavi i segni, e tu li desti; indi poi ti condussi a le mie case, e quivi il tuo bambino trovasti in culla e me ne festi il dono?

Dameta. Che vuoi tu dir per questo?

Carino. Or quel bambino,

ch’allor tu mi donasti e ch’io poi sempre ho come figlio appresso me nudrito, è ’1 misero garzon ch’a questi altari vittima è destinato.

Dameta. (Oh forza del destino!)

Montano. Ancor t’infingi?

È vero tutto ciò ch’egli t’ha detto?

Dameta. Cosi morto fuss’io, com’è ben vero!

Montano. Ciò t’avverrà, s’anco nel resto menti.

E qual cagion ti mosse a donar quello altrui, che tuo non era?

Dameta. Deh! non cercar più innanzi,

padroni deh! non, per Dio! Bastiti questo.

Montano. Più sete or me ne viene.

Ancor mi tieni a bada? ancor non parli?

Morto, se’ tu s’un’altra volta il chiedo.

Dameta. Perché m'avea l'oracolo predetto

che ’l trovato bambin correa periglio, se mai tornava a le paterne case, d'esser dal padre ucciso.

Carino. E questo è vero,

ché mi trovai presente.

Montano. Oimè, ché tutto

già troppo è manifesto! 11 caso è chiaro: col sogno e col destin s’accorda il fatto.


192


IL PASTOR FIDO


Carino. Or che ti resta più? vuoi tu chiarezza di questa anco maggior?

Montano. Troppo son chiaro

troppo dicesti tu, troppo intes’io.

Cercato avess’io men, tu raen saputo!

O Carino, Carino !

Come teco dolor cangio e fortuna!

Come gli affetti tuoi son fatti miei!

Questo è mio figlio. O figlio

troppo infelice d’infelice padre!

figlio, da Tonde assai più fieramente

salvato che rapito,

poi che cader per le paterne mani

dovevi ai sacri altari

e bagnar del tuo sangue il patrio suolo!

Carino. Padre tu di Mirtillo? Oh maraviglia!

In che modo il perdesti?

Montano. Rapito fu da quel diluvio orrendo,

che testé mi dicevi. Oh caro pegno !

Tu fusti salvo allor che ti perdei; ed or solo ti perdo, perché trovato sei.

Carino. O Provvidenza eterna, con qual alto consiglio tanti accidenti hai fin a qui sospesi, per farli poi cader tutti in un punto!

Gran cosa hai tu concetta, gravida se’ di mostruoso parto: o gran bene o gran male partorirai tu certo.

Montano. Questo fu quel che mi predisse il sogno, ingannevole sogno, nel mal troppo verace, nel ben troppo bugiardo.

Questa fu quella insolita pietate, quell’improvviso orrore


ATTO QUINTO


J 93


che nel mover del ferro sentii scorrer per l’ossa, ch’abborriva natura un cosi fiero, per man del padre, abbominevol colpo.

Carino. Ma che? Darai tu dunque

a si nefando sacrificio effetto?

Montano. Non può per altra man vittima umana cader a questi altari.

Carino. Il padre al figlio

darà dunque la morte?

Montano. Cosi comanda a noi la nostra legge.

E qual sarà di perdonarla altrui carità si possente, se non volle perdonar a se stesso il fido Aminta?

Carino. O malvagio destino,

dove m’hai tu condotto?

Montano. A veder di duo padri

la soverchia pietà fatta omicida: la tua verso Mirtillo, la mia verso gli dèi.

Tu credesti salvarlo

col negar d'esser padre, e l’hai perduto; io, cercando e credendo d’uccider il tuo figlio, il mio trovo, e l’uccido.

Carino. Ecco l’orribil mostro,

. che partorisce il fato. Oh caso atroce !

O Mirtillo, mia vita ! è questo quello che m’ha di te l’oracolo predetto?

Cosi ne la mia terra

mi fai felice? o figlio,

figlio, di questo sventurato vecchio

già sostegno e speranza, or pianto e morte!

Montano. Lascia a me queste lagrime, Carino, che piango il sangue mio.

Ah, perché sangue mio,


G. B. Guarini.


13


r 94


IL PASTOR FIDO


se l’ho da sparger io? Misero figlio! perché ti generai? perché nascesti?

A te dunque la vita salvò l’onda pietosa, perché te la togliesse il crudo padre?

Santi numi immortali,

senz’il cui alto intendimento eterno

né pur in mar un’onda

si move o in aria spirto o in terra fronda,

qual si grave peccato

ho contra voi commesso, ond’io sia degno di venir col mio seme in ira al cielo?

Ma, s’ho pur peccat'io, in che peccò il mio figlio?

Ché non perdoni a lui, e con un soffio del tuo sdegno ardente me, folgorando, non ancidi, o Giove?

Ma, se cessa il tuo strale, non cesserà il mio ferro.

Rinnoverò d’Aminta il doloroso esempio, e vedrà prima il figlio estinto il padre, che ’l padre uccida di sua mano il figlio. Mori dunque, Montano! Oggi morire a te tocca, a te giova.

Numi, non so s’io dica

del cielo o dell'inferno,

che col duolo agitate

la disperata mente,

ecco, il vostro furore,

poi che cosi vi piace, ho già concetto.

Non bramo altro che morte; altra vaghezza non ho che del mio fine.

Un funesto desio d'uscir di vita

tutto m'ingombra e par che mi conforte.

A la morte ! a la morte !


ATTO QUINTO


195


Carino. O infelice vecchio!

come il lume maggiore

la minor luce abbaglia,

cosi il dolor, che del tuo male i’ sento,

il mio dolore ha spento.

Certo se’ tu d’ogni pietà ben degno.

SCENA SESTA Tirenio, Montano, Carino.

Tirenio. Affréttati, mio figlio, ma con sicuro passo, si eh’i’possa seguirti e non inciampi, per questo dirupato e torto calle, col piè cadente, e cieco.

Occhio se’ tu di lui, come son io occhio de la tua mente.

E, quando sarai giunto innanzi al sacerdote, ivi ti ferma.

Montano. Ma non è quel che colà veggio il nostro venerando Tirenio,

eh’è cieco in terra e tutto vede in cielo? Qualche gran cosa il move, cbé da molt’anni in qua non s’è veduto fuor de la sacra cella.

Carino. Piaccia a l’alta bontà de’ sommi dèi che per te lieto ed opportuno giunga.

Montano. Che novità vegg’ io, padre Tirenio?

Tu fuor del tempio? ove ne vai? che porti?

Tirenio. A te solo ne vengo,

e nuove cose porto e nuove cerco.

Montano. Come teco non è l’ordine sacro? che tarda? ancor non torna con la purgata vittima e col resto, ch’a l’interrotto sacrificio manca?


196


IL PASTOR FIDO


Tirenio. Oh, quanto spesso giova

la cecità degli occhi al veder molto,

ch’allor, non traviata

l’anima ed in se stessa

tutta raccolta, suole

aprir nel cieco senso occhi lincèi!

Non bisogna, Montano,

passar si leggermente alcuni gravi

non aspettati casi,

che tra l’opere umane han del divino.

Però che i sommi dèi non conversano in terra né favellan con gli uomini mortali, ma tutto quel di grande o di stupendo, ch’ai cieco caso il cieco volgo ascrive, altro non è che favellar celeste.

Cosi parlan tra noi gli eterni numi, queste son le lor voci, mute a l’orecchie e risonanti al core di chi le ’ntende. Oh, quattro volte e sei fortunato colui che ben le ’ntende!

Stava già per condur l’ordine sacro,

come tu comandasti, il buon Nicandro;

ma il ritenn’io per accidente nuovo

nel tempio occorso. Ed è ben tal, che, mentre

vo con quello accoppiandolo, che quasi

in un medesmo tempo

è oggi a te incontrato,

un non so che d’insolito e confuso

tra speranza e timor tutto m’ingombra,

che non intendo, e quanto men l’intendo,

tanto maggior concetto,

o buono o rio, ne prendo.

Montano. Quel, che tu non intendi,

troppo intend’io miseramente e ’l provo.

Ma dimmi : a te, che puoi


ATTO QUINTO


197


penetrar del destin gli alti segreti, cosa alcuna s’asconde?

Tirenio. Oh figlio, figlio!

Se volontario fosse

del profetico lume il divin uso,

saria don di natura e non del cielo.

Sento ben io ne l’indigesta mente che ’l ver m’asconde il fato e si riserba alto segreto in seno.

Questa sola cagione a te mi mosse, vago d’intender meglio chi è colui che s’è scoperto padre, se da Nicandro ho ben inteso il fatto, di quel garzon eh’è destinato a morte.

Montano. Troppo il conosci! Oh, quanto ti dorrà poi, Tirenio, ch’ei ti sia tanto noto e tanto caro!

Tirenio. Lodo la tua pietà, ch’umana cosa è l’aver degli afflitti compassione, o figlio. Nondimeno fa’ pur che seco i’ parli.

Montano. Veggio ben or che ’l cielo quanto aver già solevi di presaga virtute in te sospende.

Quel padre che tu chiedi e con cui brami di parlar, son io.

Tirenio. Tu padre di colui eh'è destinato vittima a la gran dea?

Montano. Son quel misero padre di quel misero figlio.

Tirenio. Di quel fido pastore

che, per dar vita altrui, s’offerse a morte?

Montano. Di quel che fa, morendo, viver chi gli dà morte, morir chi gli die’ vita.


Tirenio.


E questo è vero?


198 IL PASTOR FIDO

Montano. Eccone il testimonio.

Carino. Ciò che t’ha detto è vero.

Tirenio. E chi se’ tu che parli?

Carino. Io son Carino,

padre fin qui di quel garzon creduto.

Tirenio. Sarebbe questo mai quel tuo bambino che ti rapi il diluvio ?

Montano. Ah! tu l’hai detto,

Tirenio.

Tirenio. E tu per questo

ti chiami padre misero, Montano?

Oh cecità de le terrene menti!

In qual profonda notte,

in qual fosca caligine d’errore

son le nostr’alme immerse,

quando tu non le illustri, o sommo Sole!

A che del saper vostro

insuperbite, o miseri mortali?

Questa parte di noi, che ’ntende e vede, non è nostra virtù, ma vien dal cielo; esso la dà come a lui piace, e toglie.

O Montano, di mente assai più cieco

che non son io di vista,

qual prestigio, qual dèmone t’abbaglia

si, che, s’egli è pur vero

che quel nobil garzon sia di te nato,

non ti lasci veder ch’oggi se’ pure

il più felice padre,

il più caro agli dèi di quanti al mondo generasser mai figli?

Ecco l’alto segreto che m'ascondeva il fato!

Ecco il giorno felice, con tanto nostro sangue e tante nostre lagrime aspettato!

Ecco il beato fin de’ nostri affanni !


atto quinto


O Montano, ove se’? torna in te stesso.

Come a te solo è de la mente uscito l’oracolo famoso? li fortunato oracolo, nel core di tutta Arcadia impresso?

Come, col lampeggiar ch’oggi ti mostra •

inaspettatamente il caro figlio,

non senti il tuon de la celeste voce?

« Non avrà prima fin quel che v’offende

che duo semi del ciel congiunga Amore »...

Scaturiscon dal core

lagrime di dolcezza in tanta copia,

ch’io non posso parlar. «Non avrà prima...

non avrà prima fin quel che v’offende,

che duo semi del ciel congiunga Amore,

e di donna infedel l’antico errore

l’alta pietà d’un pastor fido ammende».

Or dimmi tu, Montani questo pastore,

di cui si parla e che dovea morire,

non è seme del ciel, s’è di te nato?

non è seme del cielo anco Amarilli?

e chi gli ha insieme avvinti altro che Amore?

Silvio fu dai parenti e fu per forza

con Amarilli in matrimonio stretto;

ed è tanto lontan che gli strignesse

nodo amoroso, quanto

l’aver in odio è da l’amar lontano.

Ma, s’esamini il resto, apertamente vedrai che di Mirtillo ha solo inteso la fatai voce. E qual si vide mai, dopo il caso d’Aminta, fede d’amor, che s’agguagliasse a questa?

Chi ha voluto mai per la sua donna, dopo il fedele Aminta, morir, se non Mirtillo?

Questa è l’alta pietà del pastor fido,


200


IL PASTOR FIDO


degna di cancellar l’antico errore de l’infedele e misera Lucrina.

Con quest’atto mirabile e stupendo,

più che col sangue umano.

l’ira del ciel si placa

e quel si rende a la giustizia eterna,

che già le tolse il femminile oltraggio.

Questa fu la cagion che non si tosto

giuns’egli al tempio a rinnovar il voto,

che cessar tutti i mostruosi segni:

non stilla più dal simulacro eterno

sudor di sangue, e più non trema il suolo,

né strepitosa più né più putente

è la caverna sacra: anzi da lei

vien si dolce armonia, si grato odore,

che non l’avrebbe più soave il cielo,

se voce o spirto aver potesse il cielo.

O alta Providenza, o sommi dèi,

se le parole mie

fosser anime tutte,

e tutte al vostro onore

oggi le consacrassi, a le dovute

grazie non basterian di tanto dono.

Ma come posso, ecco le rendo, o santi numi del ciel, con le ginocchia a terra umilemente. Oh, quanto vi son io debitor perch’oggi vivo!

Ho di mia vita corsi

cent’anni già, né seppi mai che fosse

viver, né mi fu mai

la cara vita, se non oggi, cara.

Oggi a viver comincio, oggi rinasco.

Ma che perd’ io con le parole il tempo, che si de’ dar a l’opre!

Ergimi, figlio, ché levar non posso già senza te queste cadenti membra.


ATTO QUINTO


2 < » r


Montano. Un’allegrezza ho nel mio cor, Tirenio, con si stupenda maraviglia unita, che son lieto, e noi sento, né può l’alma confusa mostrar di fuor la ritenuta gioia, si tutti lega alto stupore i sensi.

Oh non veduto mai, nè mai più inteso miracolo del cielo !

Oh grazia senza esempio!

Oh pietà singoiar de’ sommi dèi !

Oh fortunata Arcadia,

oh sovra quante il sol ne vede e scalda,

terra gradita al ciel, terra beata!

Cosi il tuo ben m’ è caro,

che ’l mio non sento, e del mio caro figlio,

che due volte ho perduto

e due volte trovato, e di me stesso,

che da un abisso di dolor trapasso

a un abisso di gioia,

mentre penso di te, non mi sovviene;

e si disperde il mio diletto, quasi

poca stilla insensibile confusa

ne l’ampio mar de le dolcezze tue.

Oh benedetto sogno,

sogno non già, ma vision celeste!

Ecco ch’Arcadia mia,

come dicesti tu, sarà ancor bella.

Tirenio. Ma che tardi, Montano?

Da noi piu non attende

vittima umana il cielo;

non è più tempo di vendetta e d’ira,

ma di grazia e d’amore. Oggi comanda

la nostra dea che, ’nvece

di sacrificio orribile e mortale,

si faccian liete e fortunate nozze.

Ma dimmi tu: quant’ha di vivo il giorno?


202


IL PASTOR FIDO


Montano. Un’ora o poco più.

Ti renio. Cosi vien sera?

Torniamo al tempio, e quivi immantinente la figliuola di Titiro e ’l tuo figlio si dian la fede maritale, e sposi divengano, d’amanti; e l’un conduca l’altra ben tosto a le paterne case, dove con vien, prima che ’l sol tramonti, che sian congiunti i fortunati eroi.

Cosi comanda il ciel. Tornami, figlio, onde m’hai tolto. E tu, Montan, mi segui!

Montano. Ma guarda ben, Tirenio,

che, senza violar la santa legge,

non può ella a Mirtillo

dar quella ié, che fu già data a Silvio.

Carino. Ed a Silvio fie data

parimente la fede, ché Mirtillo

fin dal suo nascimento ebbe tal nome,

se dal tuo servo mi fu detto il vero;

ed egli si compiacque

ch’io’l nomassi Mirtillo anzi che Silvio.

Montano. Gli è vero, or mi sovviene. E cotal nome rinnovai nel secondo, per consolar la perdita del primo.

Tirenio. Il dubbio era importante. Or tu mi segui.

Montano. Carino, andiamo al tempio. E da qui innanzi duo padri avrà Mirtillo. Oggi ha trovato Montano un figlio ed un fratei Carino.

Carino. D’amor padre a Mirtillo, a te fratello;

di riverenza a l’un servo ed a l’altro sarà sempre Carino.

E, poi che verso me se’ tanto umano, ardirò di pregarti

che ti sia caro il mio compagno ancora, senza cui non sarei caro a me stesso.

Montano. Fanne quel eh’a te piace.


aito quinto


203


Carino.


Corisca.

Linco.


Corisca.

Linco.


Corisca.

Linco.

Corisca.

Linco.

Corisca.


Eterni numi, oh come son diversi quegli alti, inaccessibili sentieri, onde scendono a noi le vostre grazie, da que’ fallaci e torti, onde i nostri pensier salgono al cielo !

SCENA SETTIMA Corisca, Linco.

E cosi, Linco, il dispietato Silvio, quando men sei pensò, divenne amante.

Ma che segui di lei?

Noi la portammo a le case di Silvio, ove la madre con lagrime l’accolse, non so se di dolcezza o di dolore; lieta, si, che ’l suo figlio già fosse amante e sposo, ma del caso de la ninfa dolente. E di due nuore suocera mal fornita, l’una morta piangea, l’altra ferita.

Pur è morta Amarilli?

Dovea morir. Cosi portò la fama.

Per questo sol mi mossi inverso ’l tempio a consolar Montano, che perduta s’oggi ha una nuora, ecco ne trova un’altra. Dunque Dorinda non è morta?

Morta?

Fossi si viva tu, fossi si lieta!

Non fu dunque mortai la sua ferita?

A la pietà di Silvio, se morta fosse stata, viva saria tornata.

E con qual arte

sanò si tosto?


204


IL PASTOR FIDO


Linco.


I’ ti dirò da capo tutta la cura, e maraviglie udrai.

Stavan d’intorno a la ferita ninfa,

tutti con pronta mano

e con tremante core, uomini e donne;

ma ch’altri la toccasse

non volle mai che Silvio suo, dicendo:

— La man che mi feri, quella mi sani. — Cosi soli restammo,

Silvio, la madre ed io,

duo col consiglio, un con la mano oprando. Quell’ardito garzon, poi che levata ebbe soavemente

dal nudo avorio ogni sanguigna spoglia, tentò di trar da la profonda piaga la confitta saetta; ma, cedendo, non so come, a la mano l’insidioso calamo, nascosto tutto lasciò ne le làtèbre il ferro.

Qui daddovero incominciàr l’angosce.

Non fu possibil mai, né con maestra mano né con ferrigno rostro né con altro argomento, indi spiantarlo. Forse con altra assai più larga piaga la piaga aprendo, a le segrete vie del ferro penetrar con altro ferro si poteva o doveva;

ma troppo era pietosa e troppo amante per si cruda pietà la man di Silvio (con si fieri stromenti certo non sana i suo feriti Amore) quantunque a la fanciulla innamorata sembrasse che ’l dolor si raddolcisse tra le mani di Silvio.

Il qual, perciò nulla smarrito, disse:


ATTO QUINTO


205


— Quinci uscirai ben tu, ferro malvagio, e con pena minor che tu non credi.

Chi t’ ha spinto qui dentro, è ben anco di trartene possente.

Ristorerò con l’uso de la caccia quel danno, che per l’uso de la caccia patisco.

D’un’erba or mi sovviene,

eh’è molto nota a la silvestre capra

quand’ha lo strai nel saettato fianco,

(essa a noi la mostrò, natura a lei),

né gran fatto è lontana. — Indi partissi ;

e, nel colle vicin subitamente

coltone un fascio, a noi sen venne; e quivi

trattone succo, e misto

con seme di verbena e la radice

giuntavi del centauro, un molle empiastro

ne feo sopra la piaga.

Oh mirabil virtù! cessa il dolore subitamente e si ristagna il sangue; e ’l ferro, indi a non molto, senza fatica o pena la man seguendo, ubbidiente n’esce.

Tornò il vigor ne la donzella, come se non avesse mai piaga sofferta.

La qual però mortale veramente non fu, però che, ’matto quinci l’alvo lasciando e quindi Tossa, nel muscoloso fianco era sol penetrata.

Corisca. Gran virtù d’erba e via maggior ventura di donzella mi narri.

Linco. Quel che tra lor sia succeduto poi, si può più tosto imaginar che dire.

Certo è sana Dorinda, ed or si regge si ben sul fianco, che di lui servirsi


20 6


CORISCA.


Linco.


CORISCA.


Ergasto.


CoRISCA. Ergasto.


IL PASTOR FIDO

ad ogn’uso ella può. Con tutto questo, credo, Corisca, e tu fors’anco il credi, che di più d’uno strai ferita sia; ma, come l’han trafitta arme diverse, cosi diverse ancor le piaghe sono.

D’altra è fèro il dolor, d’altra è soave; l’una saldando si fa sana, e l’altra quanto si salda men, tanto più sana.

E quel fero garzon di saettare,

mentr’era cacciator, fu cosi vago,

che non perde costume; ed or, ch’egli ama,

di ferir anco ha brama.

O Linco, ancor se’ pure quell’amoroso Linco che fosti sempre.

O Corisca mia cara, d’animo Linco, e non di forze, sono; e ’n questo vecchio tronco è, più che fosse mai, verde il desio.

Or eh’è morta Amarilli,

mi resta di veder quel eh’è seguito

del mio caro Mirtillo.

SCENA OTTAVA Ergasto, Corisca.

Oh giorno pien di maraviglie! oh giorno tutto amor, tutto grazie, e tutto gioia!

Oh terra avventurosa ! Oh ciel cortese !

(Ma ecco Ergasto. Oh, come viene a tempo!) Oggi ogni cosa si rallegri. Terra, cielo, aria, foco e ’l mondo tutto rida.

Passi il nostro gioire

anco fin ne l’inferno,

né oggi e’ sia luogo di pene eterno.


ATTO QUINTO


207


CORISCA. Erg asto.


CORISCA.


Ergasto.

CORISCA.

Ergasto.

Co RISC A. Ergasto.


(Quanto è lieto costui!)

Selve beate,

se sospirando in flebili susurri al nostro lamentar vi lamentaste, gioite anco al gioire, e tante lingue sciogliete quante frondi scherzano al suon di queste piene del gioir nostro aure ridenti. Cantate le venture e le dolcezze de’ duo beati amanti.

(Egli per certo

parla di Silvio e di Dorinda. Insomma,

viver bisogna. Tosto

il fonte de le lagrime si secca;

ma il fiume de la gioia abbonda sempre.

De la morta Amarilli,

ecco, piu non si parla; e sol s’ha cura

di goder con chi gode. Ed è ben fatto.

Pur troppo è pien di guai la vita umana.)

Ove si va si consolato, Ergasto?

a nozze forse?

E tu l’hai detto a punto. Inteso hai tu l’avventurosa sorte de’ duo felici amanti? udisti mai caso maggior, Corisca?

I’I’ho da Lineo

con molto mio piacer pur ora udito, e quel dolor ho mitigato in parte, che per la morte d’Amarilli i’ sento.

Morta Amarilli? e come? e di qual caso parli tu ora, o pensi tu ch’io parli?

Di Dorinda e di Silvio.

Che Dorinda? che Silvio?

Nulla dunque sai tu! La gioia mia nasce da piu stupenda e più alta e più nobile radice.


20S


IL PASTOR FIDO


CORISCA.

Ergasto.

CORISCA.

Ergasto.

Corisca.

Ergasto.

Corisca.

Ergasto.


D’Amarilli ti parlo e di Mirtillo, coppia, di quante oggi ne scaldi Amore, la più contenta e lieta.

Non è morta


dunque Amarilli?

Come morta? È viva e lieta e bella e sposa.

Eh! tu mi beffi. Ti beffo? il vedrai tosto.

A morir dunque

condennata non fu?


Fu condennata, ma tosto anche assoluta.

Narri tu sogni, o pur sognando ascolto? Tosto la vedrai tu, se qui ti fermi, col fortunato suo fedel Mirtillo uscir dal tempio, ov’ora sono e data s’hanno la fé già maritale; e verso le case di Montano ir li vedrai per cór di tante e di si lunghe loro amorose fatiche il dolce frutto.

Oh, se vedessi l’allegrezza immensa, s’udissi il suon de le gioiose voci,

Corisca! Già d’innumerabil turba è tutto pieno il tempio; uomini e donne quivi vedresti tu, vecchi e fanciulli, sacri e profani in un confusi e misti e poco men che per letizia insani.

Ognun con maraviglia

corre a veder la fortunata coppia;

ognun la riverisce, ognun l’abbraccia.

Chi loda la pietà, chi la costanza, chi le grazie del ciel, chi di natura.

Risuona il monte e ’l pian, le valli e i poggi del pastor fido il glorioso nome.

Oh ventura d’amante


ATTO QUINTO


209


il divenir si tosto,

di povero pastore, un semideo.

Passar in un momento

da morte a vita, e le vicine esequie

cangiar con si lontane

e disperate nozze,

ancor che molto sia,

Corisca, è però nulla.

Ma goder di colei per cui, morendo, anco godeva, di colei che seco volle si prontamente concorrer di morir, non che d’amare; correr in braccio di colei, per cui dianzi si volentier correva a morte: questa è ventura tal, questa è dolcezza, ch’ogni pensiero avanza.

E tu non ti rallegri? e tu non senti per Amarilli tua quella letizia, che sent’io per Mirtillo?

Corisca. Anzi si pur, Ergasto:

mira come son lieta.

Ergasto. Oh! se tu avessi

veduta la bellissima Amarilli, quando la man per pegno de la fede a Mirtillo ella porse, e per pegno d’amor Mirtillo a lei un dolce si, ma non inteso bacio, non so se dir mi debbia o diede o tolse, saresti certo di dolcezza morta.

Che purpura? che rose?

Ogni colore o di natura o d’arte

vincean le belle guance.

che vergogna copriva

con vago scudo di beltà sanguigna,

che forza di ferirle

al feritor giungeva.


G. B. Guarini.


M


210


IL PASTOR FIDO


Ed ella, in atto ritrosetta e schiva,

mostrava di fuggire

per incontrar più dolcemente il colpo;

e lasciò in dubbio se quel bacio fosse

o rapito o donato,

con si mirabil arte

fu conceduto e tolto. E quel soave

mostrarsene ritrosa,

era un « no » che voleva, un atto misto

di rapina e d’acquisto;

un negar si cortese, che bramava

quel che, negando, dava;

un vietar ch’era invito

si dolce d’assalire,

ch’a rapir, chi rapiva, era rapito;

un restar e fuggire

ch’affrettava il rapire.

Oh dolcissimo bacio!

Non posso più, Corisca!

Vo diritto diritto

a trovarmi una sposa,

ché ’n si alte dolcezze

non si può ben gioir, se non amando.

Corisca. Se costui dice il vero,

questo è quel di, Corisca,

che tutto perdi, o tutto acquisti, il senno.

SCENA NONA

Coro di pastori, Corisca, Amarilli, Mirtillo.

Pastori. Vieni, santo Imeneo,

seconda i nostri voti e i nostri canti; scorgi i beati amanti, l’uno e l’altro celeste semideo; stringi il nodo fatai, santo Imeneo.



ATTO QUINTO


211


Corisca. (Oimè, ché troppo è vero! E cotal frutto da le tue vanità, misera, mieti!

Oh pensieri, oh desiri

non meno ingiusti che fallaci e vani!

Dunque d’una innocente

ho bramata la morte

per adempir le mie sfrenate voglie?

Si cruda fui? si cieca?

Chi m’apre or gli occhi? Ah, misera! che veggio?

Porror del mio peccato,

che di felicità sembianza avea!)

Pastori. Vieni, santo Imeneo,

seconda i nostri voti e i nostri canti ;

scorgi 1 beati amanti,

l’uno e l’altro celeste semideo;

stringi il nodo fatai, santo Imeneo

Deh! mira, o pastor fido,

dopo lagrime tante

e dopo tanti affanni, ove se’ giunto.

Non è questa colei, che t’era tolta

da le leggi del cielo e de la terra?

dal tuo crudo destino?

da le sue caste voglie?

dal tuo povero stato?

da la sua data fede e da la morte?

Eccola tua, Mirtillo!

Quel volto amato tanto e que’ begli occhi quel seno e quelle mani, e quel tutto che miri ed odi e tocchi, da te già tanto sospirato invano, sarà ora mercede

de la tua invitta fede. E tu non parli? Mirtillo. Come parlar poss’io,

se non so d’esser vivo? né so s’io veggia o senta quel che pur di vedere


212


IL PASTOR FIDO


e di sentir mi sembra?

Dica la mia dolcissima Amarilli,

però che tutta ’n lei

vive l’anima mia, gli affetti miei.

Pastori. Vieni, santo Imeneo,

seconda i nostri voti e i nostri canti;

scorgi i beati amanti,

l’uno e l’altro celeste semideo;

stringi il nodo fatai, santo Imeneo.

Corisca . (Ma che fate voi meco,

vaghezze insidiose e traditrici,

fregi del corpo vii, macchie de l’alma?

Itene! Assai m’avete

ingannata e schernita.

E, perché terra séte, itene a terra.

D’amor lascivo un tempo arme vi fei;

or vi fo d’onestà spoglie e trofei.)

Pastori. Vieni, santo Imeneo;

seconda i nostri voti e i nostri canti;

scorgi i beati amanti,

l’uno e l’altro celeste semideo;

stringi il nodo fatai, santo Imeneo.

Corisca. (Ma che badi, Corisca?

Comodo tempo è di trovar perdono.

Che fai? temi la pena?

Ardisci pur, ché pena

non puoi aver maggior de la tua colpa.)

Coppia beata e bella,

tanto del cielo e de la terra amica,

s’al vostro altèro fato oggi s’inchina

ogni terrena forza,

ben è ragion che vi s’inchini ancora colei che contra il vostro fato e voi ha posto in opra ogni terrena forza.

Già noi nego, Amarilli: anch’io bramai quel che bramasti tu; ma tu tei godi,


ATTO QUINTO


213


perché degna ne fusti.

Tu godi il più leale

pastor che viva. E tu, Mirtillo, godi

la più pudica ninfa

di quante n’abbia, o mai n’avesse, il mondo. Credetel pur a me, che cote fui di fede a l'uno e d’onestate a l’altra.

Ma tu, ninfa cortese,

prima che l’ira tua sopra me scenda,

mira nel volto del tuo caro sposo:

quivi del mio peccato

e del perdono tuo vedrai la forza.

In virtù di si caro amoroso tuo pegno, a l’amoroso fallo oggi perdona, amorosa Amarilli. Ed è ben dritto ch’oggi perdon de le sue colpe trovi Amore in te, se le sue fiamme provi.

Amaricci. Non solo i’ ti perdono,

Corisca, ma t’ho cara,

l’effetto sol, non la cagion mirando,

ché ’l ferro e ’1 foco, ancor che doglia apporti,

pur che risani, a chi fu sano è caro.

Qualunque mi sii stata

oggi, amica o nemica,

basta a me, che ’l destino

t’usò per felicissimo stromento

d’ogni mia gioia. Avventurosi inganni!

tradimenti felici! E, se ti piace

d’esser lieta ancor tu, vientene, e godi

de le nostre allegrezze.

Corisca. Assai lieta son io

del perdon ricevuto e del cor sano.

Mirtillo. Ed io pur ti perdono

ogni offesa, Corisca, se non questa troppo importuna tua lunga dimora.


214


IL PASTOR FIDO


Corisca. Vivete lieti! addio!

Pastori. Vieni, santo Imeneo,

seconda i nostri voti e i nostri canti ; scorgi i beati amanti, l’uno e l’altro celeste semideo; stringi il nodo fatai, santo Imeneo.

SCENA DECIMA

Mirtillo, Amarilli, Coro di pastori.

Mirtillo. Cosi dunque son io

avvezzo di penar, che mi conviene in mezzo de le gioie anco languire?

Assai non ci tardava di questa pompa il neghittoso passo, se tra’ piè non mi dava anco quest’altro intoppo di Corisca?

Amarilli. Ben se’tu frettoloso!

Mirtillo. O mio tesoro,

ancor non son sicuro, ancor i’ tremo; né sarò certo mai di possederti, perfin che ne le case non se’ del padre mio, fatta mia donna. Questi mi paion sogni, a dirti il vero; e mi par d’ora in ora, che ’l sonno mi si rompa, e che tu mi t’involi, anima mia.

Vorrei pur ch’altra prova mi fesse ornai sentire

che ’l mio dolce vegghiar non è dormire.

Pastori. Vieni, santo Imeneo,

seconda i nostri voti e i nostri canti ; scorgi i beati amanti, l’uno e l’altro celeste semideo; stringi il nodo fatai, santo Imeneo.


ATTO QUINTO


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CORO.

Oh fortunata coppia,

che pianto ha seminato e riso accoglie!

Con quante amare doglie

hai raddolciti tu gli affetti tuoi!

Quinci imparate voi, o ciechi e troppo teneri mortali, i sinceri diletti e i veri mali.

Non è sana ogni gioia, né mal ciò che v’annoia.

Quello è vero gioire,

che nasce da virtù dopo il soffrire.



COMPENDIO DELLA POESIA TRAGICOMICA


TRATTO DAI DUO

VERATI

PER OPERA DELL'AUTORE DEL PASTOR FIDO, COLLA GIUNTA DI MOLTE COSE SPETTANTI ALL’ARTE.



La favella umana, maraviglioso dono d’Iddio, all’uomo fu conceduta perché potesse manifestarci sensi dell’animo, in modo che si può dire che lo ’ntelletto sia una muta favella e la favella un intelletto parlante, ciò che die’ materia ai nostri teologi di ordinare le due preghiere, che a Dio si porgono: l’una vocale, che si fa con la lingua; l’altra mentale, che si fa con lo spirito. Ora, essendo la lingua ministra dello’ntelletto, bisogna ch’ella il vada secondando e servendo, e si trasformi di si fatta ma¬ niera in lui, che quanto egli pensa, tanto ella parli, e quante cose l’uno può concepire, tante l’altra s’ingegni di bene espri¬ mere e partorire. E, tutto che queste siano infinite, niente di meno a duo capi famosissimi si riducono, imperocché tutto quello, che opera lo ’ntelletto e parla la lingua, bisogna che necessariamente o vero o verisimile sia. Lascio da parte il falso e ’l non verisi¬ mile, si perché lo ’ntelletto non l’ha per fine, come anche perché dalla cognizione del vero segue senza dubbio quella del falso, es¬ sendo, come dicono i filosofanti, che le contrarie cose, per esser d’una stessa natura, si conoscon l’una per l’altra. Ma che cosa è egli alfin questo vero? Niente altro che ’l concetto adeguato alla cosa intesa, il quale nello ’ntelletto si spoglia della materia e nella lingua si veste della favella. Questo vero è poi di due sorte, o contempiabile o eligibile. Il verisimile parimente è pur di due sorte, cioè probabile e imitabile. Da questi quattro, termini, « contempiabile», « eligibile », « probabile » e « imita-


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bile », nascono tutte le scienze, tutte le facoltà e tutte l’arti. Dal vero contempiabile deriva la divina filosofia, la scienza naturale, le matematiche, con le lor subalterne, e la logica. Le quali tutte non hanno altro fine che di trovare il vero, e in quel trovato posarsi. Dal vero eligibile poi procedono le morali, l’etica, la politica e 1’economica, che insegnano di governar se stesso, la republica e la famiglia, le quali hanno per fine il vero in quanto buono, e però in quel non si fermano, ma un altro fine at¬ tendono, che consiste nell’operare, perch’egli è buono. Nel pro¬ babile son fondate la dialetica e la retorica, maestra Luna del disputare e l'altra del persuadere. Dall’ultima finalmente vien la poetica, che ha per fin Limitare. E, benché tutte l’altre, chi le considera bene, non sieno in tutto lontane dall’imitare, come appresso si mostrerà, niente di meno a questa sola si con- vien propriamente il nome d’« imitatrice », si come quella che per lo più rappresenta non concetti, non pensieri, non forme, si come l’altre, ma umane operazioni, che sono appresso tutti di tanto pregio. E veramente che cosa è rassomigliarsi al vero, se non imitare? La qual maravigliosa e veramente divina operazione che alla natura umana sia tanto dilettevole e tanto cara, non è da prenderne maraviglia, perciocché non è cosa di qualsivoglia sorte in questo mondo sensibile e alterabile, che non partecipi tanto o quanto di questo raro dono della imitazione. E, cominciando dalla creazione del mondo, quando quel divino Fabbro il produsse, non parve egli che volesse a un certo modo imitare? non solo per averlo prodotto conforme alla divina idea ch’è nel suo seno ab aeterno, ma per averlo eziandio fatto nella parte celeste con sembianza d’eternità im¬ passibile, inalterabile, che son vestigi di non caduca natura. Laonde non è da maravigliarsi se, vedendol tale, Aristotile s’in¬ gannò giudicandolo eterno. Nel formar poscia il picciol mondo ch’è Luomo, se ’l medesimo divino artefice si compiacesse del¬ l’opera imitatrice, la sua divina voce ne ’l manifesta: « Fac¬ ciamo l’uomo a imagine e similitudine nostra». Nel resto poi fu cosi vago del vedere imitare, che niuna cosa volle potesse l’uomo ottener se non imitando. Chi c’insegna di favellare?


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l’imitazione. Chi di ben vivere? l’imitazione. Come s’acquista l’umana felicità? col farsi simile a Dio. Quando le scienze di¬ scorrono intorno al vero, che altro fanno che mostrarci la strada d’esprimere e imitare, coll’intelletto e con la lingua, la cosa in¬ tesa, ritraendo, quasi pitture, o ’n carta o ’n voce, la vera forma di lei? E, se Parti non imitassero la natura, come sarebbono elle né perfette né arti? Finalmente ogni cosa, che opera e s’in¬ dirizza alla sua naturale e vera perfezione, in qualche modo è partecipe, qual più qual meno, dell’imitare. Non è dunque da maravigliarsi se l’imitazione diletta tanto, poiché per ella l’uomo impara di sapere, che è il primo disiderio e ’l più caro diletto e ’l più proprio dell’umana natura. E, oltre a ciò, l’imitare è quasi un produrre alcuna cosa di nuovo, la quale operazione è per se stessa carissima alla natura, che se ne serve a con¬ servar se medesima nelle spezie, riparando di tutte quello che tuttodì se ne perde. Or la poetica, fra tutte quelle arti che nell’imitazione spendono il lor talento, riesce maravigliosa, non solo perché imiti gli atti umani, nella quale opera non è sola, ma perciocché imita colla favella, nella quale è unica imitatrice, conciosiacosaché tutte l’altre con altri mezzi e istrumenti eser¬ citino l’imitazione, ma niuna con la favella, ch’è propria della poetica. E perché tutto quello, che s’imita favellando, o si rac¬ conta o si rappresenta, né verun altro modo si può trovare che non caggia sotto l’un de’duo membri, quinci son nate le tre famose spezie di poesia. Perciocché altre sono che rappresen¬ tano senza che la persona del poeta mai v’intervenga, si come la tragedia, commedia e l’altre che sono dette « drammatiche » dalla voce greca, che significa « operare », si come quelle che non raccontano cose operate, ma operano e rappresentano con le persone stesse operanti e sottoposte agli occhi, non della mente, ma del senso, di coloro che ascoltano. Altre non rappresentali, ma con la persona del poeta narran le cose fatte, né mai v’ in¬ troducono alcun ragionamento, che non sia del poeta, si come la poesia ditirambica e lirica, nella quale un continovato tenore di narrativa, in persona del poeta, solo si vede. Né fa forza quello che ’n ciò viene opposto alla dottrina d’Aristotile da


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persone troppo ardite e troppo sottili, non esser vero che ’l di¬ tirambico e ’l lirico alcuna volta non introduca interlocutori ne’ lor poemi, conciosiacosaché questo intervenga tanto di rado, che non è degno d'esser considerato per accidente che alteri in modo alcuno le spezie. E, quando pure si fa, non è fatto per introdurre quella persona ad uso di drammatica o epica poesia, ma per servirsi della figura che si chiama « prosopopeia», la quale alcuna volta s’adopra nel corso di chi narra, per tanto più evidentemente far venir sotto gli occhi della persona che ascolta o legge la cosa che vien narrata. E, se Orazio fe’ quella ode in forma di dialogo: «c Donec graius eram », ecc., nella quale non parla mai il poeta come poeta, si risponde che, si come una gocciola d’acqua in un gran vaso di vino non è bastante a far che quello non sia vin pretto, cosi quella sola e picciola coserella non è composizione, fra tante liriche, da poter far drammatico quel poeta. Ben è vero che, se altri spendesse tutti o ’l più de’ suoi versi lirici nel far dialoghi, non sarebbe né di¬ tirambico né lirico né drammatico, e sarebbe un poeta da sti¬ mar poco, per quelle molte ragioni che qui non hanno il lor legittimo luogo. Nasce da queste due, narrativa dove il poeta solo ragiona, e rappresentativa dove il poeta non parla mai, la terza spezie, nella quale alcuna volta parla il poeta e alcuna parlano le persone eh’ egli introduce; e questa è l’epica poe¬ sia, che anche « eroica » è stata detta, esercitata con fama tanto celebre e tanto chiara dal grande Omero in lingua greca e da Virgilio in latina, da Dante, dall’Ariosto, dal Tasso, io dico il giovane, nella nostra, che « toscana » meritamente dé’ esser detta, ma dissi « nostra», perciocché, essendo laToscana in Italia, e potendo esser la sua favella comune a tutti gl’italiani, anche i lombardi se ne posson servire come di propria, si come an¬ che un lombardo scrisse in lingua del Lazio, ch’allor fioriva, la sua maravigliosa Eneide , e scrissela forse meglio e più pura¬ mente di quello che alcun altro, quantunque nato nel cuor del Lazio e di Roma, avrebbe saputo fare.

Dalle cose che si son dette non sarà malagevole il giudicare a quale delle tre spezie di poesia il Pastorfido ridur si debbia;


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conciosiacosaché, essendo egli un misto di tragica e comica poesia, se ambedue son drammatiche, necessariamente ancora esso sarà drammatico. Ma non pare che sia senza difficultà l’in¬ tendere con qual arte si sieno accozzati insieme duo poemi di spezie differentissimi, si che un terzo ben regolato e non difettoso se ne sia tratto, parendo cosa impossibile che ’l poema tragico, lagrimoso, si possa mai accordare si ben col comico, tutto riso, che l’arte non se ne dolga. Accresce questa diffi¬ coltà ch’ogni poema, quanto è più uno, è tanto più perfetto (parlando dell’unità non nuda, ma ben vestita); la quale ec¬ cellenza è per modo commendata da tutti i buoni maestri di quest’arte, che vizioso debbia stimarsi qualunque s’è quel poema, che ne sia privo. E, se la tragedia e commedia, quando son separate, possono agevolmente cadere in questo difetto, che sarà poi della lor terza spezie, che senza multiplicità par che considerare e profferir non si possa? E nel vero è troppo rag¬ guardevole e necessaria parte, in ogni sorte di poesia, questa unità, si perché la forma, che dà l’essere a tutte le cose, è una, come anche percioché la bellezza non è altro che union delle parti, a uso d’armonia, consonanti. Come dunque può esser né una né buona quella favola, eh’è composta di due favole non solo differenti, ma repugnanti? Onde furono alcuni, non consideranti le cose più là di quello che ’l senso, e forse anche l’affetto mal regolato, portò loro davanti, i quali dissero questa sorte di poesia non essere, né secondo l’arte poetica in sé, né secondo i precetti d'Aristotile, ragionevole, e perciò come mostro non doversi ricevere nel catalogo delle ben re¬ golate e legittime poesie. Ma costor veramente, col travagliare il Pastor fido, l’hanno fatto risplendere in quella guisa che noi veggiamo soffio d’importuni mantici ravvivare alcuna fiamma sopita, avendo essi data materia assai legittima e opportuna a’ difensori di lui di scoprir l’eccellenza della poesia tragico¬ mica con le due scritture d'apologia intitolate Verato primo e Verato secondo , che si chiama ancor L’Attizzato. La dot¬ trina de’ quali non mi fia grave di riferire per comodo di coloro che non gli hanno veduti mai. In duo modi può esser detto


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che nel poema del Pastor fido non sia servato il precetto della unità: l’uno, per le due forme tragica e comica; l’altro, per avere più d’un soggetto, come son quasi tutte le terenziane. Delle quali favole, acciocché noi co’ propri termini più spedito e più chiaro fac¬ ciamo il nostro discorso, chiameremo la prima col nome solito «mi¬ sta », e la seconda « innestata ». Quanto alla prima, bassi a con¬ siderare, che la tragicommedia non è composta di due favole intere, l’una delle quali sia perfetta tragedia, e perfetta commedia l’altra, congiunte insieme di modo che ambedue si possano disu¬ nire senza che l’una guasti i fatti dell’altra o ciascuna i suoi pro¬ pri. Nédéssi altresi credere eh'ella sia una storia tragica viziata con le bassezze della commedia, o favola comica contaminata con le morti della tragedia, perciocché né cotesto sarebbe retto componi¬ mento, conciosiacosaché chiunque fa tragicommedie non intenda di comporre separata o tragedia o commedia, ma di questa e di quella un terzo, che sia perfetto in suo genere, e abbia di ambe¬ due loro quelle più parti che verisimilmente possano stare in¬ sieme; laonde, nel far giudicio di lei, non bisogna confondere i termini di «misto» e di «doppio», come fanno coloro che poco intendono, né s’avveggono che niuna cosa può esser mista se non è una, e se le parti che ’n essa sono, in modo non si confondono, che l’una non si possa più né conoscere né separare dall’altra. Dottrina del Filosofo, nel primo della Ge?ierazione , chiarissima e volgarissima, dov’egli mostra la dif¬ ferenza dell’esser misto all’esser composto. In quello le parti perdono la lor forma e fanno una terza cosa molto diversa. In questo ciascuna si conserva quella medesima ch’era prima, né si altera, né si muta, ma si compone, s’accoppia, e quel che nasce da cotale congiungimento, non è un terzo alterato sotto diversa forma, ma son duo corpi, che scambievolmente non compati¬ scono insieme e restano que’ medesimi, cosi in atto come in potenza, ch’erano per avanti. Il primo si può paragonare al favoloso Ermafrodito, il quale d’uomo e di donna formava un terzo, partecipante dell’una e dell’altra natura, si fattamente misto, che separare né quel da questa, né questa da quello non si potea. Il secondo è simile ad uomo che s’abbracci con donna, si


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ché dopo gli abbracciamenti ciascuno torni nell'esser suo. Con- ciosiacosaché quell’abbracciare non gli confonda in modo, che l’uomo non sia quell’uomo e quella donna non sia la donna di prima, e ciaschedun di loro non abbia' e non riconosca e non serbi intera la sua natura, il suo essere, la sua forma. Quinci nascono i non intesi spasimi degli amanti, non potendo, come vorrebbono, unire e mescolare i corpi in quella guisa che fanno gli animi. Perciocché questi, col mezzo della volontà, che non è altro in atto che la cosa voluta, accordandosi di volere una cosa medesima, si congiungono agevolmente e di due animi ne fanno uno; ma i corpi, che non si possono né mescer né penetrare per quantunque s’ingegnino di annodarli, non vien loro fatto di unire in modo, che facciano un corpo solo, come fanno di due animi un sol volere. Ma, tornando al proposito, consideriamo le parti e repugnanti e conformi di questi duo poemi, per far vedere che ’l misto tragicomico è ragionevole. La tragedia ha di comune con la commedia la rappresentazione, con tutto il resto dell’apparato, il ritmo, l’armonia, il tempo limitato, la favola drammatica, il verisimile, la ricognizione e ’l rivolgimento. Intendo per « comune » che Luna e l’altra si servi delle me¬ desime cose, avvenga che nel servirsene sia qualche differenza tra loro. Altre qualità sono poi tanto proprie cosi dell’una come dell’altra, che non solo varian nell’uso, come quell’altre che si son dette, ma diversificano in modo la spezie, che diven¬ gono differenze di lei. E non ha dubbio che chiunque pen¬ sasse di far passare intera alcuna di loro ne’ confini dell’altra, e d'usare nella tragedia quel eh’è solo della commedia, ovvero in questa quel eh’è proprio di quella, farebbe favola sconve¬ nevole e mostruosa. Ma il punto sta a vedere se queste diffe¬ renze specifiche sono si repugnanti, che ’n qualche modo for¬ mare non se ne possa una terza spezie, che sia poema legittimo e ragionevole. Or queste sono della tragedia: la persona grande, l’azion grave, il terrore e la commiserazione; della commedia: la persona e negozio privato, il riso e i sali. Quanto alla prima, confesso, e per dottrina aristotelica ancora, che convengono alle tragedie i personaggi grandi, e i bassi alle commedie; ma nego


G. B. Guarini.


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bene che repugni alla natura e all’arte poetica in generale che in una sola favola s’introducano persone grandi e non grandi. Qual tragedia fu mai, che non avesse molto più servi e altre persone di questa fatta che personaggi di grande affare? Chi scioglie nell 'Edipo di Sofocle quel bellissimo nodo? né il re, né la reina, né Creonte, né Tiresia; ma duo servi, guardiani di armenti. Dunque non si disdice alla natura della scena l’accop¬ piare insieme persone grandie non grandi, non solo sotto '1 nome d’un poema misto, coni’è la tragicommedia, ma della pura tragedia, e anche della commedia, se ad Aristofane s’addimanda, il quale vi mescolò uomini e dèi, cittadini e villani, e fin le bestie e le nuvole introdusse a parlare nelle sue favole. Quanto ai fatti grandi e non grandi, non so vedere per qual cagione si disconvenga che in una stessa favola, che non sia tutta tragica, star non possano, quand'eglino giudiziosamente vi sono inserti. Non può egli stare che tra negozi gravi intervengan casi pia¬ cevoli? e molte volte ancora sieno essi cagione di condurre a lieto fine i pericoli? Ma che? Stanno forse i prencipi sempre in maestà? non trattano essi mai di cose private? Per certo si: perché dunque non può rappresentarsi in favola scenica persona grande, che tratti cose non grandi? Ciò fece pure Euripide nel Ciclope , avendo egli, col pericolo grave della vita d’Ulisse, per¬ sona tragica, mescolata l’ebrezza del ciclope, eh’è fatto comico. E tra i latini Plauto fece il medesimo nell’ Anfitrione, accompa¬ gnando col riso e con le beffe di Mercurio le persone grandi, non solo d’Anfitrione, ma del re degli iddìi. Non è dunque fuor di ragione che in una favola scenica possano stare in¬ sieme persone grandi e fatti non grandi. Il medesimo potrei dire della commiserazione e del riso, qualità l’una tragica e l’altra comica. E pure a me non paiono tanto opposite, che una medesima favola non le possa comprendere sotto diverse occasioni e persone. Chi è colui che, leggendo in Terenzio il caso di Menedemo, il quale volontariamente si macerava per la durezza da lui usata al figliuolo, non se ne muova a pietà, e con Cremete, che non ritenne le lagrime, non ne pianga? E pure nella medesima favola si ride delia beffa e dell’arte,


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con che l’astuto Siro inganna il detto Cremete. Può dunque stare non dico l’allegrezza e’l dolore, ma la pietà col riso in una favola stessa. E cosi tutta la somma di questa contraddi¬ zione si verrebbe a ridurre ad una sola differenza, cioè il ter¬ ribile, la quale non può mai stare se non in favola tragica, né seco mai alcuna comica mescolarsi, perciocché il terrore mai non s’induce se non per mezzo delle gravi e funeste rappresentazioni; e, dove questo si truova, non v’ha luogo riso né scherzo.

Tutte le cose di sopra dette si potrebbono addurre in difesa della poesia tragicomica. Ma io non voglio valermene, e con- tentomi di lasciare alla tragedia i personaggi reali, i fatti gravi, il terribile e ’l miserabile; alla commedia la persona e i ne- g.ozi privati e ’l riso e i motti, come loro specifiche diffe¬ renze; e vo’ per ora concedere che l’una non entri nella giu¬ risdizione dell’altra: seguirà egli per questo, che, per essere di diversa spezie, non possano unirsi insieme per farne un terzo poema? Certamente non si può dire che ciò repugni all’uso della natura, e molto meno dell’arte. E, cominciando da quella, non sono elleno due distinte spezie quella del cavallo e quella dell’animal indiscreto? Certo si; e pure d’ambedue loro se ne fa la terza del mulo, che non è né l’uno né l’altro. Il medesimo si può dire della licisca, di lupo nata e di cane, che non è né lupo né cane. E cosi della « terza natura », proce¬ dente dalla fagiana e dal gallo, dalla volpe e dal cane, e di tante altre che ne porta Aristotile ne’ suoi libri della Gene¬ razione degli animali , dov’egli con tale occasione vien dichia¬ rando il proverbio, allor molto trito, che l’Affrica apporti sempre alcuna cosa di nuovo, dicendo esserne la cagione i vari congiungimenti degli animali di diversa spezie, che per penuria d’acqua si riducono tutti a un luogo per estinguer la sete. Ma forse si potria dire che queste terze nature nascono dalla rimescolanza de’ semi e non de’ corpi, e che sono opere di natura e non d’arte, si come quelle di che si tratta; e però passiamo all'arti e ai suoi misti, fatti di corpi solidi e di natura diversi. Il bronzo si fa di rame e di stagno, e vi


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entra il corpo cosi dell’uno come dell’altro, ed essi con le na¬ ture loro si confondono in modo, che quel terzo, che ne ri¬ sulta, non è né stagno né rame. Nella polvere che chiamano « d’archibuso », entra il zolfo e ’l salnitro e per lo terzo il carbone, tutti corpi interi e di natura e d’accidenti differen¬ tissimi; e pur la polvere non è né questo né quello. Ma dirà alcuno che questi esempli non son conformi, conciosiacosa- ché, operandosi ciò col fuoco, il quale altera la qualità di que’ corpi, in un certo modo si possa dire che la natura ne sia ministra: quello che non avviene delle misture poetiche, al tutto dipendenti dall’artificio del lor maestro, senza intervento d’opera naturale. Concedasi anche questo, e parliamo della pittura, eh’è della poesia cugina carnale: non fa ella, senza l’opera d’altro mezzo, diverse mescolanze de’ suoi colori? Il medesimo si dirà della musica, ad un parto medesimo nata con la poesia: non mescola essa il diatonico col cromatico, e il cromatico con l’enarmonico, e l’una con l’altra quelle che il Filosofo chiama « armonie»? Ed è pure opra sola del musico. Ma chi volesse eziandio contraddire, potrebbe a ciò replicare che ’l pittor maneggia colori e ’l musico voci, ma il poeta mette in opera umani fatti e persone. Anche cotesto si faccia buono, e truovisi finalmente mistura tanto simile alla poetica, che differenza alcuna tra lor non sia, se non quella che si conosce tra il vero e ’l finto. La quale è tanto propria del no¬ stro caso, che la figura è quasi la stessa cosa col figurato, essendo la poesia niente altro che ’l verisimile imitato. Or non s’è detto dianzi che la poesia maneggia fatti e persone? diasi dunque di fatti e di persone un esemplo. Non dice Marco Tullio, e Orazio, che la commedia è specchio della umana conversazione? Diasi un esemplo dell’umana conversazione. Non dice Ari¬ stotile che la tragedia si fa di persone principali e la com¬ media d’uomini popolani?Diasi un esemplo di persone principali e d’uomini popolani. E questo sia la republica. Né ciò dico in quanto alla materia di lei, conciosiacosaché ogni città sia neces¬ sariamente composta di nobili e di non nobili, di ricchi e po¬ veri, e, come dice il Filosofo stesso, di migliori e peggiori; ma


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parlo delle forme che nascono dalla diversità di queste due differenze, cioè a dire la potenza de’ pochi e la popolare. Or queste due spezie di governo non son elleno infra di loro diffe¬ rentissime? Se noi crediamo ad Aristotile, anzi pure alla viva ra¬ gione, non ha alcun dubbio; e pure il medesimo filosofo le con¬ fonde e fanne il misto della repubblica. Nella quale non sono eglino i cittadini persone umane, umane operazioni i governi? E se questi, che operati daddovero, si mischiano, l’arte poetica, in coloro che fan da scherzo, non potrà farlo? Nella potenza de’ pochi non governano i soli grandi? e nella popolare i plebei? e questi non son contrari? e pure si congiungono in un sol misto. La tragedia non è ella altresì imitazione de’ grandi e la commedia de’ bassi? e i bassi non sono contrari ai grandi? e perché non può farlo la poesia, se la politica il fa? E perché ciò si vegga più chiaramente, vengasi all’armi corte dell’argomento : ovvero nella republica mista sono due comunanze, l’una popolare e l’altra di pochi, ovvero che in una medesima e sola comunanza si trova il dimocratico e l’oligarchico.Se saranno due comunanze, peccherà nell'esser più d’una, ed è bene altro fallo la con¬ fusione della città che non è quella delle novelle. Ma, se in una sola comunanza sarà il dimocratico e l’oligarchico, se¬ guirà che nello stesso soggetto possano esser due forme di diversa spezie e di natura contrarie. La soluzione di questo dubbio altronde non s’ha d’attender che dal Maestro. Dice dunque Aristotile che nella repubblica mista sono am¬ bedue le forme, ma si ben temperate, che la stessa e sola repubblica può parer l’una e l’altra delle due miste, e tuttavia non è né l’una né l’altra intera. E, perché meglio né più magi¬ stralmente non si può esprimere di quel che facciano le precise parole sue, ascoltiamole volentieri: Toù 6’eu pepeìxOai òrpxo- -/ouTi'av xai cAiyaoxiav opog, oxav evSk/jitcu Xéye iv xqv aùxr)v jtoXi- rfiav SìipoxQcm'av xai òXiyaQXiav, cioè « la mescolanza dello stato popolare e de’ pochi avrà conseguito bene il suo fine, quando la medesima repubblica potrà dirsi che sia e Stato popolare e Stato di pochi ». E più di sotto: Ilértovde 8è xoùxo xai xò péaov, èpqpaivexai yàg éxàxepov èv aùxq> xtòv axparv, ojxeq cupPaivei Ttepi



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tòjv AaxeÒcupcmcov rroXi-rei'av, cioè « quel che nel mezzo suole avvenire, nel quale ambedue gli estremi si veggono, come nella repubblica dei lacedemoni avviene». E più di sotto, re¬ cando il medesimo, cosi dice: Aei 8’èv tq nol . ixsiq . tq pepsiYpivn xoXto? ampóteQa 8oxelv elvai xai prj&éTeoov, cioè « gli è necessario nella ben mista repubblica che l’uno e l’altro vi si vegga e non vi si vegga ». Il che più chiaro ancora, con altre parole pur di Aristotele, più di sotto si mostrerà. Il medesimo si dé’ dire della tragicommedia, nella quale il tragico e ’l comico, non come intere forme, ma come qualità del poema tragico e comico, si ritruova. Il che come si faccia, con duo chia¬ rissimi esempli, applicandoli al poema di che si tratta, l’uno degli elementi e l’altro dell’arte medica, venendo all’atto pra¬ tico, mostrerò. E, cominciando dal primo, qual discordia o ni¬ mistà maggiore si trovò mai di quella che pose la natura ne’ corpi semplici? I quali con le loro opposite differenze una tal guerra si fanno, che, se l’effetto noi dimostrasse, parrebbe cosa impossibile che duo soli di loro, non che tutti insieme, si po¬ tessero unir giammai. E pure la natura, maestra e madre del¬ l’arte, ottimamente il fa, e ’l caldo, mortai nemico del freddo, e l’umido del secco, accorda insieme con tanta pace ne’ misti, che, dove disuniti non si potevano sofferire e davansi la fuga per conservar se medesimi, accompagnati poi nella generazione de’ corpi a loro soggetti, cedendosi e pareggiandosi l’un con l’altro, lasciali le proprie forme e in una sola, da quella di ciaschedun di loro molto diversa, unitamente conspirano. Non altramenti avviene delle due, tragedia e commedia, le quali tutto¬ ché sien diverse, si come non si nega che, quando son sepa¬ rate e ciascheduna nella sua forma natia, non abbiano a conte¬ nersi ne’ loro termini, cosi, quando queste medesime si con¬ giungono insieme per fare un altro poema misto d’ambedue loro, vi concorrono a guisa degli elementi, per modo rintuzzate e corrette, che l’una diviene amica dell’altra, in quella guisa (e questo è il secondo esemplo, forse più accomodato del primo) che suole il medico nel comporre la teriaca, la quale chiunque non sapesse come si tempri, sappiendo però ch’ella si faccia


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per antidoto dei veleno, si maraviglierebbe vedendovi entrar la vipera, fra tutte l’altre serpi velenosissima. Ma cesserebbe la maraviglia, quando poi intendesse ch’ella non v’entri se non purgata del suo veleno, talché le parti sole, che salutifere sono, vi concorrono rintuzzate. Cosi fa chi compone tragicommedia, perciocché dall’una prende le persone grandi e non l’azione; la favola verisimile, ma non vera; gli affetti mossi, ma rintuz¬ zati; il diletto, non la mestizia; il pericolo, non la morte; dal¬ l’altra il riso non dissoluto, le piacevolezze modeste, il nodo finto, il rivolgimento felice, e sopratutto l’ordine comico, del quale a suo luogo ragioneremo. Le quali parti, in questa guisa corrette, possono stare insieme in una favola sola, quand’elle massimamente sono condite col lor decoro e con le qualità del costume che lor convengono. Concludiamo noi dunque che la potenza del tragico, nata atta a fare una tragedia, non farà mai, dove concorrono l’altri parti nell’esser loro vigoroso ed intero, né commedia né tragicommedia, ma se tutte non vi concorrono. E, se invece delle tragiche, vi saran delle comiche, quella po¬ tenza non si condurrà mai all’atto di formare poema tragico, anzi il concorso delle parti tragiche e comiche circoncise fa¬ ranno quella potenza molto debole e molto rimota da potersi produrre in atto. Né questa è dottrina mia, ma del maestro Aristotile, il qual, volendo nei suoi maravigliosi libri della Ge¬ nerazione esattamente trattare della rimescolanza che fanno i corpi naturali, va prima, coin’è suo solito, dubitando se di co¬ tale rimescolanza la natura è capace, e argomenta cosi. Delle cose che si rimescolano, Luna delle due cose par necessaria: o che ambe si disperdano, o l’una si conservi e l’altra si perda. Che ambedue si conservino, non può dirsi, conciosiacosaché non seguirebbe rimescolanza, se l’una e l’altra si conservasse in quel medesimo stato, nel quale, prima che si rimescolassero, si trovava; ma neanche può dirsi che si dileguino, essendo che di cose non sussistenti niun composito, non che altro, imaginar non si può. Per la medesima ragione ancora è cosa impossibile che l'una si conservi e l’altra si perda, non potendosi fare di cosa, che non sia, rimescolanza di sorte alcuna, come s’è detto.


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Pare egli dunque che in verun modo la mescolanza de’ corpi naturali far non si possa. Or questa difficoltà vien dal mede¬ simo risoluta cosi: « Delle cose che sono, alcune sono in po¬ tenza, alcune in atto, laonde si può dire che le cose rimesco¬ late a un certo modo sieno e non sieno, perciocché, in quanto all’atto, il composito è diverso dagli ingredienti, ma in quanto alla potenza ritiene alcuna cosa di quello che l’uno e l’altro aveva prima che si rimescolasse, che del tutto non è consunta ».

Ma qui potrebbe dire alcuna persona bene intendente, che l’esemplo non fosse simile e la dottrina non militasse nella poesia tragicomica: imperocché l’acqua nel vino e ’1 vin nell’acqua entrano interi e perdono l’atto loro dalla rimescolanza che se¬ gue, rintuzzandosi l’un per l’altro; quello che non avviene nel comporre tragicommedia, nella quale entran le parti già rin¬ tuzzate e non da rintuzzare, essendo che né d’intera o trage¬ dia o commedia, ma solo d’alcune parti tragiche e comiche si compone. A che rispondo che questo nasce dalla diversa natura delle cose che si compongono: la forma del vino in tutte le sue parti è la medesima sempre in atto; ma la forma della tragedia in ciascuna parte di lei non è se non in potenza, né si riduce all’atto, se non concorrono l’altre parti, e perché il fine della natura, nelle rimescolanze de’ corpi che i greci chiamano « omogenei », è di produrre in atto una sola cosa di quelle due che concorrono. E, prevedendo l’arte che ciò non si può fare della tragedia e della commedia, si come quelle che di parte « eterogenee » son composte, perciocché, se si ri¬ mescolassero una intera tragedia e commedia insieme, non avendo esse in sé principio intrinseco naturale, non potrebbe operare l’una nell’altra (condizione ch’è necessaria in tutte le naturali rimescolanze), onde ne seguirebbe che in un soggetto solo due forme infra di loro contrarie si comprendessero; l’arte, provvidentissima imitatrice della natura, fa essa l’ufficio del principio intrinseco, e, dove la natura àttera le parti rime¬ scolate, essa le àltera prima che le congiunga, acciocché pos¬ sano stare insieme e produrre una sola forma nel misto. Ma si potrebbe nuovamente qui dubitare qual fosse in atto un


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tal misto della tragicommedia; ed io risponderei che ciò fosse il temperamento del diletto tragico e comico, che non lascia traboccar gli ascoltanti nella soverchia né malinconia tragica né dissoluzione comica. Da che risulta un poema di eccellentissima forma e temperatura, non solo molto corrispon¬ dente all’umana complessione, che tutta solamente consiste nella temperie di quattro umori, ma della semplice e tragedia e commedia molto più nobile, come quello che non ci reca l’atrocità de’ casi, il sangue e le morti, che sono viste orribili ed inumane, e non ci fa, dall’altro lato, si dissoluti nel riso, che pecchiamo contro la modestia e ’1 decoro d’uom costu¬ mato. E veramente, se oggi si sapesse ben fare (perciocché egli è molto malagevole), altra favola non dovrebbe rappresen¬ tarsi, si come quella che è capace di tutte le buone parti del poema drammatico e tutte le cattive refiuta; a tutte le com¬ plessioni, a tutte l’età, a tutti i gusti può dilettare: quello che non avviene delle due, tragedia e commedia, che peccano nel¬ l’eccesso. Onde nasce che l’una viene oggidì da molti e grandi e saggi uomini abborrita e l’altra poco stimata.

Ma egli non mi parrebbe di avere appieno fornito l’ufficio mio, se, dopo Tessersi conosciuto da quelle parti, che sono come forme della tragicommedia, ch’ella per buono e regolato poema si dé’ ricevere, non provassi il medesimo dal suo fine; conciosiacosaché altri per avventura potrebbe volere intendere quale egli fosse questo suo fine, o tragico o comico o misto, come parrebbe che richiedesse il dovere, essendo favola mista. Il che senza molta difficultà non si potrebbe accordare, essendo che ciascun'arte ha un suo fine, dov’ella miri operando; e, se n’ha duo, l’uno risguarda l’altro, per modo che un solo sem¬ pre convien che sia il principale inteso da lei. Or concedasi che la tragicommedia sia misto ragionevole: che intende ella di fare? che fine ha? vuole ella ridere o piagnere? poiché l’uno e l’altro in un medesimo tempo far non si può. Qual dunque fa ella prima? qual più? qual meno? qual principale? qual subalterno? A questo obbietto non si può ben rispondere, se prima non si determina qual sia il fine della tragedia e qual


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sia quello della commedia. Per intelligenza di che hassi a sa¬ pere che ciascuna arte, oltre quel principale che dianzi s’è da noi detto, ha un altro fine. L’uno, per cagion del quale operando, l’artefice introduce nella materia, ch’egli ha per mano, quella forma eh’è fin dell’opera; l’altro, per bene e uso del quale, la cosa, che vuol condurre a fine, viene operata. Nel qual senso disse Aristotile che l’uomo è fin di tutte le cose. L’uno di questi fini chiameremo noi «strumentale», e l’altro, con la voce medesima del filosofo, «architettonico». E questi sono ambedue nell’arte tragica e comica. E, cominciando dalla commedia, il suo fine strumentale è d’imitare quelle azioni degli uomini privati, che col difetto loro muovono a riso, e questo è d'Aristotile. Ma il fine architettonico non si trova detto da lui, mancando, in quel trattato che noi abbiamo della Poetica sua, l’esame della commedia, dove noi doviam cre¬ dere che ce l’avrebbe altresi cosi bene assegnato come fece nella tragedia. Ma dal fine, ch’egli assegnò dell’opera, possiain noi bene conghietturare quale abbia a esser l’architettonico, es¬ sendo questo l’esemplare che l’artefice si propone. Laonde, considerata ben la nascita sua, che fu per occasione de’ bac¬ canali, tutta piena d’ebbrezza e di lascivia fallica, e oltre a ciò vedendo che ’l medesimo Aristotile la distingue dalla tra¬ gedia con le persone plebee, assegnandole il riso per sua spe¬ cifica differenza, pare a me che altro fine non possa avere che di purgare gli animi da quelle passioni che si cagionano in noi da’ travagli, non sol privati, ma pubblici. Purga la malin¬ conia, affetto tanto nocivo che bene spesso conduce l’uomo a ’mpazzare e darsi la morte; e purgalo in quella guisa che fa la melodia, secondo che c’insegna Aristotile, quell’affetto che i greci chiamano évOovaiucrpóv, e ’n quella che la Sacra Scrittura ci racconta, che David, coll’armonia del suo suono, cacciava i mali spiriti di Saul, primo re degli ebrei. E, si come una parte di musica, secondo che’l medesimo c’insegnò, è necessaria per cagione di ricrearsi e prendere quel ristoro, di cui l’umana vita ha tanto bisogno, cosi la commedia, con le festose e ridicole sue rappresentazioni, rallegra l’animo nostro, e ’n quel modo


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che suole il vento dissipar l’aere condensato, scuote anch’ella, movendo il riso, quell’umor fosco e caliginoso, che, dal sover¬ chio affisar della mente generandosi in noi, tardi il più delle volte e ottusi ci rende neli’operare. Per questo non vi s’indu¬ cono se non persone private, con difetti degni di risa, scherzi, giuochi, intrighi di poco peso, di corto tempo e d’esito gio¬ condissimo. Tale ha il suo fine architettonico la commedia. Ma la tragedia, per lo contrario, richiama l’animo rilassato e vagante, ond’ella ha fini di gran lunga diversi, ammendue dimostratici nella Poetica d’Aristotile, ov’egli la definisce, in ciò molto piu fortunata della commedia. L’uno è l’imitazione di qualche caso orribile e compassionevole, e questo è lo stru¬ mentale; e l’altro è la purgazione del terrore e della compas¬ sione, eh’è l’architettonico. La qual purga come si faccia, è molto necessario d’intendere, chi vuol toccar con mano quel che si cerca. So che questo passo è uno de’ più difficili, che abbia tutta V Arte poetica d’Aristotile; e però intendo di trattarlo con gran modestia verso coloro che sono stati de’ primi uomini del tempo loro, i quali, per mio credere, più tosto l’hanno adombrato che dichiarato. Tutto quello, che ’n ciò fa dubbio di non lieve importanza, pare a me che si riduca a duo punti. L’uno, per qual ragione voglia Aristotile che Tuoni si privi della compassione, che è cosa, come dice il Boccaccio, cotanto umana. E ’n verità, che ’l terrore s’abbia a purgare, come af¬ fetto disordinato che corrompe la virtù della fortezza, ha molto del ragionevole o, per dir meglio, del necessario. Ma spogliarsi della pietà, chi può farlo senza spogliarsi d’umanità? Per modo che la tragedia per questo solo meriterebbe d’essere, come fiero e scandaloso spettacolo, abborrita. L’altro punto è come può stare che le cose terribili purghino la paura, conciosiaco- saché non si vegga le materie colleriche essere atte a purgar la collera, ma si bene a farla maggiore, e cosi le flemmatiche e l’altre degli altri umori. E però, con le viste di cose orribili e spaventose, a chi è timido di natura, s’aggiugnerà più tosto spavento. Quantunque dicano alcuni che anzi l’abituarsi nel veder cose orribili, come sangue, ferite e morti, rende l’animo


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intrepido, e, coll’esempio del soldato, conchiudono che ’n cotal guisa la tragedia purghi il terrore. Il che forse si potrebbe concedere, s’ella rappresentasse gladiatori o sicari. Ma ella è da ciò tanto lontana, che anche le morti, che sono in lei, rade volte sottopone agli occhi degli ascoltanti, ma falle raccontare, avvengaché qualche volta i corpi morti produca in palco, come Euripide fece nelle Fenisse. Certissima cosa è che Sofocle noi fé’ mai, che che si dicano alcuni, i quali s’hanno creduto che la morte d’Aiace si faccia in vista del teatro, che non è vero a chiunque intende e considera ben quel luogo. Cosi dunque non può ella voler purgare, perciocché le viste truculenti fanno ben gli uomini più crudeli, ma non più forti Né la fortezza del soldato, quand’ella nasce dall’abito di veder corpi morti, è virtù, e chi per altra via non è forte, impropriamente si chiama tale, come quella eziandio del nocchiero, abituato nelle tempeste del mare, secondo che c’insegna Aristotile, non può dirsi vera fortezza. Il veder dunque in altrui spesso la morte assicura bene di praticare dove si muore, e per questo i car¬ nefici e, ne’ tempi di pestilenza, i beccamorti, che son persone vilissime, in quel loro esercizio sono intrepidi più degli altri; ma non rende gli animi forti né purga il timor della morte. E che sia vero, pochi sono i soldati, tuttoché ogni giorno veg¬ gano il sangue, che, quando il pericolo della morte non è più in mano della fortuna, ma del nemico più forte, e già si veggano sopraffatti, stien saldi nella battaglia e non volgan le spalle; e que’ pochi, che resistono e fanno testa, non sono forti per abito di vista spaventevole e truculenta, ma per abito d’onorato, vertuoso e lodevole oggetto. Vengo ora alla compassione, della quale potrebbe dirsi che ’l frequentar le viste compassionevoli fosse cagione di consumarla. Ma io non so vedere come altri possa privarsi di questo affetto senza spogliarsi d’umanità, che vuol dire farsi crudele; né so come Aristotile il voglia, avendoci egli pure insegnato nelle Morali che si dé’ compatire del male che ha l’amico. Or queste sono le difficultà che ci bisogna prima risolvere, volendo bene intendere il modo con che il poema tragico purga. E, prima ch’altro s’intenda, è da sapere


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che ia voce « purgare* ha duo sensi: l’uno è « di spegnere af¬ fatto», e ’n questo l’usò il Boccaccio, là dove e’ disse: « I peccati, che tu hai infino all’ora della penitenza fatti, tutti si purghe¬ ranno ». L’altro è di «purificare e mondare», e ’n tale senso disse il Petrarca: «Vergine, i’ sacro e purgo Al tuo nome e penseri e ’ngegno e stile »; perciocché quivi non vuole spegnere il proprio ingegno, come il Boccaccio intendeva di spegnere le peccata, ma di sgombrarlo d’ogni viltà e farlo in sua natura perfetto. In questo secondo significato si dé’ prendere il « pur¬ gare » della tragedia, come altresi lo prendono i medici: i quali, quando essi voglion purgare, pogniam caso, la collera, non hanno intenzione di spegnerla o diradicarla affatto dal corpo umano, ché cotesto sarebbe un volere uccidere e non sanare, levando alla natura tutto un umore, ond’ella si serve per temperamento degli altri, ma di levarne sol quella parte, che, traboccando fuor de’ termini naturali, corrompe la simmetria della vita, onde poi nasce la ’nfermità. Non purga dunque il poema tragico gli affetti suoi alla stoica, spiantandogli totalmente da’ nostri cuori, ma moderandoli e riducendogli a quella buona temperie, che può servire all’abito vertuoso. Anzi si vai dell’uno per me¬ dicina dell’altro, perciocché tanto è lontano che tutti i timori sien viziosi, che anzi ve n’ha di quelli, che sono i naturali fomiti alla vertù, com’è il timor della ’nfamia. Parimente la commiserazione non è tutta buona, perciocché, non servati i debiti modi, passa in tenerezza e ’n mollizie, che snerva gli animi giusti. Hanno dunque bisogno questi duo affetti d'esser purgati, cioè ridotti a vertuoso temperamento, e questo fa la tragedia. Ma, se il « purgare»si considera come effetto della cosa purgante, diremo che questi affetti si purgano nel primiero si¬ gnificato, perciocché il buono intende di spegnere e diradicare affatto il cattivo. Se dunque il timore e la compassione purgan gli affetti simili a loro, e de’ timori e delle compassioni altri son buoni, altri no, bisogna che noi veggiamo quali nella tra¬ gedia sono i purganti e quali i purgati; e quinci apparirà che non repugna alla natura loro il purgare e Tesser purgati. E, cominciando dal primo, dico che, si come l’uomo ha due vite,


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l’una dello ’ntelletto e l’altra del senso, cosi può aver timor di due morti, nelle quali, per testimon d’Aristotile, è per

10 più fondato il terribile. Quale è dunque il terrore purgante nella tragedia? quel della morte interna, il quale, eccitato nel- l’animo di chi ascolta per l’immagine delle cose rappresentate, tira, per la similitudine che l’un timore ha con l’altro, a guisa di calamita, il malo affetto peccante; onde poi la ragione, eh’è natura e principio della vita dell’anima, abbonendolo come suo capitai nemico e contrario, lo spinge fuori di sé, lasciandovi solo il buon timor della ’nfamia e della morte interna, fon¬ damento della vertu. Quando dunque il terrore purga il terrore, non fa come se giugnesse collera a collera, ma come il rabarbaro,

11 quale, tuttoché abbia similitudine occulta con quell’umor ch’egli purga, in quanto al fine però gli è sommamente contrario, perciocché l’uno sana e l’altro corrompe. Cosi il terrore purga il terrore, conciosiacosaché niuna via può trovarsi né più valida né più certa di non temere il morire, che ’l dar vigore e spirito alla vita dell’anima, eh’è ’l senso della ragione. Tutti gli altri sono men gagliardi argomenti, ché, se delle due vite l’in¬ terna è la più propria dell’uomo, non ha alcun dubbio che chi vivace la sente in sé, sosterrà pria di non essere che di mai essere. In questo dunque consiste tutto ’l negozio della tragedia, la quale, rappresentandoci quel terribile che può es¬ sere nella morte dell’animo, c’insegna di non aver timor di quella del corpo e fa sentirci di denfro la forza della giu¬ stizia, per cagion della quale veggiamo i personaggi tragici, quando sono nell’animo tormentati, non sentire i tormenti del corpo e non aver timore alcun della morte. Per questo gli scel¬ lerati non hanno luogo nelle tragedie, si come quelli che hanno in tutto mortificato il sentimento interno della ragione. Ma vegniamo agli esempli. Di che si duole Edipo nel Tiranno di Sofocle, regina ed esemplare delle tragedie? Di che, dico, si duole quel re infelice dopo il riconoscimento del parricidio e dello ’ncesto da lui commesso? di doversi privar del regno? della patria? d’esser caduto dallo stato reale e fatto, di re, mendico? No. E pure queste sono percosse le maggiori e le più


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gravi che possa avere chi altamente è nato. Ma esso non le sente, anzi prega che quanto prima sia condotto fuori della città, lasciando il regno a Creonte, si come a lui ricaduto per morte sua non naturale, ma civile. Né altra cosa il tormenta che il parricidio e lo ’ncesto, vedendosi in quelle colpe caduto tanto nefande e da lui si grandemente abborrite, che prima, per la sua interna giustizia, si sarebbe dato la morte che vo¬ lontariamente commetterle. Quest’orrore, questa infamia l’oc¬ cupa tanto, che si scorda d’ogn’altro danno; questo dolore l’accuora si, che non sente la perdita né degli occhi, né della patria, né dello scettro regale, e parla delle sue pene interne, come se nell'esterno non sentisse dolore e perdita alcuna. Spet¬ tacolo che ci fa ravvedere delle nostre infermità e, a coloro che temono si grandemente il morire, fa chiaramente conoscere che l’umana natura ha cosa più terribile della morte, della quale se si dé’ pur temere, di quellasola dell’animo dé’ temersi, poiché quella del corpo a paragon di lei diviene quasi insensibile. Il mede¬ simo documento ci dà pur anche Sofocle ne\V Aiace, tormentato sol dalla ’nfamia, nella quale a lui pare d’esser caduto per la pazzia, che pure è morte dell’anima, che lo spinse a tórsi la vita, non volendo vivere alla natura, essendo morto all’onore. Lo stesso pur s’impara ancor nell ’Antigone e nell’ Efigenia, per¬ ciocché, per lo bene adoprare, eh’è la vita dell’anima, l’una nel seppellire il fratello e l’altra nel procurare il ben pubblico, non ' curano né il danno né il pericolo della morte del corpo. E cosi, di¬ scorrendo per tutte l’altre che sono buone tragedie, come che po¬ che se ne veggan di tali, si troverà che ’l terrore purga di questo modo il terrore, avvengaché alcune più, alcune meno, secondo ch’elle, o per la favola o per l’artifizio del poeta, sono più e meno perfette. Ma qui potrebbe nascere un dubbio, il quale è bene che si risolva, perciocché nel trattato « Della fortezza» Aristotile non riceve per atto vertuoso il darsi la morte; onde si porria dire che la tragedia,- insegnando di cader nel peccato, non pur¬ gasse ben gli animi, ma più tosto gli corrompesse. A che si può rispondere in due maniere: l’una è che ’l filosofo non ri¬ prende coloro che per fuggir la ’nfamia o per coscienza del


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lor peccato, ma per non sostenere o povertà o altra molestia del senso, si recano a darsi morte. E, quantunque la nostra santa e vera religione stimi, come è, peccato ogni volta che qualcuno da se stesso si procura la morte, nientedimeno la gentilità, che non avea questo lume, giudicò fatto nobile il darsi morte, come Cato, Bruto e altri, ma più di tutti Lucrezia, che non per gloria, ma per giustificare l’onestà sua se la diede. L'altra risposta è che la tragedia non si serve dell’atto volontario di chi s’amazza per imitare un’opera virtuosa, ma per isprimere che tanto è ’l dolor dell’animo, che chiunque si dà la morte, non sente quello del corpo, e che la nostra umanità patisce cosa che più le preme ed è più spaventevole della morte. Che finalmente la tragedia è una favola e non ha per suo scopo d’insegnar la vertù, ma di purgare quelle due perturbazioni del¬ l’animo, in quanto può una favola, che fanno ostacolo alla for¬ tezza, che ’n tutti gli atti umani è tanto nobile e necessaria vertù. Or passiamo all’altro affetto della compassione, la quale non è altro che dolore del male altrui. Ma questo male può essere in due maniere, o del corpo o dell’animo; onde nascon le due compassioni, buona e cattiva: perciocché la buona è quando noi ci attristiamo di chi s’affligge nell’animo, perché troppo si sia compiaciuto nel corpo; e la cattiva è quando ci attristiamo di chi s’affligge nel corpo per aver pace con l’animo. E ’n ciò consiste la vera cognizione di questo affetto utilissimo, anzi pur necessario a tutta la vita umana: perciocché altra diffe¬ renza non è tra il continente e l’incontinente, che si posson chiamare i soldati della vertù, se non che l’uno non ha com¬ passione al corpo e l’affligge per non aver tormento nell’animo; l’altro è tanto tenero verso ’l corpo, che si lascia cadere nel¬ l’offesa dell’animo, ond’egli ha poi l’angoscia del pentimento. Quinci è nato il proverbio che « medico pietoso fa la piaga verminosa »; ché, s’egli usasse il ferro e non avesse quella sciocca pietà per non dar pena allo ’nfermo, per poco male che gli facesse, il camperebbe da morte. Il medesimo è nel soldato, il quale, se è troppo tenero di se stesso, fugge le fa¬ tiche e i pericoli, onde poscia avvien di leggieri che egli, o


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lasciando gli ordini o volgendo le spalle o altra cosa operando indegna di lui, cada in infamia e poi se ne crucci e sia degno di vera compassione. Cosi il padre, cosi il maestro, troppo a’ di¬ scepoli e a’ figliuoli indulgente; cosi il giudice, cosi il prencipe troppo compassionevole nel punire, sono cagione di tutti i mali, che commettono i trasgressori. Non si vuol dunque aver com¬ passione dell’altrui pena del corpo, quand’ella è giusta, ma si ben della colpa, quand’ella, conosciuta e sentita dal pecca¬ tore, diventa pena del suo peccato, perciocché quella infievo¬ lisce l’animo di colui che ha compassione e questa il fortifica, quella il dissolve e questa l’unisce, quella il rilassa e questa l’assoda. E non ha dubbio che, senza il sofferire e ’ndurarsi contra le lusinghe e le molestie del senso, astenendosi e so¬ stenendo, non può l’uomo conseguir l’abito, ch’è suo proprio, della vertù. E chiunque compatisce in quel modo, si dispone a sofferir nel corpo per non avere angoscia nell’animo. Quale sia dunque la compassione che purga e quale quella che dé’ esser purgata, dalle cose dette di sopra si può comprendere. E, per non partire dal celebrato esemplo d’Edipo, considerate gli affanni suoi, li quali erano di due sorti, altri del senso e altri della ragione. Chi è colui che, veggendo quel re, già si grande, privato, cieco e sbandito, mali non sentiti, anzi pro¬ curati da lui, non gli abbia della ’nterna cagione di quella cecità, di quella afflitta fortuna maggior compassione che del¬ l’estrinseco effetto? Chi non sente il medesimo ne\l'Aiace, e chi nell 'Efigenia d’Euripide, e, contemplando la fortezza di quella vergine nel disporsi a morire per pubblico beneficio, non purga l’animo suo di quella tenerezza e viltà, ch’è fo¬ mento dell’amor proprio? e non impara, per la vertù e per l'opere illustri e grandi, d’espor la vita ai pericoli della morte? Quanto dunque una favola avrà più del terribile e del compassionevole, sarà ella tanto più tragica. Per la qual cosa, se Tesser tragico è qualità alterabile, che si può accrescere e sminuire, come da’ detti d’Aristotile si raccoglie, sarà in man del poeta di far la favola più e men tragica, secondo che più e men di terrore e di compassione vi s’indurrà. Le sommamente tragiche avranno

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G. B. G CARINI.


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i personaggi grandi, i nomi veri, l’azion grave, i costumi, l’apparato, il decoro, la locuzione e la sentenza magnifica, il riconoscimento, la mutazion di fortuna e ’1 fine calamitoso. Tale è Y Edipo il tiranno di Sofocle. Le meno tragiche non hanno né riconoscimento né mutazion di fortuna; le molto meno mancheranno di fine calamitoso; le ’mperfettissime son le dop¬ pie, delle quali a suo luogo, l’episodiche e le non vere. Dunque dal terribile e dal miserabile, più o meno purganti, nascono i gradi delle tragedie. Onde séguita che se, come s’è detto, Tesser tragico può ne’ suoi gradi alterarsi, non ha dubbio che può anche corrompersi e dileguarsi, per modo che tra¬ gico non sia più, ma passi in un’altra spezie. E però, se nelle sue alterazioni alcuna cosa riceverà che non repugni agli affetti del terribile e del miserabile, sarà egli tragico sempre, ancora che più e meno. Ma, mescolandosi con qualità repu¬ gnante e contraria ai soprannominati duo affetti, si come è ’l riso, converrà che si corrompa la spezie, e, mutandosi fine, si muti forma, perciocché, dove si vuole il riso, non può star né pietà né terrore, affetti oppositi, si che l’uno distrugge l’altro. Se dunque il riso corrompe la forma tragica, quand’egli si troverà in soggetto che non sia vile e plebeo, e avrà quelle parti della tragedia che non son repugnanti al ridicolo, che poema farà? Tragedia no, perciocché la forma tragica per ca- gion del riso è distrutta; ma neanche commedia, che non riceve soggetto nobile, e solo ci rappresenta difetti d’uomini vili e capaci di riso. Che sarà ella dunque se non un terzo parteci¬ pante di quelle qualità tragiche e comiche, che si possano unire insieme? Ma che fine avrà ella? Eccoci alla decisione di quella difficultà, che ci ha mossi a far si lungo discorso.

Dico pertanto che la tragicommedia, si come l’altre, an- ch’essa ha duo fini, lo strumentale, ch’è forma risultante del¬ l’imitazione di cose tragiche e comiche miste insieme, e l’ar¬ chitettonico, ch’è il purgar gli animi dal male affetto della maninconia, il qual fine è tutto comico e tutto semplice, né può comunicare in cosa alcuna col tragico. Perciocché gli effetti del purgare son veramente oppositi infra di loro: l’un


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rallegra e l’altro contrista, l’un rilascia e l’altro ristringe; moti dell’animo repugnanti, conciosiacosaché l’uno va dal centro alla circonferenza, l’altro cammina tutto all’opposito, e questi sono quei fini che nel drammatico si possono chiamare « con- tradditorii ». Ma il fine strumentale può esser misto, percioc¬ ché molte parti ha la tragedia, che, rimosso il terribile, han virtù di produrre con l’altre parti comiche il diletto comico. Laonde, concedendo Aristotile il diletto nella tragedia, diletto con diletto agevolmente s’accorda. E quale è il diletto tragico? L’imitare azion grave di persona illustre con accidenti nuovi e non aspettati. Or bevisi il terrore e riducasi al pericolo solo, fin¬ gasi nuova favola e nuovi nomi, e tutto sia temperato col riso: resterà il diletto dell’imitazione, che sarà tragico in potenza, ma non in atto, e rimarràne la scorza sola, ma non l’affetto, che è il terribile, per purgare; il quale non si può inducere se non con tutte le parti tragiche, altramente la storia sarebbe anch’ella tragedia. Ed è fra loro una gran differenza; perciocché quella con la sua semplice narrazione non vuol purgare, e questa, col suo grave, coll’apparato, coll’armonia, col numero, con la locuzione magnifica e sontuosa e con l’altre tragiche viste e cose, vuole indurre il terribile e ’l miserabile, per pur¬ garli. E però là dove dice Aristotile che sommamente tragiche son le favole di fin mesto, ci volle aggiungere « quand’elle son ben condotte », volendo dire che tutte le rappresentazioni non producono effetto tragico, ma quelle sole che sono accompa¬ gnate da tutte l’altre parti che ci concorrono. Consiste dunque il diletto tragico nell’imitazione di fatti orribili e miserabili, la quale per se stessa, come dice Aristotile, è dilettevole. Ma non basta: bisogna che l’altre parti ancora sien tali, se si vuol bene conseguire il fin di purgare; altramente non si farà tragedia se non equivocamente, cioè fuori de’ termini della definizione datale dal filosofo. Chi dunque d’alcun soggetto servir si vuole per non purgare il terrore, il va temperando col riso e con le altre qualità comiche, in modo che, quantunque di sua natura terribile e miserabile, non ha però forza di produr né terrore, né compassione, e molto men di purgarla, ma resta con la


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sola vertù di dilettare imitando. E, si come ogni cosa terri¬ bile non è atta a purgare il terrore (ciò si pruova nelle pitture, quantunque orribili e spaventose, e nelle cose della medesima qualità, che solamente si narrano senz’arte alcuna drammatica), cosi ogni rassomiglianza del terribile non produce tragedia, s’ella non vien condotta con l'altre parti che ci concorrono. E che sia vero: quando Aristotile difende il Fior d’Agatone e l’altre di nomi finti, non dice ch’elle purghino come l’altre, ma che dilettano, perciocché l’animo non si purga, s’egli non si contrista, non essendo altra cosa il terrore e la commisera¬ zione che dolore e tristizia, a cui repugna dirittamente il diletto, né il contristare ha luogo dove si rappresentan favole finte e cose ridicolose. Se dunque la tragedia diletta, ciò fa imitando; e fallo in quella guisa con che si suole ingannare il fanciullo abborrente la medicina, ugnendo l’orlo del vaso, come dice Lucrezio, d’alcuna cosa dolce per allettarlo a bere la medicina. Dilettan le viste tragiche; ma lascian poi al fine una mestizia grande nell’animo, la quale è quella che purga. E però a molti non piace il poema tragico in sua natura, perciocché tutti non han bisogno di quella purga. E, si come l’età si mutano, cosi i costumi si cangiano. Piacque prima nella sua infanzia la tragedia tutta giocosa, e dopo alquanto di tempo dilettò grave. Cominciò poi a piacere il primo diletto, e v’introdussero i romani, si come avevano fatto i greci altresi, un’altra volta i satiri. E questa è la vera cagione delle differenze e de’ gradi che sono nelle favole più e meti tragiche, perciocché, veggendo i poeti i vari gusti degli ascoltanti, alcuna volta componevan le fa¬ vole col fin lieto per rimettere in parte quell’acrimonia. Quinci agevolmente si può tór via quella contradizione che par ne’ detti d’Aristotile, il quale, favellando della tragedia terminante in felicità, dice che la ’mperizia del teatro le concedeva il primo luogo di dignità, e poco dapoi soggiunge che quelle di fin mesto son riputate le più perfette; la quale incostanza nasceva dai diversi umori degli ascoltanti, perciocché tutti non hanno gusto di quel perfetto, senza che la maggior parte degli uomini si conducono a veder gli spettacoli per fine di ricrearsi e non


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di piagnere o contristarsi. La medesima diversità in coloro che ascoltano, secondo che i secoli si sono andati cangiando, ha diversificata altresi la commedia, la quale anch’essa ha le sue differenze, poiché, si come nella tragedia il terrore, più e men temperato, ha fatto nascere i gradi del più e meno tragico, cosi il riso, più e men dissoluto, ha fatto anch’esso la favola più e men comica divenire. Da principio non era oscenità né la¬ scivia di sorte alcuna che, per muovere altrui a riso, non si rap¬ presentasse liberamente e senza rispetto alcuno. Cominciò poi a stomacare quella licenza tanto sfrenata, e, temperandosi a poco a poco, s’introdusse una forma di favola più modesta, col riso assai più parco e con gli scherzi più moderati e con le oscenità più coperte e finalmente sbandite, con quella si notabile dif¬ ferenza che si vede tra quelle di Aristofane e di Menandro e tra quelle di Plauto e di Terenzio. Le quali tutte, secondo i tempi loro, furono buone, avvengaché le prime sembrassero sfaccia¬ tissime meretrici e le seconde venerande matrone. Nasce dun¬ que tutta questa varietà cosi tragica come comica dal teatro, si come chiaramente mostra Aristotile ne’ sopraddetti luoghi della Poetica , ma molto più nell’ottavo della Politica , dov’e’ ci reca la differenza eh’è tra gli spettatori dotti e indotti, nobili e della plebe, alla natura de’ quali dice egli però che si deono accomodar gli spettacoli e l’armonie. E veramente, se le pub¬ bliche rappresentazioni sono fatte per gli ascoltanti, bisogna bene secondo la varietà de’ costumi e de' tempi si vadano eziandio mutando i poemi. E, per venire all’età nostra, che bisogno abbiamo noi oggidì di purgare il terrore e la commise¬ razione con le tragiche viste, avendo i precetti santissimi della nostra religione, che ce l’insegna con la parola evangelica? E però quegli orribili e truculenti spettacoli son soverchi, né pare a me che oggi si debbia introdurre azion tragica ad altro fine che per averne diletto. Dall’altro canto la commedia è ve¬ nuta in tanta noia e disprezzo, che, s’ella non s’accompagna con le maraviglie degli « intramezzi », non è più alcuno che sofferire oggi la possa. E questo per cagione di gente sordida e mercenaria, che l’ha contaminata e ridotta a vilissimo stato,


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portando qua e là per infamissimo prezzo quell'eccellente poe¬ ma, che soleva già coronare di gloria i suoi facitori. Per solle¬ vare adunque di tanta meschinità la comica poesia, che possa dilettare le svogliate orecchie de’ moderni uditori, seguendosi le vestigia di Menandro e Terenzio, che la innalzarono a decoro più grave e più ragguardevole, si sono i facitori delle tragi- commedie ingegnati di mischiar tra le cose piacevoli di lei quelle parti della tragedia che si possano accompagnare con le comiche, in tanto che conseguiscano la purgazione della me¬ stizia, argomentando, e non male, che, si come i romani antichi, per testimonio d’Orazio, introdussero i satiri, personaggi ridi¬ coli, nella severità del poema tragico, come di sotto si mostrerà, non per altro che per sollazzo e recreazione degli ascoltanti, cosi dé’ esser lecito a noi, per levare il fastidio e l'abborrimento che oggi ha il mondo delle semplici e ordinarie commedie, di tem¬ perarle con quella tragica gravità che non sia repugnante al fine architettonico di purgar la mestizia. Ma, per concludere oggi- mai quello che fu primiera intenzione di dimostrare, dico che, se sarà domandato che fine è quello della poesia tragicomica, dirò ch’egli sia d’imitare con apparato scenico un’azione finta e mista di tutte quelle parti tragiche e comiche, che verisimil- mente e con decoro possano stare insieme, corrette sotto una sola forma drammatica, per fine di purgar con diletto la me¬ stizia degli ascoltanti. In modo che l’imitare, il qual è fine strumentale, è quel eh’è misto, rappresentando egli cose tra¬ giche e comiche mescolate. Ma il purgare, ch’è fine architet¬ tonico, non è se non un solo, riducendosi il misto delle due qualità sotto un soggetto solo: di liberar gli ascoltanti dalla ma¬ linconia. E, si come ne’ misti naturali, ancorché in essi tutti quattro si truovino gli elementi rintuzzati, come s’è detto, re¬ sta però in ciaschedun di loro una particolar qualità, o di que¬ sto o di quello, signoreggiante, ch’avanza l’altre e verso quello più piega che l’è più simile: cosi nel misto di che par¬ liamo, benché le parti di lui sien tutte tragiche e comiche, non è però che la favola non possa avere più dell'una qualità che dell’altra, secondo che più piace a chi la compone, purché si


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stia ne’ termini che di sopra si sono detti. L' Anfitrione di Plauto ha più del comico, il Ciclope d'Euripide più del tra¬ gico: non è però che non sia questa e quella tragicommedia, poiché niuna di loro ha per fine di purgare il terrore e la com¬ passione, non potendo ella star dov’è riso, disponente gli animi a dilatarsi, non a ristringersi. Tali, per avventura, dovevano essere le favole di Rintone, di cui tra’greci Snida, Stefano nel suo libro Delle città e Ateneo, tra i latini Donato, commen- tator di Terenzio. E tali furono senza fallo le satire prima che la tragedia si riducesse a quella severità, nella quale dice Ari¬ stotile che, dopo una lunga mutazione, si riposò. Inventore delle quali fu Pratina, al tempo d’Eschilo suo concorrente, e leggesi che di cinquanta favole che compose, trentadue ne furon sa¬ tiriche. Ma niuno meglio d’Orazio nella sua poetica Pistola a’ Pisoni ci ha descritta la tragicommedia con questi versi :

Mox eliam agres/es satyros nudavit et asper incolumi gravitate ioctirn tentami eo quod itlecebris erat et grata novitate morandus spectator, funclusque sacris et potus et exlex.

Veruni ita t isores, ita commendare dicaces conveniet satyros, ita vertere seria ludo, ne, quicumque deus, quicumque adhibebitur heros, regali conspectus in auro nuper et ostro, tnigret in obscuras humili sermone tabernas.

I quali versi, trasportati in nostra favella, voglion dir questo:

Ci fe’ poi anco i satiri selvaggi vedere ignudi, e tra le cose acerbe, salva la gravità, tentò gli scherzi: perché, fornito il sacrificio e tutto già pien di vino il veditore e sciolto, con quegli allettamenti e col piacere si dovea trattener di cose nuove.

Ma si vuole onestar con tal decoro il riso di que’ satiri mordaci, cosi la gravità mischiar col giuoco, che, qualunque tra lor si rappresenta,


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o nume o semideo, che dianzi d’ostro regalmente si vide ornato e d’oro, ignobilmente non favelli, in guisa che sembri uom di taverna oscuro e vile.

Ora, essendosi dalle parti e dal fine bastevolmente provato che il misto tragicomico è ragionevole, resta che ciò si pruovi ancor dallo stile, il quale, dovendo esser proporzionato alla favola, bisogna bene che, s’ella è mista, anch’egli, per essere uno, sia misto. E, si come Demetrio falereo, maestro nobilis¬ simo degli stili, c’insegna che le due forme da lui chiamate ìoxqòv xaì neYaXo^ejtèq, cioè « dimessa e magnifica », non si possono mescolare, cosi afferma che l’altre due, yfoupVQÒv xaì fieivòv, cioè la «polita» e la «grave», il possono fare, accom¬ pagnate con l’una o con l’altra dell’antidette, per modo che il facitore delle tragicommedie, quando pure si concedesse che le due prime non mescolasse, non si potrebbe negare che di¬ rittamente dell’altre due noi facesse. La sua propria e princi¬ pale è la magnifica, la quale, accompagnata con la grave, di¬ venta « idea » della tragedia; ma, mescolata con la polita, fa quel temperamento, che conviene alla poesia tragicomica. Percioc¬ ché, trattandosi in essa di persone grandi e d’eroi, non con¬ viene favellare umilmente; e, perciocché nella medesima non si vuole il terribile e l’atroce, anzi si fugge, lasciando da parte il grave, prendesi il dolce, che tempera quella grandezza e quella sublimità, eh’è propria del puro tragico. Cosi lodava Donato il giudicio e l’arte di Terenzio, che si bene avesse saputo andar per mezzo di coteste due forme tanto contrarie. Oltre di ciò, gli stili non sono come campane, che, fuor di quell’ordinario e zotico tuono che loro diede l’artefice, non sieno atte a fare alcun verso più e men grave o più e meno acuto di quello che sempre fanno; ma sono come le spiritose e arrendevoli corde del musicale stromento, le quali, benché tutte abbiano il proprio tuono, non è però che ’n quello or¬ dinariamente non sieno più e meno, secondo che piace al musico, intense o dimesse. L’« ipate » senza dubbio non sarà mai la « nete », né questa sarà mai grave, né quella acuta. L’una


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e l’altra risuona, più e meno secondo il bisogno, grave e acuta, né con questa loro pieghevole alterazione escono però mai de’ termini loro, in modo che l’« ipate » non sia sempre corda del grave, e dell’acuto la « nete ». Nel medesimo modo si maneggian gli stili, né perché il magnifico si rimetta, rimarrà per questo d’esser magnifico, né perché il dimesso s’aiti, passerà ne’ confini del grande. E, si come la corda grave e acuta nelle loro maggiori e minori intensioni van discorrendo per gradi, che « tuoni » sono chiamati, cosi gli stili passano per alcune parti dell’ora¬ zione, che, ricevendogli, più e meno gli rendon tali. Queste sono: « la sentenza, il metodo, la figura, la locuzione, la testura e ’l numero ». Da queste parti risultano in quella guisa gli stili, che dalla fronte e dagli occhi e dalla bocca e dal mento e dall’altre parti del volto umano risulta la sembianza in altrui virile e grave, in altrui molle, delicata e dimessa, e in altrui temperata. Or come fa il tragicomico nel temperare il suo stile? non farà certo la sentenza o la figura della forma sublime, e la locuzione e ’l numero del dimesso; ma, moderando la gra¬ vità della sentenza con que’ modi che la sogliono fare umile, e sostenendo altresi l’umiltà d'alcuna o persona o soggetto, di ch’egli tratti, con un poco di quella nobiltà di favella ch’è propria della magnifica, va facendo una idea, secondo la sog¬ getta materia, né tanto grande che sormonti alla tragica, né tanto umile che s’accosti alla comica; e cosi, discorrendo nelle altre parti, andrà con le contrarie qualità dolcemente tempe¬ rando la sua testura. Né questa è mia dottrina, ma d’Ermo- gene, famoso artefice delle idee. Favellando egli delle vaghe e belle misture che hanno saputo fare e Demostene e Seno- fonte e Platone, dice che gli stili si mescolano a guisa di co¬ lori, e si come dal bianco e dal nero, che sono tanti contrari, si forma un terzo ch’egli chiama cpaiòv, che «fosco» noi chia¬ meremo, cosi dalle contrarie forme del dire nascono i misti, che vaga rendono e ragguardevole la favella; soggiugnendo che non bisogna maravigliarsi se l’una idea comunichi in qualche parte con l’altra e con alcun’altra non si confaccia, dandone l’esempio dell’uomo, il quale tutto insieme è dagli


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altri animali differentissimo, ma nell’esser mortale è però si¬ mile a molti, e nell’avere intelletto ha con gl’iddii alcuna cosa comune. Quella mistura dunque, da duo famosi greci retori si lo¬ data, non dovrà essere alla poesia tragicomica disdicevole, poi¬ ché, per testimonio d’Ermogene, con tanta leggiadria l’hanno usata le più famose lingue e le più scelte penne di tutta Grecia. E tanto basti intorno allo stile, al discorso del quale séguita di necessità quello della favella,che da’latini « locuzione», e «frase» da’ greci viene appellata. La quale in modo alcuno noi non pos¬ siamo né pretermettere né dissimulare, avendo i medesimi oppo¬ sitori accusato nel Pastorfido il parlar troppo figurato e gli or¬ namenti, a poeta lirico più tosto che drammatico convenevoli. Intorno alle quali opposizioni, ancora che io potessi lungamente discorrere e allegare innumerabili autorità e de’ greci e de’ latini scrittori, nientedimeno d’un Aristotile solo, maestro di tutti gli altri, sarò contento, il quale nella Poetica , oltre a quello che ne disse pure anche nella Ritorica, favellando delle vertù che pro¬ priamente convengono a ciascheduna spezie di poesia, le voci che son composte al ditirambo, all’epico le straniere, e al giambo, per esser proprio verso drammatico, assegnò quelle ch’esprimono acconciamente il vicendevole e comune uso del favellare. Ma, non contento di questa regola generale, discende alla particolare, additandoci quali sieno, e dice cosi: tori 8è rd JioioOvTa tò xvpiov xaì p.£raqx>eà xai xóap,05, che vuol dire: « e le voci che questo fanno sono le proprie, le metaforiche e le ornate ». Quinci si può vedere con quanto fondamento parlin gli oppositori, i quali accusano il parlar figurato, che non è altro che ’l metaforico; accusano gli ornamenti, che, secondo il filosofo, sono le prin¬ cipali vertù del poeta e del poema drammatico. Quanto agli ornamenti lirici, se si trovasse maestro di ritorica o di poetica, che insegnasse quali sieno i particolari ornamenti del lirico e quali quei del drammatico, a loro sarei ricorso, e le leggi pren¬ dendone, con assai men di parole avrei condotta la mia difesa. Ma, poiché questi mi mancano, a’ poeti stessi mi volgerò. E, cominciando da’ greci e lasciando da parte, per non mischiar le cose sacre con le profane, la davidica poesia, ch’avanza,


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per mio giudicio, quanti poemi lirici furon mai, gli truovo in due differenze, l’una turgida, grande, nervosa, concitata, piena di maestà, e questa è quella di Pindaro, e forse fu di Stesicoro; l’altra tenera, delicata, placida, piena di venustà, piena di leggia¬ dria, e questa è quella d’Anacreonte; e, si come la grandezza pin¬ darica ebbe tra i latini Orazio che l’imitò, cosi non mi so ben risolvere chi debbia essere parallelo d’Anacreonte, se non per avventura Catullo, che ’n tutto non mi par simile, ma neanche tanto diverso, che non si debbia porre nella classe de’delicati. E, quantunque si possa dire che queste due differenze nascano dalla necessità delle materie diverse, avendo Pindaro cantate le vittorie d’uomini grandi, e quel buon vecchio d’Anacreonte gli amori, io parlo nondimeno di quella diversità eli’è negli stili, quasi propria di ciascun genio, si come disse Aristotile altresì, che le diverse inclinazioni de' facitori, alcune alle cose grandi e alcune alle basse, cagionarono i due poemi tragico e comico. E porto ferma openione che, se ’l placido Ana¬ creonte avesse cantate Tarmi e ’l gran Pindaro gli amori, l’uno teneramente avrebbe cantato Tarmi e l’altro gravemente gli amori. E che sia vero, leggasi 1 'Argonautica di Catullo: avvengaché sia pur epica poesia, non può egli dissimulare in essa la sua naturale ed insita tenerezza. Leggasi per Io contrario là dove Orazio parla d’amore: non s’ammollisce mai tanto, che si scordi d’essere Orazio, ed è in questo molto simile al gran Virgilio. Videro, com’ io credo, que’ primi rimatori di nostra lingua la differenza di questi lirici stili; ma essi, o che si diffi¬ dassero di poter giugnere alla grandezza dell’una, o che pure men la prezzassero, qualunque la cagion se ne fosse, certa cosa è che la dolcezza dell’altra più volentieri abbracciarono. II che si vede assai chiaro nel Canzoniere del Petrarca, che prencipe fu di tutti, perciocché egli amò più tosto la tenerezza dell’en¬ decasillabo che il nervo del ditirambo. E, benché alcuna volta s’innalzi, è nondimeno in quell’altezza si molle e si delicato, che gli avi nostri, ne’ quali dopo la barbarie di molti secoli cominciò a rinverdire lo studio della toscana favella, credettero fermamente ch’ella non fusse di sua natura bastevole a produrre


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altro numero che quel tenero e molle catulliano. Quando Gio¬ vanni della Casa, mirabile uomo cosi nell’una come nell’altra lirica poesia, s’avvide troppo bene che questo luogo era tra’ nostri lirici ancora intatto, e’ fu primiero a concepire nell’animo e nell’orecchio il numero oraziano, insegnando di sostenerlo, di dargli nervo, di rompere a tempo, di portare periodi, di fare scelta di parole, d’aggiunti e di traslati nobili e pieni di maestà. Ora, stante la diversità di questi duo stili, se si parla del grande, dico esser cosa falsissima che tali nel Pastor fido si trovino gli ornamenti, si come quélli che, per esser nervosi, non convengono al verisimile di chi parla, ma sono propri o di chi loda o di chi celebra o di chi, rapito da gran furore, ha sol per fine l’amplificare, l’illustrare e portare al ciel quel soggetto di cui si tratta. Nel Pastor fido il numero non è turgido, non è stre¬ pitoso, non ditirambico. I suoi periodi per lo più non son lunghi, non concisi, non intralciati, non duri, non malagevoli da essere intesi, se molte volte non si rileggono. I suoi traslati son presi da luoghi significanti, da luoghi non lontani, da luoghi propri ; la sua favella è pura ma non abbietta, propria ma non vol¬ gare, figurata non enigmatica, leggiadra non affettata, sostenuta non gonfia, tenera non languente, e tale, per concludere in una sola parola, che, si come non è lontana dal parlare ordi¬ nario, cosi non è vicina a quel della plebe; non tanto elaborata che rabbonisca la scena, né.si volgare che ’l teatro la vilipenda; ma si può insieme rappresentare senza fastidio e legger senza fatica. E questa è quella nobiltà di favella, che c’insegnò, se io non m’inganno, Aristotile, la qual, essendo fuor dell’uso co¬ mune, in quanto s’allontana dal proprio, acquista del pelle¬ grino. e ’n quanto s’accosta all’uso comune, diventa propria. E, si come il musaico è opera di stilo e par di pennello, cosi una tal favella, che sembra a chi la legge si piana, è tuttavia malagevole fuor di modo; ma la difficultà è tutta posta nel farla tale, che non sia malagevole a chi la legge: la fatica è pur del poeta, il quale pena perché chi legge non abbia pena, e que’ poemi, che non hanno questa vertu, il vero fine dell’arte, secondo che a me ne pare, nonconseguiscono. Ma, per tornare a proposito,


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non si dice che ’l Pastorfido non abbia degli ornamenti lirici, se del numero, dello stile, de’ traslati e delle voci simili a quella del Petrarca e de’ seguaci di lui s’intende; ed è tanto lontano che que¬ sto giudichi errore, che anzi errore giudicherei se altramente si fosse fatto, dovendo esser l’idea di lui il favellare con purità che sia nobile, proprio stile della drammatica poesia. Ma forse non si vorrebbon tante vivezze, tanti spiriti, tante rime. I quali or¬ namenti non converrebbono a poema tragico e comico, impe¬ rocché sarebbono fuori del verisimile, in questa guisa non fa¬ vellandosi tra le mura della città, e, se cosi parlassero i cittadini, sarebbono verisimili. Facciasi dunque la conseguenza che ci corre da sé: quegli ornamenti son verisimili in quel poema, dunque son tollerabili. Il Pastor fido non è fatto in Arcadia? Or non è maraviglia se i pastori d’Arcadia, massimamente nobili, abbellivano di vaghezze poetiche i loro ragionamenti, essendo essi, più di tutte l’altre nazioni, amicissimi delle muse. Per questo disse Virgilio:

Ambo fiorentes aetatibus, Arcades ambo, et cantare pares et respondere parati;

e molto più chiaramente in un altro luogo:

« 

— ... Cantabitis, Arcades, — inquit, monti bus haec vestris, soli cantare periti Arcades. —

Ma, oltre il testimonio di Virgilio, che tanto vale, veggasi quello che ne dice Polibio nel quarto libro delle sue dottis¬ sime Storie , luogo in questo proposito molto bello: « Che tutti gli arcadi eran poeti, che ’l principale studio, il principale esercizio loro era quel della musica, che l’apparavano da fanciulli, che le leggi a ciò fare li costringevano; che i cori de’ lor fanciulli s’avvezzavano a celebrar col canto le lodi de’ loro iddii; che ’n questa professione ebbero per maestri i più famosi musici della Grecia; che tutta e ne’ canti e ne’ versi la vita loro, la loro industria spendevano, talché il saper poco dell’altre cose in colui, che buono musico fusse, non era bia¬ simo alcuno, parendo cosa quasi impossibile che quello non si



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sapesse che tutti universalmente apprendevano, e negassesi di sapere quello che ’l non sapere si riputava vergogna». E però, chi vorrà dubitare che non sia verisimile che persone d’una tal vita, d’un tale studio non avessero già contratto un abito cosi stabile di favellar poetico, figurato e leggiadro, che quanto loro usciva di bocca, o in pubblico o in privato, fosse favella piena di numeri e di vaghezza? in quella guisa che di se stesso diceva Ovidio:

Quicquid conabar dicere, versus erat.

Ciò che io voleva dir, sonava in versi.

Chi vorrà dire che gente avvezza a non discorrere, a non pensare, a non esercitar mai altro che nobilissimi canti e leg¬ giadrissime poesie, quando per lor diletto, quando per obbligo, quando per fin di onore, quando per zelo di religione, non fa¬ vellassero, più di quello che dir si possa, altamente e spiritosa¬ mente, ogni volta che loro veniva alcuna grande occasione di farlo, si come quella del Pastor fido , o di pregare o di muovere o di persuadere o di amplificare o d’esprimere alcuno di quegli affetti, che sono si frequenti e si propri delle sceniche poesie? Che se Teocrito e Virgilio fecero alcuna volta i bifolchi fuor del costume loro si nobilmente discorrere, perché non sarà lecito a noi di fare ornatamente parlare i sacerdoti e gli eroi, la cui professione, e per costume e per legge, non era altro che musica e poesia? E, si come nella commedia i motti e le facezie son verisimili non per altro che per essere in bocca de’ cittadini, i quali sono in si fatti scherzi abituati per modo che, quantunque fare il volesseno, non potrebbono rimanersene; cosi nel Pastor fido quelle vivezze, quegli ornamenti che « lirici » sono detti, non repugnano al verisimile (parlo del verisimile non retorico, ma poetico), essendo proprissimi di coloro che cosi parlano, né altramenti parlar saprebbono. E chi non vede che le si fatte vaghezze sono i sali di quel poema, al quale, per non essere puro comico, non si richiede l’uso de’ ridicoli si frequente, ma in vece loro vi s’adopran gli spiriti, le vaghezze e gli scherzi, che non sono, come s’è detto, fuori del verisimile, e altrettanto,


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e forse più, dilettano gli ascoltanti, a’ quali oggi non si può spegner se non col vin piccante la sete?

Ma fin qui co* precetti dell’arte aristotelica in generale ab- biam provato che, quantunque si concedesse nella Poetica di Aristotile non trovarsi particolar poema simile al tragicomico, non per tanto, essendo egli fabbricato con quelle regole stesse della natura, con le quali il filosofo ha fondati gli altri poemi, non si dé’ dire che sia fantastica poesia, confermandosi ciò con gli esempli e della Commedia di Dante e de’ Trionfi del Petrarca e de’ romanzi de’ nostri tempi, che tutte son nuove forme di poetare, derivanti dal fonte della natura poetica inse¬ gnataci dal filosofo. Resta or che si pruovi, per non lasciare addietro alcuna cosa spettante alla perfezione di tal poema, che la poesia mista di parti tragiche e comiche non solo è fatta con le regole d’Aristotile universali, ma ch’ella ad una delle spezie particolari mentovate da lui è tanto simile, che la tragi- commedia si può chiamare di lui figliuola legittima, si come abbiam provato eh’è naturale.

Primieramente non ha alcun dubbio che le persone fanno la favola. Quando dunque si sarà veduto che Aristotile abbia nell’ordine delle buone tragedie posta la favola ch’egli chiama « di doppia costituzione », composta di persone parte tragiche e parte comiche, crederò che l’assunto bastevolmente sarà pro¬ vato. Or io prendo duo testi nella Poetica, tanto chiari che non hanno difficoltà. Il primo è là dove, esaminando il filosofo le dif¬ ferenze poetiche, cosi dice: ’Ev return àè rij 8iacpo()(j xaì f| rpayaiSia jtqò; ttjv xcojup8iav 8fe<m)xsv, f| (lèv yùp yelgovc, rj 8è fteXiioug pijieìcrOm PouXexai, che, trasportato in nostra favella, vuol dir cosi : « Nella medesima differenza è anche la tragedia con la com¬ media : questa vuole imitare i peggiori e quella i migliori ».

Il medesimo, e nel secondo capitolo, favellando della com¬ media, e nel dodicesimo, ragionando della tragedia, costante- mente ci raffermò. Se dunque la specifica differenza di questi duo poemi sta nelle persone imitate, non ha alcun dubbio che chiunque penserà di comporre poema che perfettamente tragico sia, si guarderà d’imitare persona vile, e per lo contrario il


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facitore di pura favola comica s’asterrà d’imitare persone grandi. Ma qui bisogna levare un dubbio, dalla risoluzione del quale risulterà la chiarezza del vero che noi cerchiamo. Il dubbio è questo: che ci sono tragedie, le quali a persone vilissime danno luogo, si come ne\V Edipo a que’ duo pastori, che sono si princi¬ pali; in alcune altre a’ servi e serve, che per necessità s’in¬ troducono. Come saranno elle tragedie pure, se danno luogo a’ peggiori, che sono propri della commedia? Rispondo che le persone vili non s’introducono quivi per imitare i costumi loro, ma perché servano all'opere de’ migliori che si prendono ad imitare, come sarebbe a dire: i duo citati pastori ne\YEdipo tiranno non furono introdotti acciocché in quella favola alcuna cosa facessero appartenente a vita e a traffico pastorale, onde si possa elicere il fine della commedia, ma solo perch’essi riferissero il nascimento d’Edipo, per farne poscia nascere quel si maraviglioso riconoscimento. E però nel fin della favola non s’attende di loro alcuno esito, o fortunato o infelice. I servi parimente e serve dell'altre favole tragiche non fanno da sé azione alcuna da imitare i costumi loro servili, ma quivi stanno per dar esecuzione ad alcuna cosa necessaria a’ padroni, e, quella fatta, non appariscono più, e, nel farla, favellano parcamente e con riguardo grandissimo. Il che sia detto de’ servi vili, ché quanto a que’ che consigliano, e le nudrici che confortano, e l'al¬ tre tali persone graduate, mature, senatori, capitani e altri di questa sorte, non si deono riputare persone vili, ancorché ser¬ vano, essendo molto verisimile e poco meno che necessario che gli intimi servidori de’ gran personaggi e de’ segreti loro partecipi non sieno uomini popolari e della feccia del volgo: re¬ gola che, secondo il diritto della natura e della ragione, non dé’ fallire; ma molte volte fallisce per corrotto gusto d’alcuni, che aman di avere appresso più tosto esecutori di quel che piace che ministri di quel che lice. Non sono dunque i servidori dime¬ stici di que’ principi, che ’n poema tragico s’introducono, da essere annoverati tra le persone abbiette e volgari. Con tutto ciò, nell’esito della favola niun conto si tien di loro, come nella commedia si fa, nella quale sarebbe vizio se Sosia fosse contento


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e Davo nel pistrino si macerasse. Dopo la risoluzione del dubbio, torno al proposito e dico che da una dottrina recatavi d'Aristotile e confermata da molte altre del medesimo filosofo indubitata regola si raccoglie: che le persone migliori sono proprie della tragedia e le peggiori della commedia. Se dunque per un’altra autorità del medesimo proverò ch’egli die’ luogo a quelle favole, nelle quali non solamente i migliori si mesco¬ lali co’ peggiori, ma essi sono nell’azione cosi ben principali come i migliori, e dell’esito loro altrettanta cura si tiene quanta de’ personaggi migliori, non sarà chiara cosa e senza difficoltà che ’l poema misto di parti tragiche e comiche si dé’ dire legittima d’Aristotile poesia? Nell’undecimo capo della Poe¬ tica (e questo sarà il secondo luogo da me proposto), volen¬ doci il filosofo ammaestrare in qual maniera si possa lodevol¬ mente comporre tragica favola, e per questo dandoci i gradi stabiliti con la ragione delle più tragiche e delle meno, delle più e delle meno perfette, dice cosi: Aevrépa 6’f| jtQtóxrj tayo^évr) imo xtvtòv ècrciv ai'crtacnq tj 8lt7.t|v te xrjv avaxaoiv ìfyovaa. xafiwteQ f| ’OSvaaeia, xaì xeÀeuxtòaa è% èvavxfa g totg PfÀti'ooi xaì. xei'qooiv. Aoxeì 8è elvai rcpcox-r] 8ià xj'|v xcùv ■OEaxQcov àafiÉVEiav àxota>v8où<n y ùq ol aoiT]Tai xax’ eù^ìiv Jtoioàvxeg xoìg 8eaxaig. v Eaxiv 8è ovx ctvTTj arcò xt>aya)8iug f|8avf), ù/.Àù jaùààov xfjg xco(.uo8iac olxeia. ’Exeì yàp av ol è'x'fii.crTOi <uaiv èv xài pvfiq), olov ’OQÉaxrjg xaì Aiyiaftog, <jhXoi yevófxevoi éaì xeÀeuxfjg é|épxovxai xaì dao'dvr|0xei. où5eìg va:’ ox>8evóg. Cioè: « La seconda poi, che primiera chiamano alcuni, è quella composizione, la quale è fatta di doppia costituzione, si come l'Odissea. Il fin della quale termina oppositamente alle persone migliori e peggiori. Ma ella pare che tenga il primo luogo per la ’mperizia degli spettatori, perciocché i poeti van loro appresso e studian di compiacergli. Non è cotesto però il diletto proprio della tragedia, ma più tosto della commedia, conciosiacosaché quivi, se nella favola alcuni fossero stati ne¬ micissimi, come Oreste ed Egisto, escono fatti amici nel fine, né l’uno vien ucciso dall’altro».

Da questo luogo dunque si vede e, secondo la dottrina ari¬ stotelica, si raccoglie che due son le tragedie, l’una, semplice,


G. B. Guarini.


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che contiene personaggi migliori, e della loro felicità e infeli¬ cità si rappresenta un esito solo; l’altra, mista di migliori e peggiori, che ha duo fini, l’un felice e l’altro infelice; le quali paragonando insieme, il filosofo nel primo grado la semplice e nel secondo alluoga la mista, né ciò per altro che per aver il diletto comico, che non conviene in favola tragica. Or, se la favola doppia non fosse buona tragedia, l’avrebbe rifiutata, né per tale la nomerebbe; ma, questo non facendo, anzi ordi¬ nandola e assegnandole la sua sede e ’l suo luogo, è cosa chiara che per legittima la riceve, ancorché meno perfetta, e neces¬ sariamente la ’nclude nella classe delle tragedie. Il che quan¬ tunque sia per se stesso chiarissimo e non abbia bisogno di molta prova, approvandolo il senso solo, mi giova nondimeno di confermarlo con la dottrina del medesimo filosofo, il qual dice nel settimo della Fisica , s’io non erro, che le cose para¬ gonabili non vogliono aver tra loro equivocazione né differenza di spezie, si come, per esemplo, tra ’l bianco e ’l nero: quan¬ tunque sieno ammenduni sotto il medesimo genere de’ colori, nientedimeno, perciocché sono differenti di spezie, non si posson paragonare, essendo impertinentissima cosa l’andar cercando se ’l bianco sia più colorato che non è ’l nero; ma di due bian¬ chi qual sia più bianco e di due neri qual sia più nero, diritta- mente si dubita. Non altramenti si dovrà dire della tragedia doppia, la quale, se fosse equivoca e differente di spezie dalla tragedia semplice, non sarebbe con esso lei a verun modo paragonabile, e contra la sua dottrina averebbe proceduto Ari¬ stotile, avendola collocata in ordine con la semplice, e seco paragonandola e dal primo luogo levandola, postala nel se¬ condo. Se dunque alcuna favola non può esser seconda, in ordine delle tragedie, che non sia della medesima spezie, né può esser della medesima spezie, che non sia d’Aristotile, e se le persone migliori son proprie della tragedia e le peggiori della commedia, e a queste non potrebbe la favola di doppia costituzione dare fini diversi, a’ buoni buono e a’ cattivi cat¬ tivo, s’ella non fusse mista d’ammendue loro, conchiudesi che la favola mista di parti tragiche e comiche sia posta dal filosofo


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nel secondo luogo delle tragedie, e ’n conseguenza si debbia chiamar da lui legittima poesia, non approvata come perfetta, ma ricevuta come tragedia.

Ma forse potrebbe dirsi che la favola di doppia costituzione, a cui diede il secondo luogo Aristotile, non fosse simile al misto della poesia tragicomica, conciosiacosaché in questa si truovi il riso, che in quella non può aver luogo, altrainenti non sarebbe tragedia, argomentando cosi : concedo che ’l misto d’Aristotile sia composto di parti tragiche e comiche, ma nego che abbia gli affetti tragici accompagnati col riso. Al quale obbietto rispondo che la tragicommedia non ha gli affetti tragici accompagnati col riso; può bene avere alcune parti che sono atte a muoverli, ma non a purgarli, né tragici dir si possono, se non purgano; e, se s’addimandasse se questi affetti sarebbono essi per sé bastevoli a purgare se ’l riso se ne levasse, direi di no, man¬ cando loro la compagnia deH’altre parti che possano star col riso, le quali senza dubbio non forano per se sole sufficienti a purgare gli affetti tragici. Laonde si conchiude che la tragi- commedia non è tragedia ridente, non essendo in verun modo tragedia. Tale sarebbe ella, se si togliesse o VEdipo o le Feriisse o alcun’altra delle perfette purganti, e con essa gli scherzi si mescolassero. Quanto poi alla diversità delle parti, confesso che nella doppia d'Aristotile non è il riso della favola tragi¬ comica; non concedo però che cosi Luna come l’altra non sia mista di parti tragiche e comiche: e questo basta per farla si¬ mile alla doppia legittima del filosofo, la quale non può ne¬ garsi che non sia fatta di parti tragiche e comiche, si perché v’entrano le persone peggiori, che sono comiche, e dell’esito loro si tien cura particolare, che non si fa dalle semplici e pure tragi¬ che, come anche perché il diletto comico v’interviene. E, come il misto d’Aristotile dà luogo a quella comica qualità, cli’è più conforme a tragica poesia, cosi ii misto di cui si parla, dà luogo a quello ch’è proprio della favola tragicomica. Non è perciò che l’uno e l’altro non sia poema misto di parti tragiche e comiche, come ho detto, e non vogli introdurre il diletto comico, quella d’Aristotile per temperare, e questa del Pastor fido per distrug-


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gere affatto gli affetti tragici. E però l’una col dar buon fine a’ migliori e luogo principale a’ peggiori, l’altra col riso temperato e modesto fa le sue mescolanze di parti tragiche e comiche. E, come il riso non converrebbe alla doppia costituzione, con- ciosiacosaché, dov’egli è, non possa stare tragica forma, cosi il gastigo, che nella doppia a’ malfattori si dà, non conviene alla poesia tragicomica, nella quale, secondo ’l costume comico, i peggiori non si gastigano. Il che nasce, perciocché la doppia non vuole affatto corromper la forma tragica con quel tempe¬ ramento comico che riceve, si come nella tragicommedia in¬ terviene. Ha l’unae l’altra il pericolo e non la morte delle persone migliori; ma l’una tempera il terrore e la compassione per modo che purga poco; l’altra il risolve si fattamente che nulla purga: poiché, dove interviene il riso, non può esser terrore, e dove non è terrore, non può purgarsi il terrore, e dove non si purga il terrore, non può esser tragica forma. Ma, perciocché nella doppia costituzione interviene il diletto comico, e ciò conforme alla dottrina del buon maestro, potrebbe altri con gran ragione volere intendere come questo diletto si faccia in lei. Nasce, in poche parole, un cotal diletto dall’esito felice delle persone mi¬ gliori. Ma bisogna avvertire che cotesto non è assolutamente diletto comico per cagione dell’altro fine della medesima dop¬ pia, che dà gastigo a' peggiori, conciosiacosaché la commedia per ordinario ami eziandio di dare a’ suoi peggiori prospero fine; ma è comico a paragone del tragico tragichissimo, pro¬ cedente da un solo funesto fine della persona migliore. Ciò si raccoglie dalle parole chiarissime del filosofo, il quale dice cosi: « eativ Òè oùx avrr| à.xò TpayipStas fjSovfj, à/.Àù pàÀ/.ov rijs xa) pepò toc; otxeia. Cioè: « ma quel diletto non è della tragedia, ma è più tosto proprio della commedia ».

Disse « più tosto », non « assolutamente », quasi volesse dire: « non è in tutto diletto comico, ma sente più del comico che del tragico ». Ed hassi ancor da notare che, quando dice tpayaióiag, intende della perfetta, che da lui « tragichissima » vien chiamata, imperocché il fin lieto può essere anche della tragedia meno perfetta. Come, dunque, potrebbe qui replicarsi,


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« sarà egli proprio della commedia », se s’accomuna ancora con la tragedia, la quale, col testimonio dello stesso Aristotile e ile’ migliori tragici antichi, può condursi a fin lieto, senza per¬ dere il titolo di « tragedia »? La risposta non sarà malagevole. 11 termine di «proprio», si come insegna Porfirio, in molti modi prender si può. Qui « proprio » è del secondo significato, che conviene a tutta, ma non alla sola spezie, si come è proprio dell’uomo l’aver duo piè, ma non è tanto proprio della sua spezie, che non convenga ancora ad un’altra. Nella medesima guisa il fin lieto è proprio d’ogni commedia, ma non tanto però che anche la tragedia non se ne serva. Ma hassi bene a sapere che la letizia del fine tragico è molto differente da quella del fine comico. Al tragico sembra d’essere lieto assai, se la persona, ch’era infelice, fugge il pericolo soprastante, contento del nudo fatto e del solo rivolgimento dall’avversa alla seconda fortuna. Né allegrezza né riso né giubilo v’interviene. E ciò non tanto per servare il decoro della tragica gravità, quanto per corromper meno che sia possibile, con quell’esito fortunato, e l’affetto e l’effetto del terrore e della commiserazione, che sono, come abbiam detto, qualità necessarie in ogni grado di trage¬ dia, per modo che, dove elle non sono, poema tragico non si truova. Ma nel fin comico la letizia non si contenta di star ne’ termini del successo e rivolgimento felice, se ’n tutti i modi possibili non l’esaggera, se tutti non fa contenti e se, ridendo e scherzando, e per gli occhi e per le lingue quella lor con¬ tentezza, quel loro giubilo non trabocca; il che, oltra alla ra¬ gione, che ce lo ’nsegna, può chiaramente vedersi in atto nelle favole degli antichi e approvati scrittori. Potrebbesi eziandio con molta ragione voler intendere che differenza fosse fra la tragedia di lieto fine e quella di doppia costituzione. Grandis¬ sima veramente. Nella semplice un solo fine s’attende, e nella doppia se n’attendono duo. In quella non s’introducono, se non per accidente, i peggiori, e del fin loro non si tiene alcun conto. In questa sono i peggiori non meno principali di quel che sieno i migliori. E, quanto all’esito, la medesima cura, che degli uni si tiene, si tiene indifferentemente degli altri; il che


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toglie molto di forza a quel terrore che v’interviene. E pero degnamente Aristotile la ripose nel secondo grado delle trage¬ die. Per questo il Pastorfido non fu fatto nell’altre parti, come è nell’esser misto, simile a quella. E, benché con buona co¬ scienza, per la gran somiglianza che ha l’una con l’altra, si fosse potuto, alcune cose mutandone, darle titolo di « tragedia», fu però assai meglio ch’egli avesse il primo luogo nelle tragi¬ commedie che ’l secondo nelle tragedie, e che fosse una favola in genere tragicomico perfettissima, quantunque da meno re¬ putata delle tragedie, più tosto che una tragedia degenerante e per non eccellente dal filosofo giudicata. Certa cosa è che la poesia tragicomica pecca meno nell’unità che non fa quella della doppia costituzione, imperocché la tragicommedia ha un fine solo proporzionato alle persone, cosi comiche come tragi¬ che, le quali in essa si rappresentano. Ma la doppia ne ha ben duo infra di loro differentissimi, l’un de’ quali né tragico né comico dir si può: non tragico, perciocché le persone sono peggiori; non comico, perciocché la morte, che v’interviene, a fine comico si disdice. È dunque uno il poema misto, percioc¬ ché in esso le parti tragiche e comiche non istanno per formare, come s’è detto, separata o tragedia o commedia, ma acciocché da loro risulti, come a pieno s’è dimostrato, un nodo solo, un solo scioglimento e un sol fine, principalissime parti dell'unità.

E, perché noi dicemmo fin da principio che ’n duo modi potea parere che’l Pastor fido pecchi nell’unità, l’uno per es¬ ser misto di parti tragiche e comiche, l’altro per essere inne¬ stato, poiché quanto al primo abbiamo assai ben discorso e provato ch’egli è poema legittimo, e non solo dell’arte poetica in generale, ma de’ precetti d’Aristotile in particolare, è ben che noi passiamo al secondo, e non fia forse inutile e dispia¬ cevole il trattato, si come senza fallo è ben nuovo e fin a qui. ch’io mi sappia, non ancor tócco da scrittore antico o mo¬ derno. Dirò primieramente qual cagione mosse Terenzio ad innestar le sue favole e poscia difenderono, a confusion di coloro che sono stati arditi di biasimarlo, e a consolazione di chi, seguendolo, ha scritto e di chi pensasse di scrivere in


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cotal genere. Vide quel grande ingegno, quel giudizioso poeta che la commedia semplice riusciva una cosa assai povera, e che, volendosi aiutare con gli episodi accidentali, o di lunghi ragionamenti o di persone, che i greci chiamano aQOTcmjcd, di¬ veniva insipida cosa, senza nervo, senz’arte, e noiosa molto, del qual difetto non è niun maggiore in tutta l’arte dramma¬ tica. E, perché gli episodi son necessari in tutte le favole, andò pensando di farli essenziali, non di parole o di persone fuori dell’argomento, ma d’opera e di soggetto, argomentando cosi, e bene: eli'essendo collocato il principale ufficio del poeta e diletto della poesia nel rappresentare i fatti e l'operazioni degli uomini, ninno episodio si poteva aggiungere alla commedia che fosse né più proprio né più dilettevole né più artificioso di quello che contiene non parole sole, ma fatti, conducendolo e annodandolo con tant’arte e giudicio, che non contamini l’unità del soggetto, e, quello che tutto ’mporta né può venir dagli altri episodi, annodasse maggiormente la favola, e ’n con¬ seguenza la rendesse molto più bella e più dilettevole. Queste fùr le cagioni, questa l'origine della commedia innestata. Il quale innesto a poema tragico non con vene, si come quello che dirittamente andrebbe a ferire le parti di lui più proprie e più necessarie. Resta ora che si difenda. E, per ciò fare, consi¬ dero quattro termini, che fanno l’orditura A&WAndria, prima, non solo in ordine, ma in bellezza, delle commedie terenziane: Panfilo il primo, Glicerio il secondo, Filomena il terzo e Ca¬ rino il quarto; l’amor di Panfilo e di Glicerio è il principale, e quello di Carino e Filomena è l’episodico ed innestato. Che cosi sia, non ha dubbio, a chi pure un poco intende l’arte drammatica, perciocché tutti i travagli nascono per cagione di Panfilo e di Glicerio. Nella persona di Glicerio cade il rico¬ noscimento, per cui la favola si raggira, e nelle nozze di lei ha felicissimo fine. Di quelle di Carino appena un poco nel fine, e ciò con arte mirabile, si motteggia. In modo che ’l princi- pal soggetto non è altro che l’amor di Panfilo e di Glicerio, non interrotto da quello di Carino, ma grandemente aiutato. E, se quel solo amore si fosse rappresentato, con la gravidezza


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di Glicerio e con la displicenza di Simone, padre di Panfilo, che insipida cosa sarebbe ella stata! Un giovane caduto in ira del padre per avere sposata una cattiva, la quale finalmente, trovandosi cittadina, per moglie gli si concede, che cosa è qui di negozio? Cosi la favola sarebbe ben riuscita patetica e mo¬ rata, ma non operante, ch'è tutto il nervo dell’arte scenica. Come si sarebbe ella annodata? Dallo sdegno del padre e dal- l’amor del figliuolo poteva ben succedere grandi affetti, ma non intrighi. II nodo vien dalle nozze che procura Simone, le quali pongono in gran maneggio e bisogno Panfilo per fuggirle, avendo la sua fede data a Glicerio di prenderla per isposa, e l’astuto Davo di porre in opera Parti sue. Se queste nozze adunque son tanto necessarie, che senza loro la favola sarebbe nulla o poco operante, come si poteva egli tralasciar la per¬ sona di Filomena? conciosiacosaché Panfilo non avrebbe cre¬ duto ai padre che quel di gli avesse voluto dare, cosi in un subito, moglie, se la moglie non fosse stata richiesta, nominata e da Panfilo conosciuta, e se le nozze non fossero sute un pezzo fa praticate. Ecco dunque la necessità del terzo termine. Or quella giovane, che doveva esser quel di la sposa e che per tale fu dichiarata nella casa del padre suo, aveva ella poi, per le nozze di Glicerio, a rimanere si mal contenta? doveva ella essere stata tutto quel di in concetto e speranza d’essere sposa, e poi restar sulle secche? Questa sarebbe stata una cosa troppo indiscreta e al poema comico sconvenevole, ogni volta che si fosse introdotta una persona, per annodare si necessaria e nello sciòrre tanto accessoria, che di lei niun conto nel finir della favola e nelle comuni allegrezze non si fosse tenuto. E però fu bisogno d’apprestarle lo sposo, il quale, perché fusse più caro e rendesse il fine della favola più giulivo e, quello che ’mporta più, per maggiormente intrigare e arricchir di nuovi accidenti sempre il soggetto, conveniva che fosse amante; ed ecco la necessità del quarto termine e del secondo amore. È dunque falso che l’azion di Carino e di Filomena non dipenda da quella di Panfilo e di Glicerio, e che la dipendenza non sia necessaria e ’n conseguenza ancor verisimile. Dalla difesa deU'Andria


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necessariamente procede quella del Paslor fido, nel quale il principal soggetto è quello di Mirtillo e d’Amarilli, che non s’annoderebbe, se non vi concorressero quelle di Corisca e di Silvio. Che altro è quella favola, se non l’amore d’uno infe¬ lice amante, col mezzo della fede maravigliosamente fatto felice? Tutti i personaggi, tutti gli episodi, tutti gli oracoli, tutte le pra¬ tiche, tutto ’l negozio al segno di Mirtillo vanno a ferire; tutte le linee di quella favola a quel punto sono indiritte. Chi è nel nodo altri che Mirtillo e Amarilli? Dalla prigionia della quale deriva tutto lo ’ntrigo e poscia lo scioglimento: la fede di Mir¬ tillo si manifesta, l’oracolo si dichiara, la favola si sviluppa e Mirtillo, d’infelicissimo amante, diventa sposo fortunatissimo. Se l’amor di Corisca (se quello « amore » chiamar si può) non fosse stato, non si sarebbe già mai condotta con l’amante Amarilli nella spelonca, e ’n conseguenza non sarebbe mai stata presa né condennata, né Mirtillo avrebbe occasione avuta di manifestar la sua fede, né si sarebbe interpretato l’oracolo, e, ’nsomma, la favola sarebbe stata un’altra cosa, un’altra faccia diversissima avrebbe avuta. Ma che bisognano più parole?

Aristotile ci lasciò il diritto e vero modo di servare e conoscere l’unità, componendo in modo la favola, che parte di lei alcuna non si possa né levare né trasportare, che tutta non si muova e tutta non si trasformi, e rendene la ragione: perciocché « quello, per lo cui essere o non essere non si fa manifesta mutazione del tutto, di quel tutto non può essere parte ». Precetto mirabilissimo e conforme alla dottrina del gran maestro, la quale applicandosi alla testura del Paslor fido, non so vedere qual parte si potesse in lui o trasporre o levare, che manifesta mutazione del suo tutto non cagionasse. Levane Silvio: dove sarà lo sposo fatale? Leva le instanti nozze: chi stringerà Mirtillo a favellare con Amarilli e Amarilli a fuggir quelle nozze? onde prenderà l'astuta Corisca occasion d’ingannarla e di tra¬ dirla? Leva Corisca: chi condurrà nella spelonca gli amanti, onde nasce tutto’l viluppo? Leva il satiro: chi darà indizio dell’adulterio? chi chiuderà la spelonca? chi farà prender gli amanti? Leva Montano: chi farà il sacrificio? Leva il sacrificio,


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leva Carino, leva Dameta: come farai la ricognizione? Leva Coridone: come potrà Corisca tesser lo ’nganno? L'altre parti d’Ergasto, di Lineo, di Lupino, del inesso, d’Uranio, son necessari o compagni o ministri de’ personaggi, senza i quali niuna favola o tragica o comica non può farsi. E, se pensassi di levar Titiro, non leveresti tu il decoro di quella vergine, la qual conviene che abbia padre, altrimenti chi l’avrebbe tenuta che non si fosse data a Mirtillo? chi l’avrebbe fatta giurare nelle nozze di Silvio, amando ella si grandemente Mirtillo? Resta Do- rinda, della quale dirò il medesimo che di Carino ho detto nel- VAndria. Non conveniva a fine comico che quel garzone per¬ severasse in quello abborrimento d’amore, e, dovendo amare, bisognava che fosse amato, né la durezza del suo cuore si potea rompere se non con accidenti di straordinaria pietà. Ecco neces¬ saria Dorinda, l’olTesa della quale non si poteva a bastanza ricom¬ pensare se non con quelle nozze, ch’ella al pari della sua vita disiderava. È dunque nel Pastor fido si fattamente innestata l’un’azion con l’altra, e con tanta necessità e verisimilitudine, che, s’egli è vero che la maraviglia ne’ poemi nasca dall’arric- chire il soggetto con episodi che l’unità non offendano, a me pare che ’l Pastor fido n’abbia gran parte, essendosi in lui con tanta esquisitezza osservato il precetto dell’unità che c’insegna il grande Aristotile. E, perché l’un per l’altro i contrari si manife¬ stano, darò un esempio di favola non una, che ci farà conoscere la finezza della innestata. Questa è 1 'Ecuba, tragedia nota d’Eu¬ ripide, nella qual chi non vede che sono duo soggetti tanto di¬ stinti, che per essi non solo le azioni, ma la favola stessa in due parti si può dividere, si che l’uno termina al mezzo e l’altro al fine? Che ha da fare Polissena sacrificata con Polidoro trovato ucciso? Levisi il sagrificio di quella vergine con tutto ’l resto di quel negozio: non si rimane tuttavia intera senz’alterazione di sorte alcuna la morte di Polidoro con la vendetta d’Ecuba sopra di Polinestore traditore? Levisi parimenti Polidoro tradito, Ecuba vendicantesi con gli occhi tratti e co’ figli uccisi di Po¬ linestore: in che scema, in che s’àltera la precedente azione di Polissena? non resta ella vittima, con tutti gli episc li e di


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Ulisse e del messo e degli altri che c’intervengono, senza una minima lesione o del primo o del secondo soggetto? Questa si, che può dirsi favola sgangherata e disciolta, nella quale niuna dipendenza, niuna necessità si truova ne’ duo soggetti, ch’ella ci rappresenta con tal disunione, che sono due finite tragedie infilzate l’una nell’altra, si che ciascuna separatamente conosce le parti sue e le potrebbe distinguere a voglia sua senza guastare i fatti dell’altra, a guisa d’un albergo fabbricato per due famiglie, che patisca non pure comoda, ma necessaria divisione. Cosi fatto non è già il Pastor fido , da cui s’una sola, e bene anche la minima, cameretta, cosi del principal soggetto come dell’innestato, si volesse levare, verrebbe tutta a cadere in disordine e in disconcio la favola. È dunque fal¬ sissimo che i duo soggetti le tolgano l’unità, anzi l’uno, per esser bene e artifiziosamente innestato, il rende tanto più bello nell’unità quanto egli ne riesce più vario, meglio annodato e meglio disciolto. Ma forse potrebbe altri voler difender 1 ’Ecuba, con dire che que’ soggetti s’annodano nella 'menzione, che hanno congiuntamente, di render quella matrona, con le mul- tiplicate sciagure, soggetto infelicissimo di tragedia. A che ri¬ spondo in due modi: l’uno, che ’l nodo vuol esser nell’azione e non nel fine, nella favola e non nell’esito, conciosiacosaché molti infortuni accaduti ad un uomo solo si potrebbono ratinare in una sola tragedia, e cosi nel contesto dell’epopea si verrebbe a cadere, che di far ci vieta Aristotile e la ragione. L’altro è ch’io nego che que’ duo soggetti s’annodino nel fine, anzi difendo che sieno ripugnantissimi. In quello di Polissena, il quale è tutto tragico, l’esito è quanto dir si possa orribile e miserabile a quella infelicissima madre; l’altro è ben funesto, ma però consolato con la vendetta ch’ella ne fa, per modo che ’l secondo scema gran parte di quell’afFetto tragico, che conceputo fu nel primiero, e per esso la favola ne riesce non solo più disunita, ma meno tragica.

Ora, avendo noi assai bene e sufficientemente provato che il Pastor fido , e ’n quanto favola mista di parti tragiche e comiche, e ’n quanto innestata di duo soggetti alla terenziana,


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è poema ragionevole, uno, proporzionato, capace d’ogni arti¬ ficio ch’a ben tessuta favola s’appartenga, e finalmente figliuolo naturale dell’arte e legittimo d’Aristotile, resta che noi pas¬ siamo a dichiarare il termine e la parola di « pastorale », che si legge in fronte dell’opera, la quale, o non bene intesa o poco sin¬ ceramente interpretata, ad alcuni fu cagione di scandalo e a’ suoi difensori di molte lode, avendo essi occasione avuta e campo assai largo di recare intorno alla vita, nobiltà e poesia pastorale si nuove cose e si curiose, che ’1 tralasciarle fora, a questa no¬ stra fatica e al fine che noi abbiamo, troppo gran fallo. E, per intenderle meglio, bassi a sapere che gli antichi pastori non furono, in quel primiero secolo che i poeti chiamaron « d’oro », con quella differenza distinti dalle persone di conto, che oggi sono i villani da’ cittadini, perciocché tutti erano ben pastori, ma, come avvien dei gradi nelle città, altri grandi, altri bassi, altri poveri, altri ricchi e, per parlare all’aristotelica, altri mi¬ gliori e altri peggiori. Né tutti insieme servivano a’ cittadini, ché ’n quel tempo ancor non erano le città, ma si reggevan da sé, e chi valeva per avventura più, comandava; ma non era però, quello stesso che comandava, niente meno pastore di quel che fosse qualunque altro, il quale ubbidisse; né era scon¬ venevole a dire « il pastor eh’è padrone », « il pastore che regge gli altri »; né, perché fosse tale, si rimaneva d’esser pastore, si come nella milizia, perché altri o capitano o colonnello si nomi, non è però che soldato anch’egli non sia. E cosi in tutti gli ordini troverassi che l’eminenza del carico muta ben nome, ma non professione. Nella medesima guisa in que’ primi tempi la vita pastorale si dovea reggere: tutti pastori, ma di loro altri governavano e altri erano governati, altri pascean le pe¬ core e altri no. Ma si potrebbe forsi qui dire che il capitano non si noma «soldato », e io replico che né anche il capo de’ pastori si chiamava « pastore », ma « principe » o « sacerdote », secondo il modo de’ lor governi e uso della loro favella. E altra quistione è quella del nominarsi, altra quella dell’essere. Concederò che chi governa pastori, non si chiami «pastore», ma che non sia pastore, non è da dire, e molto meno che chiunque a pascer non


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conduce, non sia pastore, perciocché in due maniere il nome pastorale prender si può, o per l’uffizio o per la condizione. Quanto al primo, la proposizione è verissima che chi non pasce non è pastore; ma quanto alla seconda è falsa, conciosiacosaché chi comanda a pastori, può esser di condizione, se non d’uffi¬ cio, pastore. L’argomentar dal nome è quasi sempre opera vana. Ecco lo ’mperadore. Non fu egli nel tempo della romana re¬ pubblica dal comandare all’esercito cosi detto? il quale poi, per¬ duta la libertà di quel popolo, fu di signore e di monarca titolo glorioso, e oggi è passato alla sopranità d’ogni gran¬ dezza e ordine temporale. Or chi dicesse: — L’ufficio dello ’m¬ peradore fu nel suo nascimento di solo comandare all’esercito: dunque oggi chi attualmente non comanda all’esercito non è imperadore, — sarebbe egli ben detto? Non altramenti chi dirà: — I pastori furon cosi chiamati dal pascer gregge: dunque chi non le pasce, non è pastore, — argomenterà con poco giudicio, perciocché spesse volte i nomi si ritengono e non gli uffici. Può esser per avventura che nel primordio del mondo, pastoral¬ mente vivendo, gli uomini tutti pascessero indifferentemente le gregge; ma in progresso di tempo, avendo essi bisogno e di governo e di capo, è molto verisimile che tra lor pullulasse la forma e ’l nome d’alcun governo, e che quella, quantun¬ que assai semplicemente in quel rozzo secolo, fosse anch’ella onorata col preservarla dall’uso di quel sordido ministerio, onde poi ne seguisse che ’l pascer degli armenti restasse cura, par¬ lando all’aristotelica, de’ peggiori e ’l governar de’ migliori. E, perché tutti, e migliori e peggiori, altra vita né conoscevano né menavano che quella prima lor pastorale, il nome di « pa¬ store » indifferentemente ritennero. Dall’esser dunque pastore non si può separare l’essere archimandrita o, come furon gli antichi ebrei, patriarca o profeta o capitano o principe o sa¬ cerdote, perciocché il predicato di « pastorale » non significa al¬ cuno ufficio il quale ora s’eserciti e ora no, ma la condizione di quella vita, nella quale, come s’è detto, chiunque ha una cotal dignità, non la può separare dalla condizion della vita, per si fatta maniera che, a qualunque grado egli sia collocato


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o qualunque operazion egli si faccia, persona pastorale sempre sarà, si come Tesser capitano non isclude Tesser soldato. Or, se sia verisimile invenzione e cosa alla natura non repugnante il presupporre in fatti una condizione d’uomini tale, Aristotile in più d’un luogo de’ suoi Libri politici nel dimostra, e nel primo, dov’egli, favellando delle maniere ond’altri naturalmente procaccia il vitto, la vita de’ pastori ci assegna prima di tutte, e nel sesto, trattando egli delle repubbliche popolari, a quella de’ pastori dopo Tagricoltura concede il luogo. Che questa medesima sia poi nobile e capacissima d’ogni grado, ne fan chiarissimo testimonio le storie: tra’ latini Marco Varrone dice cosi : « De antiquis inlustrissimus quisque postor erat, ut ostendii et Graeca et Latina lingua et veteres poètae, qui alios vocanl jtoWaQvog, alios JtoXvpfiXous, alios JioXu|3oÙTaq ».

Ma, passando a cose maggiori, que’ tanto grandi e celebrati patriarchi e profeti del popolo ebreo, si cari a Dio, che furon degni di vederne il sembiante e d’udirne il suon della voce, a’ quali la divina provvidenza e bontà concedette il dominio di Terrasanta e promise del seme loro la salute del mondo e la vocazion delle genti, Abraam, Isac e Giacob, non furono essi e di nome e di vita veri pastori? Né, perché fussero ab¬ bondantissimi di tutti i beni della fortuna e possedesser molto paese, altro nome che di « pastori » non ebber mai, né dagli egizi in altro modo furon chiamati, quando essi vi passarono e vi divennero si potenti. Ma che diremo di quel divino e si famoso legislatore, Mosé? Non pasceva egli le pecore, quando a si grande uffizio fu chiamato da Dio? Che diremo del re David, di cui Dio disse di aver trovato un uomo secondo il cor suo? Si gran guerriero, si gran profeta, si gran re, si gran savio, si gran poeta, non pasceva egli gli armenti, quando fu assunto al regno? Ma udiamo quello che dello stato e della di¬ gnità pastorale altamente parla P'ilone, sapientissimo ebreo, nella vita del prencipe Gioseffo (né qui trattandosi di termini dottorali, mi curerò di recarlo nella sua lingua): « Coepit enim — dice egli — in hoc genere versori atinos na/us circi ter seplemdecim praefectus curandis gre gibus, quae disciplina cum civili convenit,


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et hoc est, opinor, cur poètae reges vocant 'populorum pastores\ Nam qui summus est in arte pecuaria, facile bonus rex evadit, pul- cherrimo gregi hominum praepositus, approbata in minore negocio industria. Siquidem ut futuro imperatori necessaria sunt exercitia venatoria, sic admovendis ad curavi rcipublicae proprie pastoralis ars congruit, velati praeludium quoddam magistratuum ».

Il medesimo, e forse più espressamente, replica nella vita del gran Mosé: « Post eas nuptias praefuit gregibus ad princi- patum se praeparans. Nam pastoralis ars ad regnum est prae¬ ludium :, hoc est ad regimen hominum gregis mansuetissimi », e quel che séguita nel medesimo senso di sopra, che, per fuggir lun¬ ghezza, tralascio. Ma forse si potria dire che Filone fu ebreo e che magnificò la vita pastorale, perciocché i principali del suo popolo furon pastori. E però ascoltiamo il medesimo da un famosissimo greco e teologo cristiano, Basilio il grande, nelle lodi di Marnante martire: « Qui primus Deo complacuit Abel, pastor fuit. Quis illins imitatori’ Moyses, magnus ille legi¬ slatori qui tentationem Pharaonis effugit, qui contubernaliurn in- sidias odio habuit, hic in monte Chorcb pastor fuit, et dum pavit, Deo collocutus est. Non litigans vidit angelum in rubo, sed pastor existens colloquio ilio coelesti dignus factus est. Quis post Moy- semf Iacob patriarcha; in pascendo patientiam prò verilate demon- strans, parva imagine totani suam vitam velut per characterem exprimens ac delinians, cui tradìt imìlationemf Davidi. David ab arte pastorali pervenil ad regnum. Sorores enim sunt ars pascendi ac regnando, in quantum altera brutorum, altera ratione praeditorum praefecturam sibi concreditam habet », e quel che séguita, esaltando nella persona di Gesù Cristo nostro signore e il nome e la professione di buon pastore. Ma, per tornar da capo, ho provato con l’autorità di tanti scrittori illustri quel che dianzi fu da me detto: la vita pastorale ne’ primordi del mondo essere stata una condizione d’uomini da per sé capa¬ cissima di persone illustrissime; che sarà fondamento e lume delle cose che ’n tal materia mi convien dire.

Hassi dunque a sapere che la poesia pastorale, benché, ’n quanto alle persone introdotte, riconosca la sua primiera origine


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e dall’egloga e dalla satira degli antichi, nulladimeno, quanto alla forma e ordine, può chiamarsi cosa moderna, essendo che non si truovi appresso l’antichità di tal favola alcuno esempio greco o latino. Il primo de’ moderni, che felicemente ardisse di farlo, fu Agostin de’ Beccari, onorato cittadin di Ferrara, da cui solo dé’ riconoscere il mondo la bella invenzione di tal poema. Avendo dunque costui veduto, e certo con gran giu¬ dizio, che l’egloga non è altro che un breve, e, come suona la voce, scelto ragionamento di duo pastori, in niuna altra cosa differente da quella scena che i latini chiaman « diverbio », se non nell’essere unita, indipendente, col suo principio e fine in se stessa, e veggendo ancor che Teocrito, famosissimo greco e maestro del gran Virgilio, uscendo dell’ordinario numero di coloro che parlano in cosi fatti componimenti, una ne fece, non sol di molte persone, ma di soggetto ancor più drammatico dell’usato e di lunghezza più dell’altre notabile, con cinque interlocutori, de’ quali alcuni parlano prima senza lo ’ntervento degli altri, e gli altri poi sopravvengono e fanno la parte loro, e finalmente con quella distinzione e di tempi e di luoghi e di fatti eh’è propria del poema drammatico; e più oltre ancora, considerando quel che dice Aristotile, che la tragica e la co¬ mica poesia da molto debole nascimento crebbono a quell’am¬ piezza che ora noi le veggiamo, e che la tragedia fu da prin¬ cipio cosa molto imperfetta e che pati diverse alterazioni prima che si posasse alla grandezza dov’ella è, che non aveva se non un solo istrione e che ’l secondo le fu poi dato da Eschilo, e che Sofocle finalmente con l’apparato della scena e dell’altre parti, ch’esso v’aggiunse, la fe’ poi grande e magnifica, e che il verso le fu mutato e che di saltatoria divenne grave; il che fu detto ancora da Orazio nella sua poetica pistola e ’n parte da Diogene Laerzio nella V’ita di Platone , il qual dice che da principio il poema tragico si faceva col coro solo e che Tespi fu il primo che gli diede un solo istrione; esaminando, dico, tutte queste cose, il Beccari avvisò di potere tanto più conve¬ nevolmente far lo stesso anch’egli dell’egloga, quant’ella ha, senza dubbio, con la pastorale assai maggiore conformità che


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non ebbero la commedia e la tragedia co’ debolissimi lor prin¬ cipi, che niente altro, per testimonio del medesimo Aristotile, furono che rozzi e, secondo che la ragione ci persuade, assai brevi improvvisamenti. E cosi, occupando, non senza sua molta lode, questo bel luogo, da penna greca o latina non ancor tócco; e regolando molti pastorali ragionamenti sotto una sola forma di drammatica favola, e distinguendola in atti, col suo principio, mezzo e fine sufficiente e proporzionato, col suo nodo, col suo rivolgimento, col suo decoro e con l’altre parti sue necessarie, se non il coro, che fu poi giunta del Tasso, ne fe’ nascere una commedia, se non in quanto le persone introdotte sono pastori, e per questo la chiamò « favola pastorale ». Talché, si come la vita cittadina ha il suo dramma, che si chiama « commedia », cosi, per opera del Beccari, la vita pastorale anch’essa ha il suo, che si chiama pur « pastorale », ancorché in forma comica sia composto. La invenzione è poi stata con tanto applauso ricevuta dal mondo e si felicemente autenticata in Parnaso, che i primi trovatori del nostro secolo, e spezialmente il sopranominato Torquato Tasso, il qual non può negare d’essere stato nel suo bellissimo Aminta iniitator del Beccari, si son recati a gran pregio non solo lo ’mpiegarvi l’opere loro, ma il conseguirne ancora, o sperarne almeno, sovrano onore e lode di poesia. Or questo titolo di « favola pastorale » non vuol dire altro che azione di quella sorte d’uomini che « pastori » sono chiamati. E, percioc¬ ché ogni azione drammatica bisogna che sia o comica o tragica o mista, il Sacrificio del Beccari non ha dubbio che ’n forma di commedia non sia tessuto, avendo le persone private, il riso, il nodo, lo scioglimento e ’l fine, eh’è tutto comico. Ma egli non la volle chiamar « commedia », prendendo il nome generico invece dello spezifico, e disse anzi « favola » che « commedia » per non usare impropriamente quel nome, il quale, avvengacché per la forma e per l’altre sue parti ottimamente le convenisse, nulladimeno, per esser fuori della città e non rappresentandosi cittadini, assai men propriamente deH’ordinario col titolo di « commedia » si sarebbe nomata. È poi corso questo aggiunto di


G. B. Guarini.


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« pastorale » e ha col tempo acquistato forza e significato di su- stantivo, talché quando si dice una « pastorale », senz'altra com¬ pagnia, s’intende « favola di pastori ». E cosi per tutto è oggi questo nome ricevuto e inteso, quand’egli è solo: « la pastorale del Beccari»,« la pastorale del Tasso». E cosi ancora di tutte l’al- tre, benché gli autori loro si sien serviti di quella voce per addiet- tivo, quando l’hanno accompagnata con « favola », che significa « qualità », e non per sustantivo significante azione distinta da quella favola. In due maniere dunque « pastorale » prender si può, o per aggiunto significante « qualità pastorale », o per quel sustantivo particolare che da’ più oggi vien usurpato d’« azione e favola di pastori », quand’egli è posto da sé. Il « pastorale » nel Pastor fido non si dé’ prender per sustan¬ tivo significante favola separata dalla tragicommedia, ma per aggiunto di « tragicommedia», composta di pastorali persone a differenza di quelle che rappresentano cittadini. Conciosiaco- saché la voce « tragicommedia » ci dimostra la qualità della favola e la voce di « pastorale » quella delle persone che in essa si rappresentano, le quali, perciocché potevano essere cittadine, volle il poeta che si sapesse ch’eran pastori. E perciocché, di questi, altri son nobili e altri no, questi fanno la comica e quelli fanno la tragica, e ambo insieme la tragicomica, che viene a essere pastorale per le persone in essa rappresentate. Non sono dunque nel Pastor fido tre favole, una di persone private che fanno l’azion comica, l’altra di personaggi grandi che fanno la parte tragica, e la terza di pastori che fanno la pastorale; ma una favola sola di pastorali persone, mista di tragedia e commedia, ma tessuta comicamente, eh'è un sol poema. E ve¬ ramente chi è si stupido, che non vegga che, quando questa voce di « pastorale » s’accompagna o con « commedia » o con « tragedia » o con « tragicommedia », ella vuol dire favola di pa¬ stori in forma o comica o tragica o tragicomica, e non favola di cittadini e di pastori congiunta insieme? Perciocché, si come « tragicommedia » significa la qualità della favola, cosi la « pa¬ storale » ci addita quella delle persone, da che risulta un con¬ cetto solo di questo modo: azion di pastori, tessuta di parti


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tragiche e comiche miste insieme, e non tre azioni: l'una de’ privati; la seconda di persone illustri; e di pastori la terza, o azione che ’nsieme sia regia e privata e pastorale. Imperocché le parti regie, private e pastorali producono un sol soggetto, si come l’animal ragionevole, in vertu delle sue spezifiche dif ferenze, forma la sola natura umana, e non un animale e un uomo distinti di natura e poscia congiunti insieme. E, come l’animale non può avere la sussistenza (perdonimi orecchia schifa, ché cosi mi sforza a favellar la materia) se non nelle sue spezie, cosi il nome di « pastorale », parlando del sostan¬ tivo, non può sussistere se non in favola o comica o tragica o tragicomica. E però vanissima cosa sarebbe a dire: — tragicom¬ media pastorale sono due cose, — poiché la voce « pastorale » aggiunta con « tragicommedia » non si prende per sustantivo, ma per aggiunto, significante, come s’è detto, la qualità delle persone rappresentate, si come « favola pastorale », senza espri¬ mere o tragedia o commedia o tragicommedia, significa per forza una delle tre favole, non potendo ella salire in palco, essendo drammatica, se non calzata o di coturno o di socco o dell’uno e dell’altro insieme, come s’è detto. Ma forse po¬ trebbe altri volere intendere la cagione perché, se « favola pa¬ storale » a viva forza includa una delle tre forme, il Pastorfido non fu più tosto intitolato * favola pastorale », ma, lasciando il generico, si prese il nome spezifico, « tragicommedia » appel¬ landola. Ciò fu fatto per cagione di quell'equivoco che s’è detto, perciocché, essendo la voce «pastorale», quand’ella è posta per « favola », universalmente presa per azione comica di pastori, conciosiacosaché tutte quelle infino ad ora vedute in istampa di forma comica sien composte, con gran ragione si dubitò che quel termine si potesse prender per pastorale di forma comica sola, che sarebbe stato gran fallo, contenendosi in essa personaggi a poema comico ripugnanti. Onde fu buon conseglio a ritirarsi in sicuro, spezificando la sorte del poema in quella guisa che fece Flauto, il quale, volendo mescolare insieme que’ duo poemi e dubitando di non esser notato di avere in comica poesia frapposte persone grandi, trovò primiero


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il nome di «tragicommedia», che l’uno e l’altro comprende. E, se di nuovo fusse richiesto per qual cagione non fu più tosto fatta o commedia o tragedia semplice pastorale, direi che non si volle comporre commedia sola, acciocché il Pas(or fido avesse parte di nobiltà, onde gli animi nobili avessero quel diletto che alla natura loro più si confà. Non si volle altresì far tra¬ gedia, perché non s’ebbe fine di purgare il terrore e la com¬ passione, spettacolo oggidì a tutti non dilettevole e molto men necessario. E però, dall'una e dall'altra nobilissima spezie di drammatica poesia prendendosi quelle parti che sole possano dilettare, senza molestia, uomini e donne, nobili e popolari, intendenti e non intendenti, si fe’ quel misto, che latini e greci scrittori avevano prima fatto.

E qui fine abbia il discorso della poesia tragicomica con tutti i suoi emergenti più ragguardevoli, intrapreso da noi per soddisfare al curioso lettore d’intorno a quelle difficultà che po¬ tessero scaturire dalla mistura del Pastor fido. Del quale poiché si sono con tanta cura ventilate le parti, che sono a guisa di forme in lui, la ragion vuole che, seguendo anche in ciò lo stil d’Aristotile, non si lascino addietro quelle che sono « quanti¬ tative », per usare anche in questo il termine del filosofo, e servono all’atto pratico della scena, facendo di ciascuna sua parte a un certo modo l’anatomia, per iscoprire atto per atto l’artifizio di detta favola, acciò non restino privi né i lettori di quel diletto, né i drammatici di quel frutto, che dall’altrui fatiche si suol raccórre, e da questa massimamente, perciocché niun altro scrittore, ch’io mi ricordi, di qualsivoglia lingua o se¬ colo troverassi, che abbia con tanto studio esaminata e scoperta l’arte del tesser favola di drammatico genere. Dico pertanto che, non essendo altro il principal soggetto di questo dramma che un amante infelice per mezzo della sua fede maravigliosamente fatto felice, nel primo atto si narrano quelle cose che possano informar tanto avanti il teatro, che basti a generare in lui quella cognizion del soggetto che tolga confusione, e insieme gli rechi, col diletto presente, speranza ancor del futuro; ma tanto parcamente però, che non abbia a scoprire il fine o dia materia


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a chi ascolta d’antivedere, né pur immaginarsi giammai, qual esito sia per aver la favola, perciocché questo soverchio lume verrebbe a grandemente scemare la maraviglia, e ’n conseguenza il diletto; bisognando in ciò fare come avveduta e leggiadra don¬ na, la quale, per invaghir chi l’ama o la mira, scuopre sol tanta parte o del volto o del seno, che basti a dar saggio di sua bel¬ lezza, si che resti all’amante ovvero vagheggiatore assai più da vedere e disiderare per nudrimento ed ésca del disiderio. E, per¬ ché i poemi drammatici, come ci significa il nome stesso, consi¬ stono in tutto e per tutto nell’operare, e non, come l’epico, nel narrare, ed essendo l’operar movimento, la prima cosa, che dé’ mirare il drammatico nella favola, è quella urgente cagione che necessita tutte le parti all’opera ; e questa vuol esser la prima cosa che conosca l’ascoltatore, altramenti sarà confuso, che vuol dire incapace di ricevere tutto ’l frutto dell’opera ch’egli ascolta. E que’ poeti, che non intendono questo punto e quest’arte, cadono in gran disordini, e non è poi maraviglia se le favole loro non son gradite e non piacciono, mancando di quel latente artifizio, che ha, quasi catena, mirabil forza di rapire e tener l’animo di chi ascolta. Quel, che dunque nel Paslor fido dà il primo moto, è la pratica delle nozze di Silvio e d’Amarilli, le quali per annodar la favola hanno di duo grandi accidenti molto bisogno: l’uno è la necessità e l’altro la malagevolezza. La prima nasce dall’oracolo, che promette al congiungimento de’semidei quel fine delle miserie d’Arcadia tanto bramato; la quale necessità non può essere né maggior né più nobile, trattandosi della salute di tutta una provincia: particolare e qualità di gran forza per acquistare attenzione e produr nel teatro quel diletto e quella maraviglia che si richiede. La ma¬ lagevolezza poi è parte nella persona di Mirtillo, posciaché egli per le instantissime nozze d’Amarilli con Silvio è privo d’ogni speranza di poter mai più conseguire da quella ninfa corrispon¬ denza alcuna dell’amor suo; e parte nelle medesime nozze, per l’abborrimento di Silvio, eh’è nemico d’amore e ha dal mari¬ tarsi l’animo lontanissimo. Si come dunque senza le sopradette cose non s’annoderebbe la favola, cosi, se elle non fossero prima


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d’ogni altra cosa spianate, l’ascoltatore ne rimarrebbe confuso, e la confusione impedirebbe il diletto e l’attenzione. Fu dunque necessario che nel primiero atto si aprissero queste cose, cioè la necessità delle nozze nelle due scene d’ Ergasto con Mirtillo e di Montano con Titiro, padri, l’un d’Amarilli e l’altro di Silvio, gli impedimenti in quelle di Silvio con Lineo e d'Ergasto altresi con Mirtillo. E le nozze sono il primo movente, onde nasce in quell’ardente e misero amante disiderio d’abboccarsi con quella ninfa, in Silvio repugnanza al congiungersi in matrimonio, in Atnarilli sollecitudine d’interromperlo. ne’ vecchi padri di procurarlo, in Corisca occasione d’ingannare Amarilli, ch’è sua rivale; fila che si vanno poi annodando, per fare il gruppo della favola necessario. E s’incomincia da Silvio per le ca¬ gioni dette di sopra, alle quali si aggiunge ancora che, non essendo il Pcistor fido pura tragedia, ma misto di parti tragiche e comiche, fu necessario mandare innanzi quella parte del¬ l’argomento, che poteva prestar materia di scherzo comico, più tosto che di materia tragica e grave, com’è poi la seguente, acciocché si conosca al primo tratto che questa è tragicom¬ media e non pura tragedia, dove gli scherzi non hanno luogo. E per questo va eziandio alternando e intrecciando le scene gravi con le festose. La prima ha più del festoso, la seconda del grave, la terza è comica, la quarta è tragica e la quinta, per esser nel fin dell’atto, è più dell’altre comica tutta. Cosi fe’ Plauto nella primiera scena dell 'Anfitrione, da lui chiamata « tragicommedia », nella quale Mercurio, con modi tutti co¬ mici e pieni di piacevolezza e di riso, prende a beffar quel servo d’Anfitrione. Ha dunque il primo atto l’argomento con l’artificio e con la necessità che s’è detta e a tutte le buone favole si richiede, e che gli antichi greci e latini, cosi nelle tragedie come nelle commedie, costantemente osservarono: nelle commedie alcuna volta nel prologo, nelle tragedie sempre nelle prime persone ch’escono in palco. Ma Terenzio, che fu maraviglioso artefice in questo genere, non recò mai nel pro¬ logo l’argomento, si perché in quello tutta si soleva vedere intera la favola, che toglie la maggior parte di quel diletto che nasce


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dall’aspettazione dell’esito, come anche perché riesce con più vaghezza e decoro il farlo dire alle persone proprie che s’in¬ troducono nella favola, mostrando esse di fare ogni altra cosa, e d’avere altro fine che voler fare il prologo. F. tanto basti quanto al primo atto.

Il secondo va disponendo la favola all’annodarsi, e, col nu¬ trire di nuovo cibo l’ascoltatore, mantiene l'attenzione e ’1 di¬ letto. Ma questa novità vuole avere quattro condizioni: la prima, che non sia vana e piena di parole insipide, ma di fatti ; la se¬ conda, che non dissolva l’unità; la terza, che serva all'annodare, e la quarta, che non iscuopra l’esito della favola: le quali tutte si truovano e nel racconto che fa Mirtillo delVamor suo e ’n quello di Dorinda, dispregiata e schernita da Silvio; nella per¬ sona d’Amarilli, nel desiderio di lei, nell’ordine dato con Cori- sca di sturbar le sue nozze, nel modo che discorre da sé Corisca di farla capitar male, e finalmente nella zuffa che ha Corisca col satiro, che l’ha presa, il che serve a due cose: l’una a levarle la chioma, perché, nel giuoco poi « della cieca», Amarilli ne resti meglio ingannata, e per dar luogo al riso comico, secondo che s’è fatto nel primo, nel fin dell’atto, e farassi nel terzo ancora con la persona del satiro, ancorché questo secondo sia quasi tutto comico per corrispondere al quarto, che per lo più sarà tra¬ gico. Il terzo va pure anch’egli continovando in portar nuove cose, fornite delle medesime condizioni che nel secondo si son vedute. E quelle fila, che nel primo e secondo furono ordite, in questo terzo s’incominciano ad annodare: rial giuoco « della cieca » Corisca cava quel frutto ch’ella voleva, cioè di scoprir l’animo d’Amarilli e ’l suo amore verso Mirtillo, che le pre¬ sta comodità grandissima d’ingannarla, onde nasce poi la sua prigionia, che scompiglia ogni cosa, ma tutto però con nuovi e non pensati accidenti. Novità è quel giuoco; novità è la presa che di Mirtillo fa la bendata Amarilli; novità son que’ vezzi ch’essa gli fa, credendo fargli a Corisca; novità quell’or¬ rore ch’ella ne prende, poi che, sbendata, riconosce l’errore; novità, veramente non aspettata, lo sfogamento dell’amor suo, dopo che Mirtillo, rigidamente da lei cacciato, si parte;


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novità la costanza incredibile di Mirtillo, che ama come se credesse d’essere amato, e resiste con la sua invitta fede agli assalti della infocata Corisca ; novità ch’Amarilli sia creduta adultera da Mirtillo; novità le parole di lei, prese in diverso senso da lui ; novità la sua entrata nella spelonca per ammazzar l’adultero e poi se stesso; e novità finalmente che ’l satiro, ingannato anch’egli dalle parole di doppio senso dell’infelice Mirtillo, chiuda la spelonca e s’inganni, credendo di averci còlta Corisca. Tutte cose di grande intrigo, di gran diletto, che tengono, chi le vede, lontanissimo sempre dal poter cre¬ der mai che Mirtillo debbia divenir lieto deU’amor suo, ch’è poi cagione di quella maraviglia che nasce dal rivolgimento felice, qualità sopra tutte l’altre eccellente e dal Filosofo ne’ poemi si grandemente lodata. Questo terzo è poi misto di parti comiche e tragiche: le comiche sono il giuoco, la frode di Corisca e l’operazione del satiro; le tragiche il fine sce- lerato della medesima Corisca, l’onestà e grandezza d’animo d’Amarilli, la fede e costanza mirabile di Mirtillo, il suo pro¬ ponimento d’ammazzare il rivale e poi se medesimo. Ma in questo terzo più che altrove si scorge l’ordine comico, del quale è molto necessario trattare alcuna cosa per dichiarazione d’un termine, tanto più necessario quant’egli fu ben tócco, ma non già dichiarato né dal primo né dal secondo Verato. L’ordine comico è molto differente dal tragico, perciocché questo conduce il nodo più aperto e meno artifizioso, portato o dall’affetto o dal caso o dalla fortuna o dalla costituzione del fatto stesso, come nelle tragedie antiche e moderne age¬ volmente si può vedere. Ma nel comico l’artifizio, l’astuzia, la menzogna, lo ’nganno, l’accortezza, le gherminelle sono 1 mezzi che intrigano; il qual modo è dalla gravità tragica lonta¬ nissimo. E bisogna avvertire che nelle pure commedie il procurar con inganni la morte altrui non è lecito, conciosiacosaché si fatti pensieri scelerati e atroci ripugnino a quel poema, che solo è fatto per dilettar con gli scherzi. La frode comica non s’estende a fare altro che beffe e danni di poco peso, ché, se ’l Pnstor fido non avesse le parti tragiche, la malignità di Corisca,


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procacciante la morte di quella ninfa, sarebbe, in quanto al¬ l’arte, difetto grande. Dunque l’oggetto di Corisca ha del tra¬ gico, ma il modo di condurlo e quel concetto, che ella ne fa, è tutto comico.

Ma passiamo al quarto atto. Questo è per lo più tutto tragico e tutto nodo, il qual nodo non è altro che una improvvisa e sfortunata caduta in manifesta desperazione, la quale quanto è maggiore, tanto più ricca è d’arte e rende lo scioglimento tanto più bello e più ragguardevole. In questo quarto ognuno è giunto al sommo d’ogni miseria. Fu Mir¬ tillo infelice per cagion delle nozze che d’Amarilli si prepa¬ ravano, più infelice per l’adulterio di lei creduto, ed ora in¬ felicissimo per la morte alla quale vien condennata. Fu Ama- riIli parimente infelice, dovendo essere sposa di chi l’odiava; più infelice, non potendo esser di chi l’amava; ed ora infeli¬ cissima, ché, ’nvece delle nozze, è destinata alla morte. Titiro, afflitto e misero padre, che, ’nvece di vedere onorata la sua figliuola, la vede adultera e vedralla tosto morire. Montano, con tutta la provincia, dolente; le speranze loro svanite, i sa¬ cerdoti confusi, il tempio pieno d’orrore, ogni parte piena di lagrime, e finalmente tutte le cose sacre e profane, che per le nozze d’Amarilli speravano di risorgere, in estrema miseria precipitate. Né fra tanto sono contenti Silvio e Dorinda, tutto che essi non entrino in questo nodo, come parte innestata che serve per episodio, laonde il suo periodo termina in questo quarto, lasciando libero tutto ’l quinto al farsi lo scioglimento e la rivolta della buona fortuna del pastor fido, ch’è princi¬ pale oggetto di questa favola. Poco meno che altrettanto fece nella sua mirabile Andria Terenzio, il quale non rappresenta nell’atto quinto Carino se non nel fine un poco, e fallo dir si poche e si concise parole, che ben si vede ciò essere stato fatto con arte, acciocché si conosca che quella parte è inne¬ stata e non principale, come quella di Panfilo, a cui si serba libero il campo di sciòr la favola, che per lui, primiero og¬ getto di lei, a lieto fine dovea rivolgersi. Resta ora ch’io noti, come cosa in questo quarto molto importante, il fondamento


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di quel mirabile, da’ greci detto tò ■ftavfio.oóv, parte veramente mirabile, che ha poi da scoppiare dalla cangiata fortuna e dal nodo sciolto. Chi crederebbe che tanta turbazione di cose, tanti travagli dovessero mai ricevere, non dico lieta fortuna, ma né pure temperamento della contraria? e, se ciò pure fosse credibile, chi è d’ingegno tanto sottile, a cui bastasse l’animo di scoprire con qual arte, con qual maniera un cotale acci¬ dente, dal verisimile si lontano, avesse mai a succedere? E, quel eh’è degno di maggior maraviglia e che di rado in al¬ tre favole s’è veduto, queste tante procelle, che paiono alla fortuna di Mirtillo tanto nemiche, sono mosse da venti, senza i quali il suo tempestoso e sdrucito legno non poteva salvarsi in porto: ché, s’Amarilli non era condennata alla morte, non sarebbe esso stato condotto vittima al sacrificio, né Carino avrebbe avuta occasione di scoprir la sua infanzia, né Dameta il suo nascimento, né Tirenio l'oracolo; da che nasce il rivol¬ gimento della sua prosperità.

E quinci passiamo al quinto, nel quale, come nel capo ri¬ siede lo ’ntelletto dell’uomo, cosi è riposto il maggior nervo dell’artifizio drammatico; conciosiacosaché il sapere annodare è ben malagevole assai, ma tanto più è lo sciòrre, quanto questo nel mutarsi delle cose vuole avere il mirabile accompagnato col verisimile, del quale accompagnamento non ha l’arte dramma¬ tica cosa che sia né di maggior fatica né di più pregio. Or questo scioglimento ha tre parti degne d’esser considerate: la prima si dispensa nel preparar la materia, ed è di tutte la più importante; la seconda nell’atto stesso del nodo sciolto e della cosa cangiata; la terza è tutta piena di diletto e di gioia, conforme al vero fine della poesia tragicomica. Quanto al primo, quantunque in questa favola molti sieno gli intrighi e le dif¬ ficoltà, nientedimeno quelle sole che risguardano il principal soggetto, cioè Mirtillo, eh’è il pastor fido, hanno il nomee la prerogativa del vero nodo, il quale, come tutte le cose umane, ha i suoi periodi d’accrescimento, stato e declinazione. E come tutto quello, che ne’ tre primi atti si va tessendo, non è altro che disposizione al viluppo, che vuol dire a far misero quanto


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piu esser possa Mirtillo, cosi, poich’egli è fatto tale nell’atto quarto, che si può dir lo stato del nodo, tutto quello che nel quinto si fa, benché in molte parti di lui angustie non man¬ chino, nondimeno, per quello che perbene a Mirtillo, viene ad esser disposizione al disciórre, moto contrario al primo. Quinci si può vedere quanto sia ben inteso quel paragone che si fa della tragedia migliore allo ’nfermo che dé’ morire, e della com¬ media allo ’nfermo che dé’ sanarsi, perciocché nell'uno e nel¬ l’altro il malore cresce al periodo destinato, e, ’n quanto a lui, vuole occidere; ma, quando è nello stato del tragico, vince, e, quando è ’n quello del comico, è vinto: la declinazione in uno è della virtù naturale, che va disponendo il suo soggetto al cadavero, e nell’altro è declinazione del male, che va dispo¬ nendo il medesimo alla salute. E, si come avvien per lo più che ’l mal declinante non lascia subito il corpo infermo, il quale, bench’abbia vinto, non ha però cacciato in tutto il ne¬ mico, cosi l’avversa fortuna, avvengaché ’n questo quinto vada pur declinando, non parte però ella tutta ad un tratto, e pero vi s’incontrano molte difficoltà, le quali non sono intrighi del nodo, perciocché questo, avendo avuto nel quarto il suo vero stato, il suo colmo, come s’è detto, d’eccessiva miseria, non può ricevere accrescimento. E che sia vero, comincia in questo quinto Mirtillo a farsi meno infelice, avendo ottenuto quello che sommamente nella sua miseria bramò, di poter dare con la sua morte vita all’amata sua donna; ma sono accidenti che dispongono la materia allo scioglimento e a girare in buona la rea fortuna di quel pastore. La venuta di Carino suo padre, che con la scorta dell’oracolo si conduce ; la contesa di vo¬ lontaria morte, che è fra Mirtillo e Amarilli, gareggianti d’im¬ menso amore; il sacrificio da Carino interrotto; il contrasto di Ca¬ rino e di Montano della persona di Mirtillo, illegittima al sa¬ crificio; il dolor di Montano di dover sagrificare il proprio figliuolo, sono tutti travagli che non annodano, ma dispongono allo snodarsi, senza i quali lo scioglimento diverrebbe assai meno artifizioso, men verisimile e men dilettevole. E tanto basti aver detto della prima parte, spettante al preparar la


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materia. La seconda è l’atto stesso del nodo sciolto, il quale si divide in due parti. Nella prima Montano riconosce e truova il figliuolo, che non vorrebbe aver né trovato né co¬ nosciuto. Nell’altra è la ’nterpretazion dell'oracolo, che gli fa caro l’avere il suo figliuolo riconosciuto e trovato, e con questo è unito il rivolgimento. Nella medesima guisa si scioglie il nodo del tanto lodato Edipo , che non s’adempie con un solo riconoscimento, imperocché prima egli viene in cognizione di non esser figliuolo del re, com’egli si credea, di Corinto, e poi conosce quello che non avrebbe voluto, d’esser figliuolo di Laio re di Tebe, da lui ucciso, e di Giocasta, con cui commise lo’ncesto. E, come nell 'Edipo il primo riconoscimento non è quel che rivolge la favola in fin dolente, ma si bene il secondo, cosi anche nel Pastorfido , perciocché, riconosciuto che ha Mon¬ tano il figliuolo, par che la favola sia funesta più ch’ella sia mai stata; ma Tirenio, che apre l’oracolo a guisa dello ’nteiletto agente, riduce in atto quella felicità ch’era nell’animo di Mon¬ tano prima sopita, il qual, per essere dal dolore accecato, non vedea il chiaro lume della mente divina. E, cosi in questa come in molte altre cose, è molto simile a quella tanto stimata e si famosa tragedia, come sarebbe a dire, che quanto più si cerca d’uscire di sospetto e d’affanno col ricercare, col do¬ mandare, tanto più vi si cada e, come uccel nella ragna, tanto più vi s’intrighi; che la sola persona di Mirtillo riconosciuta giri tutta la favola; un filo solo, come quello di Teseo, d’ine¬ stricabile iaberinto la faccia uscire; e, quello che pure è tanto dal Filosofo commendato, che la ricognizione non sia fatta per segni, ma in vertù di quel verisimile, che produce la maraviglia e nasce dal fatto stesso e dalle viscere del soggetto. E però quella parte, che fanno i duo pastori nel riconoscimento di Edipo, quella medesima fa nel Pastor fido Dameta, e nella stessa maniera ancora, poiché da quello, che ha detto prima Carino e poi racconta Dameta, si conchiude per certa necessità che Mirtillo sia quel figliuol di Montano, che ’l torrente gli portò via. Nel che bisogna avvertire una eccezione molto importante, né fin qui da niuno, ch’io abbia veduto ancora, degli interpreti


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d’Aristotile conosciuta. Il quale, di molte spezie di riconosci¬ menti che sono da lui addotti, quella de’ segni, come assai meno artifiziosa, non pruova molto, lodando sopra tutte quella che nasce dall’intessimento delle cose e dal verisimile produ¬ cente la maraviglia, e danne l’esempio à^W Edipo il tiranno-, e pure, chi ben considera quella favola, troverà che non è senza segno. E qual è egli cotesto segno? I piè gonfiati, senza ’1 qual riscontro quel re non avrebbe creduto al pastore d’essere da lui stato con le forate piante, per ubbidire al padre di lui, appeso ad un albero, prima che ne facesse il dono al pastor di Corinto. Il medesimo fa la culla e i portenti cessati nel Pa¬ stor fido : in vertù di quella Carino acquista fede a quel che scuopre Dameta, e in vertù di questi Tirenio conferma la ’n- terpretazion dell’oracolo. Egli è ben vero che detti segni son de’ migliori, cioè di quelli che con l’esemplo della pistola di Efigenia nella tragedia d’Euripide, Efigenia in Tauris, il Filosofo ci commenda, per non essere mendicati né arbitrari, ma nascenti dall'intima necessità della favola; e chi gli porta, non se ne serve a far la fede che fa, ma, dicendoli per dir solo come sta il fatto, necessita chi l’ascolta a prestargli fede nel rimanente, si come senza difficoltà nell’allegata favola può vedersi. Al ri¬ conoscimento della quale è tanto simile quello del Pastor fido, che pare anzi tradotto che imitato. Ma qui per avventura po¬ trebbe dirsi : perché dunque non si dé’ egli chiamare « riconosci¬ mento di segno », se v’interviene il segno? Perché il segno non vi sta, come dissi, per principale argomento di quella verità che si scuopre, in quella guisa che si vede nell 'Ecira di Te¬ renzio, nella quale un anello solo e non altro scioglie quel gruppo, in verità molto bello; ma fassi principalmente con iscontri di fatti e argomenti di cose, che costringono a prestar fede al conoscimento. E chi considera bene come Carino parla di quella culla per necessità di risposta, e come que’ portenti, che son cessati nel tempio, vengono porti da Tirenio per oc¬ casione a lui di ricercarne la verità e poi per cosa che séguiti da essa verità già scoperta, dirà, senz’altro, che quelli sono più indizi che segni.


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E, poiché già si sono espedite le due parti di quelle tre, nelle quali noi dividemmo lo scioglimento, resta ora che della terza si tratti, effetto giocondissimo della cangiata fortuna. E, si come della tragedia patetica era parte integrale quella che 1 Filosofo chiama il « commo », cioè a dir quel lamento che fa il coro, o da sé o in compagnia di qualche istrione, acciocché il terrore e la compassione, chiudendo con mestizia la favola, vengano a far nell’animo di chi ascolta quella gagliarda impressione e a lasciar quell’orrore ch’è necessario alla purgazione di quegli affetti, cosi nella tragicommedia, la quale, come s'è dimostrato, ha il fine suo tutto comico, tutto lieto, fu di mestieri che, per lasciare l’ascoltatore quanto più si poteva allegro e giocondo, si andasse in diverse maniere e col mezzo di diverse persone la conceputa allegrezza magnificando. E, si come il tragichis- simo Euripide, per accrescer l’orrore, nelle Fenisse produsse in palco i corpi morti di Eteocle e di Polinice, fratelli e soggetti di quella mirabil favola infelicissimi, cosi nel Pasior fido, per colmar di letizia e pascer di giocondissima vista gli ascoltatori, fu molto ragionevole che si rappresentassero agli occhi loro felicissimi quegli amanti, che dianzi nell’abisso d’ogni miseria stavano immersi. Avvertendo però, che, quando essi non vi ve¬ nissero con necessaria e verisimile occasione, sarebbe insipida vista e da essere in tutti i modi fuggita; ma, poiché vengono, non per far mostra di sé, ma per passar dal tempio alle case loro, là dove, per avviso del profeta Tirenio, prima che ’1 sol tramonti, dovevano accompagnarsi, la loro apparizione non può essere se non buona, essendo verisimile e necessaria. E, per¬ ciocché a fine tragicomico repugnava che Corisca fosse infe¬ lice, altramenti si verrebbe a cadere nella doppia costituzione dell’esito buono a’ buoni e cattivo a’ cattivi, dianzi da noi ri¬ fiutata; e dall’altro canto non convenendo, si come cosa di mal esemplo, eh'una pessima femmina avesse lieta fortuna, fu buono il preso temperamento, che col pentersi del suo peccato si provvedesse allo scandalo, e col ricever perdono dalle persone offese restasse lieta, la qual cosa, da chi è colpevole e dolente del suo peccato, in luogo di felice fortuna si dé’ ricevere.


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E qui, col chiuder della favola, si chiuda ancora il nostro discorso, nel quale è stato mio principale oggetto di giovare a coloro che in poesia drammatica spendono il lor talento, acciocché veggano che cotesto non è poema da porvi mano senza aver prima molto bene considerate le tante difficoltà che s’incontrano, se pure a grado d'eccellenza (ch’ogni poeta do¬ vrebbe sola volere, o non esser poeta), bramano di condursi. Fra le quali non è niuna più malagevole che ’l fare scelta di buona favola. Senza questa, ed è vero, se tutte l’altre parti fossero gioie, sarebbono ben esse estimate belle, ma non sarebbono già quel tutto né quell’opera bella, se buona favola non avesse. E di loro interviene come del vino dolce, ma insipido e senza nervo: per un bicchiere s’induce l’uomo a gustarne, ma più oltre non se ne cura; o come di femmina, che abbia un bel visetto tutto lisciato, e nel rimanente poi vizza, languida e dissipita: terrà bene un poco con quelle sue vaghezze gli occhi ile’ riguardanti, ma, dalla prima volta in fuori, come cosa di poco gusto, non è stimata. Piace nel primo aspetto un vago discorso, una bella scena fiorita di vivezze; ma, s’ella non è ramo di buona pianta, Tesser fronzuta poco le gioverà. Se di buon padre non è figliuola, sarà più tosto bella per egloga se¬ parata che per parte, che faccia bello il suo tutto e bello quel poema di cui è scena. La favola insomma è, come disse il Maestro, T« anima del poema»; questa è ’l centro, questa è ’l nervo, questa è la base. Da questa nascono le vaghezze non affettate, non mendicate, non vane. Questa è quella che fa legittimi gli episodi, buono il costume, efficace l’affetto, natu¬ rale il decoro, grande il mirabile e mirabile il verisimile. Dal- l’artifizio di questa vien finalmente quella cara catena, che lega l’animo non solo di chi vede e ascolta, ma, quello che stima tanto Aristotile, di chi legge; quell’occulto diletto che inebria l’ascoltatore e ’l lettore e noi sazia mai, di maniera che sempre più volentieri non torni a leggere e ascoltare, e non gli paia di trovar sempre nuove bellezze; miracoli si bene delle belle parole, ma unite con bella favola, che fa parer si care e si belle quelle parole; e finalmente miracoli che son


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propri della drammatica poesia, quand’ella è piena di sugo, imitatrice di vivi fatti e non di morte parole. E però, consi¬ derando il grande Aristotile che l’unità, maravigliosa e neces¬ saria parte d’ogni poema, riesce tanto maggiore e più artifì- ziosa, quant’ella, a guisa di ricca gemma, in corpo picciolo si ristringe, non dubitò d’antiporre la tragica all’epica poesia, maggior di corpo certo e di tempo, ma di diletto e d'artifizio di gran lunga minore.


APPENDICE



I


INTERMEZZI PER UNA RAPPRESENTAZIONE DEL « PASTOR FIDO»

Primo Intramento.

Musica della Terra.

Da una di quelle piante, che si collocaranno da un corno della scena, perché Amarilli, quando fa il giuoco «della cieca» l’abbia d’abbracciare, credendo di prendere una delle ninfe, che giuocano, uscirà una ninfa tutta ignuda, se non quanto una banda di zen¬ dado verde chiaro le cuopra le parti disoneste, e ciò si potrà fare con manto accomodato leggiadramente. 11 resto sia tutto finto di carne. In capo una ghirlanda di fiori, i capelli giù per le spalle, tutto sia bello e ben acconcio. Abbia un istrumento da sonare in mano.

Dall’altra parte della scena facciasi il medesimo dall’altra pianta.

Da due sassi, che saranno nel giro della scena, escano duo satiri, uno dopo l’altro e in diversi luoghi; abbian sampogne in mano.

Di sotto il palco della scena, dalle bande, sorgano due ninfe vestite d’argento, ancor esse ignude come di sopra e co’ capelli biondi, ma corti ad uso di Vinegia, con ghirlande in capo di fiori senz’alcun verde. Ma nel salire mandino prima fuor un borboglione d’acqua, come che venga fuori di fontana, e, come avranno il capo sopra la terra, lo scuotano alquante volte; abbiano in mano istru- menti da suonare.

Bisogna avvertire che nel nascimento o uscita, che faranno le ninfe dagl’arbori e i satiri dai sassi, s’attenda a imitare il veri¬ simile. Ciò si farà, non facendosi spaccare di primo colpo l’arbore e


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APPENDICE


il sasso ; ma, secondo che il corpo va uscendo, cosi si vada aprendo, e prima esca un braccio e dall’altra parte il capo, acciocché si veggano vari nascimenti, che farà bellissima vista. Dissi « dall’altra parte», cioè nel nascimento dell’altra ninfa o satiro, perch’i modi di nascere sian diversi.

In mezzo della scena sorga un grande scoglio ingegnosamente imitato, il qual, salito quanto basta, s’apra e quivi si veggano cinque donne d’età matura, vestite tutte di bianco con fasce e infule tutte bianche (ma, se fossero fregiate d’oro, mi piacereb- bono), due da una banda e due d’altra; in mezzo abbiano la quinta, più nobile di tutte l’altre. Questa nell’una mano abbia un tamburetto d’argento, e nell’altra, che sarà la destra, una viva fiamma di fuoco. In capo una corona di gioie preziosissima. Le donne, che le sta¬ ranno a man destra e a man sinistra, abbiano in mano stranienti da sonare, tutti da corda. In capo concieri di bende bianche, in modo ben concertate, che le facciano comparire i capelli giù per le spalle ricchi di verghe d’oro. Ora nanti le quattro ninfe e i duo satiri sorgerà questo sasso e s’aprirà, e, accostatisi le ninfe e i satiri, faranno la musica. I satiri faranno il basso, le ninfe i soprani e i tenori e quei dello scoglio soneran gl’istromenti. Né di questo parlo più inanzi, essendo cura del musico; dico solo che la musica vuol esser di corde. Il sasso di dentro, quando sarà aperto, sia tutto ricco di vene d’oro e d’argento e di gemme pre¬ ziose. Finita la musica, si chiuda il sasso e torni di sotto. Le ninfe tornino negli arbori loro, i satiri nei loro sassi. E le due, che sono uscite dall’acque, si scombuccino col capo innanzi nel medesimo loco ond’uscirono.

Secondo Intkamento.

Musica del Mare.

Vorrei, se fosse possibile, che il piano della scena si coprisse all’improvviso di tele dipinte e acconce in modo che paressero onde, il che credo si farà agevolmente col sottilissimo ingegno del nostro maestro Giovan Battista, con la scorta del quale mi darebbe l’animo di fare ogni gran cosa. Or fatte queste onde, vorrei che in mezzo della scena uscisse una gran conca marina tutta inargen¬ tata, nella quale fosse Venere con qualche Amorino. In questa conca pongansi tante ninfe marine quante parrà necessario al mu¬ sico per una parte del coro, e d’intorno a detta conca sorgano altresì


APPENDICE


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tante sirene, quante per l’altra parte del coro della musica giu¬ dicherà il medesimo musico di bisogno.

E avvertiscasi che la conca bisogna che sorga in modo e in sito, che una sola parte di lei s’apra verso gli spettatori e s’inchini fin sopra il piano della scena; l’altra stia ritta e salda e, quivi sien disposti coloro che hanno da far la musica, disponendoli in modo che tutti, or alto or basso di detta parte, capiscano e abbiano Venere in mezzo, e insomma tutti siano attaccati a detta conca, come sono le perle alle loro conchiglie. Dentro, la conca tutta d’argento, ma fregiata di perle. Le ninfe ornate riccamente, Ve¬ nere non accade che si dica, perché s’intende. Le sirene non si veggano se non dal mezzo in su. E si conoscano alle code loro solite, e queste o cantino o suonino o faccino l’un e l’altro, come ordinerà il musico nel concerto, la qual musica vuol essere flau- tizata: cornetti muti, flauti, dolzagna, rifarò all’alamana e voci.

Finita la musica, ciascuno torni onde uscirono, chiudasi la conca e torni sotto, e Tonde spariscano. Le sirene van nude senza sorte alcuna di vestimento; si potrebbono far carche d’alga. I capelli loro saranno d’alga, verdi; le loro code di argento.

Terzo Intramento.

La Musica dell’Aria.

Facciansi otto venti, quattro cardinali e quattro collaterali, e, benché questi sien più, secondo gli antichi, e molto più, secondo i moderni, nondimeno bastano questi e per la musica e per la capa¬ cità del luogo. Questi vogliono pendere nelTaria. Si partiranno dal- l’estreme parti della scena, e, portati da nuvole, ciascuno dalla sua, si riduranno sopra la scena in luogo e termine convenevoli, dove le nuvole di ciascheduno, unite insieme, faranno un giro di nuvole continuato. Dissi « dall’estremità delia scena » passando in aria, si che verisiinilmente paia che vengano da diverse regioni del mondo. Appariranno dal petto in su, con le braccia e col capo; tutto il resto sarà coperto da nuvole, si che niuna parte si vegga. I quattro cardinali saranno cosi formati: Austro, di mezzodì, tutto nero e volto e braccia e mani d’una tinta foschissima come etiope. Ca- pillatura nera, crespa, grande; abbia in mano trombone di quelli che chiamano « squarciati ».

Il contrario di questo sarà Aquilone, tutto canuto, con capilla- tura canutissima, lunga, crespa, irta, rabuffata, egli coperto tutto


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APPENDICE


di bombacia, che paia neve, e lustra più che si può, il quale altresì abbia un istrumento della medesima sorte.

Il terzo sarà Levante, con capillatura flava e carica di colore, lunga, irta e rabuflata. In fronte un sole, in mano un altro simile trombone; del resto nudo il petto e le braccia. 11 suo contrario, Ponente, della medesima fatta, ma non flava, ma rossa, con un sole dopo le spalle; nudo e col trombone in mano. Avvertendo che le barbe siano secondo il concerto de’ capelli.

Gli altri quattro vanno temperati dei sopradetti colori. Ma nel resto simili agli altri, i quali quattro avranno un cornetto per uno. E questi faranno la musica di que’ soli stromenti, i quali cornetti vorrei che fossero grandotti, perché fossero più concertati co’ tromboni che sia possibile.

Finita la musica, ciascuno tornerà al luogo loro, e, si come nel venire vorrei che s’andassero a poco a poco scoprendo fuor della nuvola, cosi nel ritorno avrei caro che tenessero il medesimo stile.

Quarto Intkamento.

La musica celeste.

Aprasi il cielo, e veggansi in giro lucidissimo i sette pianeti, disposti l’un dopo l’altro in giro con li loro istrumenti musicali in mano; e dopo loro sieno ascosi gran quantità di musici con voci e strumenti, desiderando io che questa sia pienissima musica e concerto numerosissimo.

Giove con veste d’oro, corona in capo ricchissima, appiedi l’aquila col fulmine. Saturno vecchio, nudo, se non quanto siati coperte le parti vergognose da un manto, una corona in capo pure di raggi d’oro. Venere s’è già detto com’ella va vestita lasciva¬ mente. Diana, anche questa con una luna in capo cornuta e manto verde. Mercurio, con un manto d’oro: del resto nudo, col cappello e con li talari alati. Marte, armato con sopraveste d’oro. 11 Sole, vestito d’oro tutto; in capo una corona di raggi, una capillatura bionda riccia bellissima.

A piè di Venere il colombo; di Diana il cervo. Ma sopra tutti quel luogo sia luminoso, pieno di stelle, e tanto belle che somigli il concetto del paradiso.

L’ordine dei pianeti è questo naturalmente: la Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove, Saturno, e però crederei che fosse bene disporli a questo modo.


II


ALTRI INTERMEZZI


Il prologo.

Imeneo, giovane bello, vestito di panni bianchi fregiati d’oro, con coturni rossi fregiati d’oro, capillatura bionda e crespa, nella sinistra mano una facella accesa; a traverso, cioè dalla spalla si¬ nistra al fianco destro, una banda di zendado cremisino fregiato d’oro, larga un palmo e lunga tre braccia; in capo una ghirlanda di fiori.

Questi sarà portato da una nuvola fin al pian della scena, e, quivi posatolo, tornerà essa al cielo, e egli, finito il prologo, partirà, entrando per una delle vie destinate per gli istrioni.

Primo intramezzo.

Sorgerà da una parte del cielo il carro del sole cinto di raggi, guidato da Fetonte, co’cavalli sfrenati, e, quando sarà comparso tutto, si scuoterà la terra e n’uscirà una donna ignuda e arsiccia, ma di lei non si vegga se non dal petto in su, con una corona torreggiata in capo, la quale donna dica alcuni pochi versi:

Se pur è tuo voler, Giove, e mia colpa

ch'incenerisca ed arda,

perché a ferirmi la tua fiamma è tarda?

se di me non ti cale,

movati il proprio male:

ecco, già fuma il tuo celeste seggio

e, se più tardi, i’ veggio

arso il cielo e la terra e ’l mar profondo,

tornar confusa e cieca mole il mondo.


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APPENDICE


E non aspetti a dirgli che sia uscita, ma in un medesimo tempo esca e prorompi nelle parole. Al fin delle quali spunti dall’altra parte del cielo una nuvola oscura e tutta pregna di lampi e di tuoni, ond’esca finalmente un fulmine, che percuota Fetonte, il quale col suo carro sarà già pervenuto alla sommità del cielo, donde egli fulminato avrà a cadere in mezzo al pian della scena, la quale aperta abbia di sotto un gran vaso d’acqua, acciocché ' si senta e veggia ancora il moto dell’acqua percossa. E se potrà fingersi il fiume Po, farà la vista tanto più bella.

I cavalli saranno gialli e rossi ; Fetonte ignudo.

Secondo intramezzo.

Usciranno da cinque piante, disposte con intervalli convenienti intorno l’estremo margine della scena, cinque ninfe, vestite tutte di verde, in bel concerto e bene ornate, le quali si stringeranno in cerchio ferme, cantando un madrigale di pochi versi :

Sorgi, o Fetonte, ornai, sorgi del Sole

o fulminata prole:

ecco ’l ciel che ti chiama.

Se doloroso scempio

per lui soffristi, or con eterna fama

ti ricompensa, essempio

di magnanimo ardire,

cui diletto è ’l penar, gloria il morire.

Il quale finito, sorgerà in mezzo a loro subito il medesimo Fetonte, che cadde fulminato, e nello stesso tempo scenderà dal cielo una nuvola, che lui, già sorto, abbracciando, porterà al cielo. E, mentre salirà la nuvola, canteranno le ninfe concertate con la musica in¬ teriore. La qual fornita, torneran esse nelle loro cortecce, ond’eran uscite.


Terzo intramezzo.

Sorgerà nel mezzo della scena un monte, ch’avrà nella sommità sua due gioghi, sopra l’uno dei quali sarà il Pegaseo e una fonte appresso, che scaturisca da un sasso e l’acqua si vegga uscire. Intorno al monte siano disposte le muse con gli stromenti loro e faccian veduta di sonare, e la musica interiore sia quella che


APPENDICE


297


faccia l’armonia. La quale finita, torni la machina al luogo suo e chiudasi la scena. Le muse vestite come si suole, e siano fan¬ ciulli piccioli, per occupare minor luogo che sia possibile, e basta che si vegga la faccia sola di verso gli spettatori piena di muse, percioché l’altra non importa, se ben l’altra non ce n’avrà. E però se ne potran mettere tanto meno nella parte visibile, accioc¬ ché si gravi meno la machina ed ella non riesca si grande.

Quarto intramezzo.

S’aprirà il cielo nella più alta parte, e quivi appariranno quelle deità, che furono dagli antichi nominati «pianeti», eccetto Saturno, in luogo del quale si ponga Pallade. A piè di quelli sia un vaso grande e ben fatto, nel quale ciascheduno delli detti iddìi mostri di porre alcuna cosa con la man destra. Il che fatto, sia cinto il vaso d’una nuvola, che scenda soavemente, e intanto si chiuda il cielo. Giunta a piè della scena, s’apra di subito e n’esca una donna di bellissimo aspetto e abito, e la nuvola torni al cielo, e nel medesimo tempo escano dalle solite vie della scena sei ninfe, le quali, cantando, la circondino e conducano dentro, dove la musica interiore sempre risponda e faccia un concerto di voci e di strumenti pienissimo. Gli iddìi vanno vestiti secondo il solito, e questo è noto ad ognuno. La donna con quell’abito che si vuole, purché sia bello e ricco: le ninfe anch’esse come si vòle, purché siano benissimo ornate.

Vieni, gloria del Tebro,

anzi del cielo, e di beltà celeste

piena non pur la fronte e gli occhi e ’l petto,

ma quel che copre la terrena veste,

angelico intelletto;

gradisci il nostro affetto,

chè, ’nvece di Minerva e Citerea,

sarai la nostra dea.



ili


AVVERTENZA DELL’EDITORE CIOTTI


A’ BENIGNI LETTORI.

Alquanti anni innanzi che finisse il decennio del primo privilegio del Pastor fido , io, che niun altro fine ho mai avuto che d’impie¬ gare al diletto e comodo vostro tutte le mie fatiche, veggendo con quanto applauso sia stato ricevuto questo nobil poema, e al pari di qualunque altro onorato, non solo da tutta Italia, ma eziandio dalle straniere nazioni, che nella lor favella quasi a gara l’han trasportato, e più oltre considerando quante volte e ’n quante guise l’ho ristampato e che per tutto ciò non ho potuto mai fare si che la mia diligenza non sia stata minore assai del concorso, ebbi pensiero di rinnovarlo in quella solenne forma, ond’egli prima, per opera del suo proprio autore, comparse al mondo. 11 che vo- lend’io fare quanto fosse per me possibile nobilmente, né sappiendo trovar vaghezza che tanto fosse degna di lui, quante sono le sue bellezze medesime, ottenni dal proprio autore (e fu ben grazia, considerato le sue molte occupazioni di non poca importanza) che riducesse in compendio la maggior parte di quelle cose, che ’n- torno al Pastor fido scrissero i duo Verati, persuadendomi senza dubbio che ciò dovesse, e a coloro che non hanno veduto mai que’ duo libri, non meno dotti che eleganti, e in generale a tutti gli studiosi delle polite lettere, riuscire opera dilettevole e fruttuosa, tanto più avendoci egli aggiunte di molte cose non men belle che nuove alla drammatica poesia pertinenti. Già era fatto il Compendio , e fin dall’anno 1599 fu eziandio veduto in Vinegia, in Pisa, in Fi¬ renze e altrove, si come molti, e specialmente la nobilissima ac¬ cademia della Crusca, amplissima testimonianza ne posson fare;


300


APPENDICE


e io stava già per averlo, quando dalla città di Padova, fuori d’ogni aspettazione e anche d’ogni proposito per le cose in tal materia già disputate, uscirono certi scritti (quali essi siano, già il mondo P ha giudicato) contra il detto poema, che ritardarono il mio disegno, perciocché, veggendo l’autore in quelli « non esser cosa (riferisco le sue precise parole) che non sia frivola, falsa e dai duo Verati un pezzo fa risoluta», gli disprezzò; né degnandogli di risposta, dubitò che quest’opera potesse essere interpretata per una quasi tacita sua risposta, ond’egli apertamente me la negò. E son certo che fòra stata perduta opera il più richiederla, se non fossero uscite le due difese, l’una del Savio e l’altra del Pescetti, colle quali essendomi paruto di aver assai onesta e comoda en¬ tratura a nuovamente richiederla, si bene m’adoperai e si buone ragioni gli seppi addurre, che ’1 persuasi ed ebbi il Compendio. Il quale, tutto che colla stampa del Pastor fido che ora si va fa¬ cendo sia destinato, nulladimeno per soddisfare al desiderio di molti nobili ingegni, che non possono più lungamente aspettarlo e meco dello indugio si dolgono, ho voluto, quasi precursore del suo poema, mandarlo innanzi, che servirà eziandio a render la let¬ tura del Pastor fido tanto più saporita quanto per ordinario le cose, che me’s’intendono, son più care e con la ’ntesa loro vaghezza maggior diletto ci recano. Prendete dunque e gradite, lettori no¬ bilissimi, la fatica e opera mia, intenta sempre a giovarvi, mentre che vi s’appresta un bellissimo Pastor fido, illustrato con si vaghe e dotte annotazioni, ch’indi potrete avere in un medesimo tempo e del senso e dell’intelletto cibo al vostro fino giudizio e dilicato gusto molto proporzionato. Nostro Signor Dio vi faccia sempre contenti.


NOTA



Facile il compito dell’editore del Pastor fido : il testo definitivo fu fissato dall’autore stesso nell’edizione veneziana del 1602:

Il Pastor Fido tragicommedia pastorale del molto illustre sig. Cavaliere Battista Guarini, ora in questa XX impressione di curiose e dotte annotazioni arricchito e di bellissime figure in rame ornato , con un Compendio di Poesia tratto dai duo Verati con la giunta d’altre cose notabili per opera del medesimo S. Cavaliere. In Venetia appresso Gio. Battista Ciotti MDCII ( 0 ,

ed esso, riprodotto in tutte le numerosissime edizioni poste¬ riori ( 2 ), bastava seguire. Questo io ho fatto; ma anche la stampa


(1) Di questa edizione fece, secondo il Gamba ( Sene dei testi di lingua «, n. 556), una ristampa meno corretta e coi rami molto logorati il medesimo Ciotti, con la me¬ desima data 1602. La ristampa presenta queste differenze dall'originale: nel fronte¬ spizio «XXVII impressione» invece di «XX»; le pagine numerate da un lato solo invece che facciata per facciata, e a pag. 65 un verso che deve essere a pag. 96. Il Compendio porta la data 1603, il che può far supporre che questa ristampa sia stata fatta appunto nel 1603. Il Gamba aggiunge in nota di essere stato avvertito che in qualche esemplare della ristampa non si trovino queste caratteristiche ; le presenta, meno l'ultima, quello che si conserva nella Nazionale di Napoli.

(2) Alla bibliografia diligente del Rossi (documento XXXX) io posso aggiungere soltanto le due seguenti edizioni posteriori al 1886:

G. B. Guarini (1538-1612), Il Pastor fido, favola pastorale. Roma, O. Garroni, 1909-1911, 2 voli, in 32° di pp. 160, 125: se la prefazioncina biografica, anonima, è alquanto sommaria e deturpata da qualche grossolano errore, in compenso il testo, evidentemente condotto sull'edizione del Casella (collezione diamante del Barbèra, 1866, accompagnata dal Compendio , poi non più ristampato, e dall’ Indice ragio¬ nato o Sommario, di esso, che io ho omesso), è molto accurato ;

Opere del Battista Guarini (sic) Il Pastor fido, Strasburgo 1 . H. Ed. Heilz.,s. a. (Biblioteca romanica, n. 154-156): questa edizione, curata dal signor Camillo Orlando, non è più che una riproduzione dell’edizione del Casella; come questa, infatti, essa emenda solo dove è alterata la misura del verso, e lascia intatto il testo del 1602 anche dove l’errore è evidente e la correzione facilissima.


3«>4


NOTA


del 1602 è non poco scorretta, tanto da incontrarvisi versi che non tornano (*), onde alcune correzioni furono necessarie. A tacere di quelle che possono considerarsi come correzioni di errori di stampa o di semplici sviste di chi curò l’edizione, ecco le principali:

Argomento: p. 3, r. 19 «di lungo tempo»: ho corretto in «da lungo tempo »;

Atto secondo, se. IV, v. 9 « saran di rado fortunati mai»: ho ag¬ giuntolo» prima di «mai»;

Atto terzo, se. VI, V. 66 « E sola è la vita mia»: ho soppresso «E»;

Atto quinto, se. II, v. 137 la misura del verso volle « lettre» in luogo di « lettere ».

Atto quinto, se. II, v. 163 «non» ho mutato in «no»;

Atto quinto, se. V, v. 145 « Conoscerestil? Sol ch’io il vedessi»: la misura del verso vuole s’aggiunga « tu » dopo « Conoscerestil »;

Atto quinto, se. V, v. 252 «bel» ho corretto in «ben»;

Atto quinto, se. X, v. 11 « per fin che ne le mie case »: la misura del verso volle soppresso « mie ».

Una correzione abbastanza grave m’ero risoluto a fare assai a malincuore ai vv. 3-4 della scena IV dell’atto secondo, ove mi sembrava che i vv. « Ed ha ragion di favorir colei Che, sonnac¬ chiosa, il suo favor non chiede » venissero a indicare proprio il contrario di ciò che voleva dire l’autore. Perciò, dopo averli tor¬ turati in tutti i modi, m’indussi, pur con un senso di scontento e quasi di rimorso, a sostituire « non » a « ed ». Ma, come suole accadere, quando il foglio era già tirato e non v’era più modo di correggere, mi balenò alla mente nel rileggerlo, la vera inter¬ pretazione del passo, e dovetti convincermi che la mia correzione non aveva ragione d’essere. Giacché è ovvio che il G. si servi di una metatesi sintattica, e che il passo vada interpretato: «E la fortuna ha ragione di favorire colei che, non sonnacchiosa, chiede il suo favore».


(j) Qualche errore è indicato nelle Annui azioni; uno, indicato da queste, è cor¬ retto nella ristampa de) 1603: infatti, nel verso 21 del coro secondo, in questa si legge «morta», e non «mortai», «bellezza», come correggeva l’annotazione relativa, la quale tuttavia è rimasta com’era. Invece, atto IV, scena III, v. 172 non è corretto «sa¬ crificio infausto» in «sacro ufficio infausto », come indicava la relativa annotazione, e come correggono il Casella e l'Orlando e ho corretto io. L'errore più grave è nell’atto III, scena IX, il terzultimo verso della quale si legge: « Hor le tropo largo si darà il fuoco ov’ io vorrei »: è evidente che le parole « tropo largo » sono soverchie.


NOTA


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Delle Annotazioni e del Compendio , che in questa edizione fondamentale accompagnano il Pastor fido, ho creduto di conser¬ vare il secondo e ometter le prime.

Il Compendio può dirsi veramente la sintesi del pensiero del Guarini intorno alla poesia tragicomica e riassunto impersonale (« scrittura obbiettiva, pacata », la chiama il Rossi) di quanto egli aveva diffuso nelle due operette che prendono il nome dal- l’attor comico Verato, al quale si fingono attribuite, o, per usare maggiore precisione, dal Verato la prima, dall’Atticciato (nome accademico, sotto il quale non saprei dire quale persona reale abbia adombrato l’autore) la seconda. Lasciato da parte quanto aveva relazione con le persone del Nores e del Guarini e col fatto particolare della loro polemica, il Compendio raccoglie solamente quanto è davvero essenziale per la storia del pen¬ siero critico e letterario del secolo xvi morente. D’altronde l’aver l’autore stesso raccolto l’essenza, a dir cosi, del suo pen¬ siero in questa edizione definitiva deH’opera sua drammatica, vuol dire che egli aveva dimenticato e voleva anche dal pubblico di¬ menticata la polemica e solo ricordate le ragioni storiche e arti¬ stiche del suo fortunatissimo dramma. Il Coìnpendio , a richiesta dell’editore Ciotti ('), era stato composto fin dal 1599, e veduto nel manoscritto a Venezia, a Pisa, a Firenze e altrove: doveva essere subito stampato, quando la comparsa inaspettata di alcune scritture, che riaprivano la polemica, fece si che l’autore, sdegnando di rispondere comunque a quelle, frivole, false e già implicitamente confutate dai due Verati, negò all’editore il permesso della stampa, concedendoglielo soltanto quando alla comparsa di nuovi scritti più seri n’ebbe decente occasione. Destinato ad accompagnare l’edizione definitiva del Pastor fido, il Compendio gli fu tuttavia mandato innanzi di poco, e comparve nel 1601 in un opuscoletto di 64 pagine:

Compendio della poesia tragicomica, tratto dai duo Verati, per opera dell'Autore del Pastor fido, colla giunta di molte cose spet¬ tanti all’arte. In Venetia, MDCI appresso Gio. Battista Ciotti , all’Insegna dell’Aurora (2);

poi fu aggiunto al Pastor fido, nell’edizione del 1602, ma con


(1) Cfr. l’avvertenza dell’editore A'benigni lettori, riprodotta ne\\' Appendice II.

(2) L’ imprimatur porta la data die quarta Man 1601.


G. B. Guarini


20


306


NOTA


proprio frontespizio e propria numerazione di pagine, conservando l’originale avvertenza dell’editore e l'originale imprimatur.

Su questa stampa ho, naturalmente, esemplato questa mia edi¬ zione, nella quale, oltre i frequenti errori tipografici e alcune sviste, ho corretto: Pag. 219, r. 4 aggiunto «ciò»; pag. 225, r. 12 aggiunto « non » ; pag. 237, r. 29 aggiunto « si » a « purgano »; pag. 252, r. 14 « quando... e fu » mutato in « Quando..., e’ fu »; pag. 2S5, r. 7 « col qual » mutato in « senza ’l qual ».

Ho riscontrato sui testi relativi i numerosi passi latini e greci, dal Guarini sempre poco correttamente riferiti: però non mi fu possibile trovare le traduzioni di Filone e di Basilio Magno da lui usate; e, quanto al greco, nel passo di Aristotile riferito a pag. 250, r. 23 ho creduto di lasciare TtoioùvTa, dove il testo lipsiense legge toiaùxa, perché quel participio ha rispondenza nella tradu¬ zione italiana che segue.

Le Annotazioni , dopo non breve incertezza, ho creduto di omettere, perché, se è vero, come dice benissimo il Rossi, che esse «si possono quasi chiamare un commento esegetico, che mira a mostrare come ogni cosa nel dramma abbia la sua ragione, come tutto sia condotto a cospirare alla soluzione del nodo principale », e se non si può dubitare siano opera del Guarini stesso, è anche vero che ciò che costituisce l’essenza di questo commento è contenuto nel Compendio , il quale perciò basta per la cono¬ scenza del pensiero critico del Guarini e delle ragioni dell’arte di lui (•).


(1) Di queste Annotazioni è notevole e merita di essere riferita nella sua parte essenziale quella al verso « Cieco, Amor, non ti cred'io » (atto terzo, se. li): « Né mi par di tacere il modo, coti che il poeta nostro compose le parole di questo ballo, che fu cosi: prima fece comporre il ballo a un perito di tale eser¬ cizio, divisandogli il modo dell’imitare i moti e i gesti che si sogliono fare nel giuoco 'della cieca', molto ordinario. Fatto il ballo, fu messo in musica da Luzzasco, eccellentissimo musico de’ nostri tempi. Indi sotto le note dì quella musica il poeta fe’ le parole, il che cagionò la diversità dei versi, ora di cinque sillabe, ora di sette, ora di otto, ora di undeci, secondo che gli conveniva servire alla necessità delle note. Cosa che pareva impossibile, e, se egli non l’avesse fatta molte altre volte, con tanta maggiore difficoltà quant'egli negli altri balli non era padrone dell’in¬ venzione, come fu in questa, non si sarebbe forse creduto. Perciocché in detti balli non aveva una sola fatica, di metter le parole sotto le note, ma di trovar dai mo¬ vimenti del ballo invenzione che gli quadrasse e avesse viso di favola, cioè prin¬ cipio, mezzo e fine, traendola dalla confusa, casuale e inconsiderata maniera del ballo, si come si può vedere nelle parole di detti balli, fatte da lui nella città di Ferrara, per ubbidire allora a quel duca. »


NOTA


307


Ho creduto invece opportuno di raccogliere in appendice, oltre l’avvertenza del Ciotti, gli Intermezzi che il Rossi pubblicò nel suo volume, traendoli dal codice ferrarese 156, tomo 1, carte 23 r- 28 r e carte 18 r. Il Rossi li ritiene opera del Guarini medesimo e crede che i primi di essi, preparati per la rappresentazione che del Pastor fido doveva darsi a Mantova nel {592, abbiano invece servito per la rappresentazione che fu data il 22 novem¬ bre 1598 per festeggiare il passaggio di Margherita d’Austria, che andava sposa a Filippo III di Spagna, e pensa che a quel¬ l’anno deva assegnarsi la lettera senza data (da lui pubblicata nel n. xxxviii dei Documenti ), con la quale il Guarini li accompa¬ gnava al figlio. Ma poi mostra di credere che alla rappresenta¬ zione del '98 abbiano servito gli intermezzi che egli pubblica nel n. xxxxi dei Documenti. Quando egli pubblicò il suo volume (1886), non si conosceva nessuna relazione della rappresentazione del '98 e si lamentava perduta quella che ne aveva fatta il se¬ gretario ducale Chieppio; due anni più tardi Achille Neri ebbe la fortuna di trovare la relazione, che delle feste fatte a Margherita d’Austria stese il napoletano dottor Giovan Battista Grillo, in un rarissimo opuscolo, pubblicato a Napoli nel 1604.

Descrivendo la rappresentazione del Pastor fido, il Grillo riporta integralmente gli intermezzi rappresentati in quella occasione, che il Neri ritiene opera di Alessandro Guarini, figlio di Gian Bat¬ tista, e che sono cosa del tutto differente da quelli pubblicati dal Rossi, poiché essi nell’ insieme costituiscono una commedia mimica, che ha per argomento le nozze di Mercurio con la Filologia. Bisogna dunque ritenere che ad altro anno e non al *98 si deva assegnare la lettera del Guarini al figlio pubblicata dal Rossi, e che gli In¬ termezzi da questo editi siano stati preparati per altra rappresen¬ tazione che quella del '98: a creder ciò mi conforta anche il fatto che in essi nulla c’è di allusivo alle nozze della principessa au¬ striaca, omissione che non si potrebbe per nulla spiegare (>). Grazie alla cortesia del bibliotecario della Comunale di Ferrara, dott. G. Agnelli, questi Intermezzi sono stati coliazionati sul ins., del quale un unico luogo, come già aveva fatto il Rossi, ho creduto mutare: pag. 296, r. 8 « se » in luogo di «che».


(1) Cfr. il volume dei Rossi alle pp. 225 e 232; e A. Neri, Gli « Intermezzi » del «Pastor fido » in Giornale slot, della lett. Hai., xi (188S), 405 e sgg.


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NOTA


Suila vita e le opere del Guarirli, e in particolar modo sul Pastorfido, il lavoro più compiuto rimane ancora quello del Rossi ( 0, al quale nulla di importante si è aggiunto, tranne il breve scritto del Neri, dal quale ho tratte le notizie su riferite intorno agli In¬ termezzi : lo studio premesso dal Casella alla sua edizione del dramma nulla di nuovo aggiunge a quanto si sapeva prima del Rossi, e solo può importare, ma fino a un certo punto, per la valutazione estetica del dramma. Tuttavia quasi esclusivamente su di esso fondò la sua Introduzione il signor Camillo Orlando, che curò l’edizione strasburghese del Paslor fido. Una notizia a tutti sfuggita, ma non al Croce, è quella di una rappresentazione del fortunato dramma data a Nola nel 1599, per la quale Giambattista Marino scrisse il prologo ( 1 2 >.


(1) Battista Guarirti e il Pastor fido, studio biografico critico con documenti inediti per Vittorio Rossi, Torino, Loescber, 1SS6.

(2) Cfr. la Nota bibliografica, p. 403, n. i, in calce al volume: Giambattista Marino, Poesie varie a cura di Benedetto Crock, Bari, Laterza 1913. 11 Croce però non ripubblica questo prologo, conservato in un opuscoletto di dodici pagine nella Nazionale di Napoli.


INDICE DEI NOMI DEL « COMPENDIO »


Abraam, 270.

Agatone, 244.

Anacreonte, 251.

Ariosto Lodovico, 222.

Aristofane, 226, 245.

Aristotile, 220, 221, 223, 224, 227, 228, 229, 230, 231, 234, 235, 236, 238, 239, 241, 243, 244, 245, 247, 250, 251, 252, 255, 257, 258, 259, 260, 261, 262, 265, 266, 267, 268, 270, 272, 273, 276, 280, 284, 285, 286, 287, 288.

Ateneo, 247.

Basilio magno, 271.

Beccari (de’) Agostino, 272,273,274.

Boccaccio Giovanni, 235, 237.

Bruto Marco, 240.

Casa (della) Giovanni, 252.

Catone uticense, 240.

Catullo Valerio, 251.

Cicerone Marco Tullio, 228.

Dante, 222, 255.

David, 234, 270.

Demetrio falereo, 248.

Demostene, 249.

Diogene Laerzio 272.

Donato Elio, 247, 248.


Ermogene, 249, 250.

Eschilo, 247, 272.

Euripide, 226, 236, 241, 247, 266, 285, 286.

Filone, 270, 271.

Filosofo (il) v. Aristotile.

Giacob, 270.

Isacco, 270.

Lucrezia, 240.

Lucrezio Caro, 244.

Menandro, 245, 246.

Mosé, 270, 271.

Omero, 222.

Orazio Fiacco, 222, 228, 246, 247. 251, 272.

Ovidio Nasone, 254.

Pindaro, 251.

Platone, 249.

Plauto, 226, 245, 247, 275, 278. Petrarca Francesco, 237, 251, 253, 255 -

Polibio, 253.


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INDICE DEI NOMI


Porfirio, 261.

Pratina, 247.

Rintone, 247.

Saul, 234.

Senofonte, 249. Sofocle, 226, 236, 238, Stefano, 247. Stesicoro, 251.

Suida, 247.


Tasso Torquato, 222. 273, 274. Teocrito, 254, 272.

Terenzio, 226, 245, 246, 247, 248, 262, 278, 281, 2S5.

Tespi, 272.

Vairone Marco, 270.

239, 242, 272. Virgilio Marone, 222, 251^253/254, 272.


INDICE


Il pastor fido

Argomento.pag. 3

Prologo.» 7

Atto primo.» 13

» secondo.» 47

» terzo.» 81

» quarto.» 123

» quinto.» 167

Compendio della poesia tragicomica tratto dai duo

VER ATI PER OPERA DELL’AUTORE DEL «PASTOR FIDO»,

COLLA GIUNTA DI MOLTE COSE SPETTANTI ALL’ARTE . . » 217

Appendice

I. Intermezzi per una rappresentazione del Pastor fido . » 291

II. Altri intermezzi.» 295

III. Avvertenza dell’editore Ciotti.» 299

Nota.» 301

Indice dei nomi del * compendio » » 309












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