Hecatelegium  

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Hecatelegium is a book by Pacifico Massimi, translated by Alcide Bonneau in 1885 as Les cent élégies.


L'ECATELEGIO DI PACIFICO MASSIMO INTRODUZIONE

from L'ermafrodito di Antonio Beccadelli. L'ecatelegio di Pacifico Massimo introduced by Angelo Ottolini

Pacifico Massimo è poco conosciuto, anche le letterature ne tacciono il nome. Nato da una ricca famiglia di Ascoli eb- be vita misera e randagia; fu un bohémien delle lettere; pro- vò tutti i mestieri senza trovar quello adatto alla sua natura. Suo padre, Giovanni de' Massimi, era, verso il 1390, il capo dei Guelfi di Ascoli. .Cacciato dalla città vi ritornò con la for- za insieme coi suoi fautori, e, riconquistato il potere, cacciò a sua volta i Ghibellini i quali tornarono alla riscossa e, co- me narra lo stesso Pacifico neìì' Hecatelegium, (II, 8) diedero fuoco alla sua casa. Allora il padre, per salvarsi, si lasciò ca- lare da una finestra con una corda. In quella notte tragica della fuga egli nacque in mezzo ai campi. Il poeta ci parla della sua nascita e ricorda anche il nonno Martino che, fug- gendo su un asino bolso, venne divorato dai lupi. — Giovan- ni de' Massimi riuscì più tardi a riconquistare il poter© e fu creato dal pontefice governatore dì Ascoli, in premio della sua fermezza di carattere.

Pacifico passò i suoi primi anni a Campii, cittadella po- co distante da Teramo, così invece di poeta asculanus che si legge in testa ad ogni libro dell' Hecatelegium, ricorre quel- lo di poeta camplensis, in altri lavori come nei Trionfi dedi- cati a Braccio Baglioni (1), pubblicati per la prima volta da


(i) Christi nomine invocato. Pacifici Cam-plensis de Maxi- tnis de Asculo liber ■primus T num-phorum incipit feliciter.


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Giov. Battista Vermiglioli (2). PaciOco amava questo asilo del- la sua giovinezza e lo ricorda come un'agglomerazione di tre borgate. {Hecalel., II, 8.)

Nella biografia latina (Vita Pacifici Maaimi ex atheneo Asculano deprompta) che precede un'edizione espurgata del- le sue opere (3) si ricorda che appena suo padre potè ricu- perare il potere in Ascoli egli ebbe eccellenti maestri e che il fanciullo, dotato di fervido ingegno, studiò in breve la grammatica, la rettorica, la filosofia, la matematica, l'astro- nomia. Più tardi acquistò grande riputazione nel diritto e fu uno dei più abili giureconsulti del suo tempo. Ma è sopratut- to come poeta che merita d'esser ricordato. Lo si reputava uno dei migliori quantunque lascivo nella vita e nell'arte e cinicamente confessasse di esser tale.

Nato nel 1400 morì, a cent'anni, nel 1500 ed ebbe vi- ta stentata e misera. Il padre morì vittima della fazione ghi- bellina e gran parte de' suoi beni vennero confiscati. Il poe- ta si lamenta spesso della miseria in cui è piombato dalla smisurata ricchezza in cui si trovava. In una supplica rivol- ta al re di Napoli, Ferdinando d'Aragona, (Hecalel., V, 9) che dev'essere del 1458 ali 'incirca, dacché lo chiama nova gloria regni, ci fa sapere che si trovava in esilio e che la fazione ri- vale l'aveva spogliato de' suoi averi. In questo frattempo e- gli aveva perduto, oltre il padre e la madre, anche la moglie con la quale non visse troppo d'accordo (Hccatel., I, 5) e i tre figli che da essa aveva avuto. Nel 1459 lo troviamo a Pe- rugia al collegio gregoriano della Sapienza Vecchia, proba- bilmente era professore di diritto o di belle lettere. Quivi pre- se parte a una sedizione armata di studenti dell'Università, come egli stesso racconta in due epistole in versi dirette a Cosimo de' Medici pubblicate a pag. 281 e 282 delle Memo-


(2) Poesie inedite di Pacifico Massimo Ascolano in lode dì 'Braccio II Paglioni, cafita.no de^ Fiorentini e generale dì S. Chiesa. Perugia, 18 18, in-4°.

(3) Carmina Pacifici Maximi, poeta Asculani. (Parma, a- 'fud Galeatium Rosatum, Superiontm consensu, 1691, in-4'>.).


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rie di Jacopo Antiquari. Il tumulto fu sedato da Braccio Ba- glioni luogotenente della Santa Sede a Perugia. Pacifico che era con lui legato di amicizia lo cantò nei due Lbri dei trion- ; fi, il primo consacrato alle virtù civili, il secondo alle vir- [■ tu belliche e nella Draconide poemetto in tre canti in cui ri- ^' cerca le origini favolose della famiglia Baglioni. i

Passato a Roma fu ospite del papa Sisto IV nella Villa Farnese di cui lasciò una descrizione (Hecatel, IV, 3) e tes- sè gli elogi del pontefice per aver abbellito la città di gran- diosi monumenti {Hecatel, IV, 5) (4). In mezzo a tanto splen- dore parrebbe che Pacifico dovesse trovarsi bene, ma cosi non fu. Scrivendo al suo amico Bittinico {Hecatel, IV, 4) di- chiara di trovarsi nell'impossibilità di poter vivere a modo suo in Pioma e lamenta che, pur sapendo di astrologia, di medicina, di grammatica, di rettorica.... di arte culinaria, non riesca a sbarcar il lunario. Ch'egli fosse esperto anche nella medicina risulta da diversi passi dell' Hecatelegium (spe- cie III, 8, V, 10) ove domanda ad Alfonso d'Aragona, re di Napoli, di esse.' e assunto quale medico dell'esercito e pre- tende di possedere un'acqua miracolosa che risana le ferite. La sua arte più fruttifera fu certo quella del precettore e co- me tale fu presso i Baglioni e i Salviati.

Come avrà insegnato quest'uomo immorale? Noi certo non l'aAremmo voluto per maestro e non gli affideremmo i nostri figli. Ben è vero che Virgilio scrisse le Georgiche sen- za aver fatto l'agricoltore e l'Eneide senza mai esser stato du- ce, ma noi non giuriamo che Pacifico sia stato corretto nel- la vita anche se rispondendo a Braccio che condannava l'o- pera sua, affermasse:

Desine me. Bracci, sacrum damnare poetam; Mens mea, cantato Carmine, munda manel;


(4) Su l'opera di Sisto IV cfr E. Mlntz, les arts à la cour des fapes -pendant le XV .e et le XVI. e siede. Troisième partie, Siste IV, Leon X. Paris, 1882.


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Virgilius nullo disjecit moenia belio,

Nec pecudem pavit, nec bove vertit liumum. (5)

Sisto IV e Braccio Baglioni non furono i soli suoi pro- tettori. Egli cbb3 anche il favore di Nxolo V, di Po II, di Lo- renzo de Medici, del re d'Ungheria Mattia Corvino, di Alfon- so e di Ferdinando d'Aragona re di Napoli i quali ultimi lo colmarono d'onori, gli decretarono la corona poetica. Alfonso lo fece anche cavaliere, il qual titolo si accordava solo alle persone di merito insigne.

Pacifico finì i suoi giorni a Fano ove si era ritirato, non si sa per qual motivo. Nella sua lunga vita scrisse moltissime opere che ora sono pressoché ignorate. Egli si esercitò nei generi più diversi, anche nella matematica e lasciò un calen- dario perpetuo dedicato a Jacopo Salviati. Risolveva mediante un sistema grafico speciale tutte le difficoltà di costruzione del- l'esametro e del pentametro. Questo sistema riprodotto nella edizione espurgata dei Carmina (Parma, 1691) ornava un opu- scolo che aveva fatto stampare a Firenze nel 1-185 contenente un poema latino in onore di Giovanni Fatale Salvaglio, un discorso in prosa pronunciato dal poeta nel senato di Lucca in occasione d'una distribuzione di stendardi e il trattato De componendo hexameiro et pentametro. La prima edizione del- ì'Hecatelegium è del 1489. L'autore della biografia latina ci- tata, dice d'averne vista una seconda edizione, di cui non precisa la data, stampata a Bologna, portante il ritratto di Pacifico, molto vecchio, cinto dal lauro poetico. Una terza e- dizione fu fatta a Fano (1506 per Hieronymum Soncinum) e questa contiene fra l'altro due poemi in cui Pacifico, rinun- ciando alla vita precedente, si fa campione di castità e di pu- dicizia: In laudem Lucretiae Lòri duo; in laudem Virginiae libri duo. L'edizione di Fa: ma (1691) contiene pure queste o- pere ma l'Hecatelegium è espurgato. L'Hecatele^ium fu inol-


(5) G. B. Vermiglioli^ Poesie inedile di Pacifico Massi tnOj cit.


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tre edito dal Mercier de Saint-Léger nella raccolta dei quin- que illiistrium poel(rum, Parigi, 1791, in estratto dal For- berg nel 1821, nell'edizione Liseux, Parigi 1885 su un esem- plare che si conserva alla Biblioteca Nazionale di Francia, e in forma molto ridotta e scorretta nel 1914.

Scrisse inoltre Pacifico: de bello Spartasio libri sex; de bello Cyri regis libri seplem; de bello Syllae et Morii libri duo; grammalica de regimine verborum graecorum, soluta et vincta orai'ione conscripta, ad Hyppolytum filium, opere che furono edite fra il 1500 e il 1506 a Fano da Gerolamo Soncino. Altri suoi lavori rimasero manoscritti e ignorati. Giov. Battista VermiglioU stampò i Trionfi e la Dracouide per illuminare la memoria di Braccio Baglioni aggiungendovi 42 epigrammi che lo riguardavano. Si occupò di filosofia, scris- se: De sapieniia libri sepiem; de castitate libri odo; de ma- deratione animi; de bono; de fato; de anima libri novem, de divina providentia libri decem almeno secondo quel che di- ce nella prefazione al libro Vili dell'Hecatelegium.

L'opera però a cui è legato il suo nome è ì'Hecatelegium medicinte la quale egli passa alla testa dei poeti erotici del suo tempo. Il libro è troppo scurrile perchè si possa ripro- durre e tradurre integralmente. Noi ci accontentiamo di dar- ne un piccolo saggio e di aggiungere dei puntini ove la fra- se sarebbe riuscita troppo cruda. E' questo il primo tentati- vo di versione che si compie presso di noi.


Angelo OttoHni.

V HECATELEGIUM

DE MARTIA

Ccecus amor meus est, nec se bene temperai ardor,

Flammaque non certo stat mea fixa pede. Saepe meam laudo fortunam saepeque damno;

Saepe miser cupio vivere, saepe mori. Spes modo cum cecidit, rursus spes altera surgit;

Nuno ego laetitia tristitiaque vehor. Sic labat in Ponto, sic ventis credit utrisque,

Cum levis assueto pendere cymba caret. Sic et se Boreae Zephyro sic praebet, et Euro

Virga nec aversa est, cum venit ille. Noto. Si me turbato respexit Martia vultu,

Dispereo, et vitae nil superesse puto. Gaudeo, si gaudet: sum tristi tristior illa;

Rideo, si ridet: si flet, et ipse fleo. Oscula cum jungit cum me complectitur, ipsum,

Timc me majorem non reor esse Jovem: Cum mihi complexus, vel cum negat oscula, buxo

Tunc sum pallidior, turbidiorque freto. Cum mala narrai sua, quamvis sit fabula mendax,

Qua me suspendam tunc ego quaero trabem.


UECATELEGIO


MARZIA

Il mio amore è cieco, il mio ardore non si può frenare e la mia Camma non sta ferma su un sicuro piede. Spesso io ringrazio la mia sorte e spesso la condanno; infelice, spes- so desidero vivere, spesso morire. Ora tramonta una speran- za, e un'altra ne sorge; ora son preso da gioia ed ora da tri- stezza. Così la leggera barca traballa nel mare, così cede al- l'uno e all'altro vento quando difetta del naturai suo peso. Così il ramo si presta a Borea e a Zefiro e non è contrario ad Euro e quando spira a Noto. Se Marzia mi guarda con il vol- to turbato, mi dispero e credo che poco mi rimane di vita. Io godo se gode, son più triste di lei s'ella è triste; rido, se ride; se piange io stesso piango. Quando mi dà baci e mi ab- braccia allora penso che Giove non è maggiore di me: quan- do si rifiuta d'abbracciarmi, o mi nega i suoi baci, divento pili pallido del bosso, pivi torbido del mare. Quando mi nar- ra una disgrazia, cerco allora ima trave per ivi impiccarmi.


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Si quem respectat, vel si cui ridet, et ensem

Nunc facis (exclamo per latus ire meumi) Quaelibet est omni lux et nox quaelibet anno

Longior, insomnen noxque diesque vldet. Si cubo non possum placidam sentire quietem,

In nulla possum parte jacere thori. Fundo graves gemitus; nunc liac nunc volvor et illae,

Me miserumi quamvis non dolor ullus agat. Sed dolor ccquari misero quis possct amori?

Non ilio toto est major in orbe dolor.


II


AD UXOREM


Dii te disperdant, uxor malegrata marito,

Sarcina non humeris apta sedere meis! Et libi dematur non uno vita dolore.

Et mortis gravius sit libi morte genus. Quae mihi te Furiae («da juxere jugali?

Concinuit bubo quod mihi Carmen avis? Et satjus fuerat flammas immittere tectis,

Quam te, quae flammis deteriora facis; Et Dii- te primo jugulassent limine, sponsa,

Offenso dederas cum mala signa pede. Et bene tum poteras non respirare palato,

Cum l'ueras thalamo tu mihi pacta meo. Tum potuit melius mea frangere gultura dextra,

Cum dare conccpit te mihi mente pater. Si te cum poperit mater, tibi fila fuissent

Trunca, foret sub tot non mca vita malis. Femina Tartareo tu me generata baratro,

Tu me, tu media sub Styge naia petis?


105

Se riguarda qualcuno, se a qualcuno sorride, è una spada, grido, con cui tu mi trapassi il cuore. Allora un giorno, u- na notte, mi sono più lunghi di tutto un anno; il giorno e la notte io li passo insonne. Se mi sdraio non posso gustare la placida quiete; in nessuna parte del letto posso trovar riposo. Verso gravi lamenti; or mi volto da una parte or dall'altra, o me misero, sebben nessun dolore mi travagli! Ma qual do- lore può competere con un mal d'amore? ISessun maggior dolore vi è in tutto il mondo.


Il


ALLA MOGLIE

Alla malora, moglie odiosa al marito, peso non adatto alle mie spaJlel Ti sia tolta la vita da mille dolori e il tormen- to della morte ti sia più grave della morte stessa. Quali Furie e con quale fiaccola ti hanno a me congiunta? qual canto intonò per me il gufo? Avrei fatto meglio ad abbruciar la casa piuttosto che sposar te che sei peggiore del fuoco; gli dei avrebbero dovuto strangolarti sulla soglia quando tu, var- candola col funesto piede, davi tristi presagi. Tu non avre- sti dovuto più respirare quando per contratto mi fosti data in moglie. Avrei fatto meglio a tagliarmi con la destra la go- la quando tuo padre pensò di darti a me. Se fosti morta quan- do tua madre ti mise alla luce io non soffrirei così tanti mali. Femmina generata dal profondo Tartaro, nata in pieno Stige


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Et modo me vinctum pacto, modo jure jugali

Dicis, et invitum credis habere virum? Nil sapis, et stulta es, si me tu velie redire

Te viva et vita non abeunte putas, Ante sua bellum concors igne manebit aqua,

Cumque suo concors igne manebit aqua Quam redeam, quam me reducem tua tectà rcvisant

Dum vitam duces, dumque superstes eris. Ante velim media caput hoc immittere terra,

Pectoribus quam sint haec mea juncla tuis. Et prius emoriar quam quovis tempore fiant

Obvia luminibus lumina nostra tuis. Te bene qui memorat, vult hic meus hostis haberi:

Te male qui memorat vivere, vult ut amem. Nuntiat ereptam si quis te rebus, habebit

Quas mea secretas arca coercet opes; Illa dies nobis veluti genialis agetur;

Inter et albentes tunc erit illa dics. Res mala, quid vivis? quid vivis pessima rerum?

Quidve tua tardas frangere colla manu? Pontia te melior, melior Medea reperta est,

Tuque venefìcio vincis utramque tuo. Tu quoque tres a me peperisti, femina, natos:

Die ubi sunt nati, pignora cara, mei? Te Phoebus nollet, nollet te Luna videre;

Te visa vultu pallet uterque suo. Prassentem mairi, dum natam luget ademptam,

Dum luget natum, te decet esse patri. Te dccet in solis tractare cadavera bustis,

Deque sepulchretis ossa tenere sinu. Si sapis, in lucem tentes prodire caveto:

Haec solet obscuris umbra vagare locis. Sic ibat repetens, pomis deceplus et undis,

Tantiileam sicco Tantalus ore domum, Et sic Herculeos Athamantheosque petebat

Tisiphone, misso crinibus angue suis.


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sei tu, tu che mi tormenti? Tu pretendi ch'io ti sia legato per contratto, per diritto coniugale e credi di aver, contro sua voglia, il marito? Tu non sai nulla, tu sei stolta se pen- si ch'io voglia ritornare a te, prima che tu abbia lasciato la vita. La guerra s'accorderà con la pace, l'acqua col fuo- co e col fuoco l'acqua vivrà in buon accordo prima che io ritorni, che la tua casa mi abbia a rivedere finché tu sei in vita, finché sei superstite. Vorrei piuttosto andar sotterra an- ziché congiungere il mio petto col tuo, e prima morire in qualsiasi tempo anziché i miei occhi abbiano ad incontrarsi coi tuoi. Chi parla bene di te vuol esser mio nemico; chi di- ce che tu vivi malamente vuol ch'io l'ami. Chi mi annun- cerà la tua morte avrà tutto l'oro che racchiude il mio scri- gno. Quel giorno sarà per me di festa come il giorno nata- lizio, quel giorno sarà fra quelli che si segnano in bianco. Cat- tivo soggetto, perchè vivi? Perchè vivi, pessima creatura? Perchè indugi a strozzarti con la tua mano? Ponzia valeva più di te, Medea pure, tu con la tua malìa superi l'ima e l'al- tra. Tu pure mi desti, o donna, tre figli. Di, dove sono i miei figli, i miei cari figli? Il sole rifiuterebbe di vederti e anche la luna: l'uno e l'altra impallidirebbero a vederti. Il tuo posto è davanti a una madre che piange la figlia mor- ta, davanti a un padre che piange la morte del figlio. A te conviene togliere i cadaveri dai roghi abbandonati e nascon- dere in seno le ossa sottratte ai sepolcri. Se sei saggia tenta di esordire in quest'arte: un'ombra come te deve errare nei luoghi oscuri. Così andava, ingannato dall'acqua e da frut- ti, riguadagnando la Casa Tantala Tantalo, con la bocca asciutta. Così Tisifone riguadagnava le dimore di Ercole e


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Exerces in me non una noxia culpa,

Non interposita pessima quoque mora Haìc tua cum loquilur de me male tincta veneno,

Apta foret natibus lingua sedere tuis. Non satis est prò te profugum fugisse, domoque

Cum dulci patria me caruisse mea : Et modo me teneros pueros tu dicis amare,

Me modo nolle pati teque tuumque genus. Mentiris. Vel si forsan sunt vera, tegenda

Illa forent, et tu publica voce facis, Et modo succ^sum, modo me male pene valere,

Et modo privatum testibus esse meis. Si valeo, si sunt testes, si mentula tota,

Scis bene; non illud dissimulare potes. Mente putas ad te sana me velie redire?

Ad te me sana mente redire putas? Non res, non facies, non mos, non ulla venustas

Est in te, quae me cogat adire domum. Interea si te stimulat vesana voluptas,

Et si non olidum quod petit ulcus habet, Ardentem poteris torrem demergere cunno,

Qui tibi vermiculos tergat agatque foras.


Ili


AD PAULINUM


Convenit et laus est depellere crimlna semper, Semper virtutes et benefacta sequi.

Qui vult se socium cuiquam pra?bere malorura, Vult etiam socii nomen habere sui.


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d'Atamante messosi un serpente ne' capelli. Tu sei colpevo- le verso di me non una volta sola, tu non cessi di far ma- le. Quando la tua lingua velenosa parla male di me sarebbe atta a leccare il tuo sedere. Non basta che per te io sia in e- siglio, ch'io sia privo della casa e della dolce patria: tu dici ch'io amo i miei teneri figli e che non posso sopportare né te né il tuo sesso. Menti. Se fosse questa cosa vera bisogne- rebbe non dirla e tu la rendi pubblica e ora tu mi dici am- putato, ora che sto male in arnese e ora che ne son privo

Se ho tutte le mie parti tu lo puoi provare. Puoi tu cre- dere, a mente sana, ch'io abbia a ritornare a te? Credi che io, a mente sana, ritomi a te? Tu non hai cosa, né figura, né carattere, né beltà che mi esorti a ritornare a casa. Frat- tanto se qualche frenetico prurito ti slimola e nessuno ti cor- teggia adopera un tizzone ardente


UI


A PAOLINO


Conviene sempre ed è lodevole respingere le accuse e praticar sempre la virtili e le buone azioni. Chi vuol essere compagno di qualche disonesto vuol anche avere il nome del compagno. Anche questo zoppica poiché quello con cui


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Claudicat hic, quoniam cum quo commercia junxit,

Unus erat longus, pes brevis alter erat. Saepe aliquem vidi, balbo quod junctus adhaesit,

Non satis integrae vocis habere sonos. StTspe pecus totum vidi quod ovile peremit,

Mille licet pecudes, haec licet una foret. Saepe etiam laetis arbor pulcherrima pomis

v^icinae vitio languida facta perit. Causa mei moris solus fuit ipse magister,

Cui pater et ma ter ine male cauta dedit. Rex paediconum fuit hic: non unus ab hujus

Effugit manibus, talis in arte fuit. Multa quidem didici, quae non didicisse juvaret:

Plurima per culum, multa per ora bibi. Tu quoque quid non hunc vitas, Pauline, quid ipsum,

Cum quo conjungis non latus ipse vides? Et mecum dubito, simili ne sorde traharis,

Namque solet semper par adamare parem. Non bona narrari de te jam fabula coepit;

Per sua te populus plurimus ora terit. Jamque cani pateris longam succidere caudam,

Prima novo non haec nomine fama cadet. Et nisi tu sapies, nisi te revocabis ab isto,

Non aqua te poterit tota lavare maris. Hic a gallina subduceret ova fovente,

Hic soleas vigili surriperetque pedi. Si paedico tenet puerum complexibus arctis,

Qua puer hic artem subtraheretur habet. Sicque manum cohibet, sic linguam: victus ut esses.

Hermogenes, furto, Batteque, fraude tua. Nuper in orchestra spectator forte sedebam:

Surripuit natibus molle sedile meis. Non puenum tetigit, puero non verba locutus,

Non vidit: brachas attamen ille tulit. Hujus avus fracta, pater hujus fauce pependit;

Non aliter vitam fìniet iste suam.


Jll

s'è unito ha un piede lungo e uno corto. Spesso vidi che chi si accompagna a un Lalbuziente non pronuncia intere le pa- role. Spesso vidi un montone infettar tutto il gregge, quan- tunque egli fosse solo e il gregge risultasse di mille. Spesso pure vidi un albero bellissimo pe' suoi ridenti frutti farsi lan- guido e perire per i mali del vicino. Causa de' miei costumi fu solo il mio maestro a cui mio padre e mia madre, mal- cauti, m'affidarono. Fu questi il re de' sodomiti: non imo de' suoi scolari gli sfuggì dalle mani, tanta fu la sua arte. Molte cose imparai che sarebbe stato meglio non imparare

Tu pure, o Paolino, perchè non lo

eviti? Perchè non osservi il corpo di quello con cui ti acco- pii? Io credo che tu sia infetto dello stesso vizio poiché sem- pre il simile suol amare il suo simile. Corre voce non buo- na di te, e il popolo concorde ti diffama. Tu potrai tagliare la lunga coda del tuo cane, ma se anche cambi nome tale fama ti rimarrà. Se tu non ridiventi saggio, se tu non t'al- lontani da costui, neppur tutta l'acqua del mare basterà a lavarti. Chi sottraesse le uova a una gallina che cova, a un vigile piede leverebbe le scarpe. Se il sodomit^a tiene un fan- ciullo nelle sue chiuse braccia, il fanciullo sa il mezzo per li- berarsene. Così egli trattiene la mano e la lingua perchè tu sia vinto. Ermogene fu vinto d£il tuo furto e dal tuo inganno, o Batto. Poc'anzi si sedeva, per combinazione, spettatori in or- chestra: a un tratto egli mi tolse il molle sedile di sotto. Non toccò il fanciullo, non gli disse una parola, egli non Io vide nemmeno: tuttavia egli si slacciò i calzoni. Il suo avo cadde, suo padre pure, con la gola strozzata. Non finirà diversamen-


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Te quoque (ne dubita) similis jam poena manebit;

Respice si collo funis et uncus inest. Non assis mea dieta facis; libi dicitur il!ud;

Nemo datam pecudem subtrahet ore lupi.


IV


AD PTOLEM^UM


Si fueras, Ptolemaee, meus, tuus ìpse, quid obstat

Nunc quoque quod non es tu meus, ipse tuus? Jamque bonus fueras; nunc es tamen optimus: unde

Optimus es non nunc, ut meus ante bonus? Ante minor, nunc est major tibi gratia : cur non

Est mea nunc major gratia, ut ante minor? Difficilis fueras aliis, mihi mitis; es unde

Mitis nunc aliis, difficilisque mibi? Mirabar quare tantum pietatis haberes;

Nunc miror quare nil pietatis habes. Hei mihi! quot miseris spes invidiosa fuistil

Spes tamen haec illis non nisi vana fuit. Verane fata Deum? vere sunt omnia vera,

Sub coelo aetemum nil statuere Dei. Vestitus assiduo, minima nec perstat in bora

Mundus, et in stabili non manet axe polus. Nunc lustrai terras, nunc sol descendit ad umbras;

Giare dies noctem, nox sequiturfjue diem. Sors etiam refugit; cito ne deprendis, abivit;

Sistere non didicit nec revocare pedes. Me miserum, quod non quondam mea tempora novil

Nunc dare tu non vis sponte quod ante dabas.


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te la sua vita. Simile fine, sta certo, è risenafa a te stesso. Guarda se v'è la corda e l'uncino per il tuo collo. Tu non fai nessun conto delle mie parole : si dice appunto per te : Nes- suno sottrarrà la pecora dalla gola del lupo.


IV


A TOLOMEO


Dacché tu fosti mio amico e io tuo che s'oppone ora perchè tu non sia mio e io tuo? Tu eri allora buono, e ora tu sei ottimo: donde viene che tu non sia ottimo per me, tu che per me eri buono? La tua cortesia da prima era minore, ora è maggiore in te : perchè la tua cortesia non è maggiore verso di me come prima era minore? Allora eri riservato co- gli altri, affabile con me; donde viene che ora sei cortese co- gli altri e con me scontroso? Allora mi meravigliavo di tan- ta gentilezza, ora mi meraviglio che tu non abbia alcuna pie- tà. Ohimè! quale astiosa speranza fosti ai miseri! Tuttavia questa non fu che una vana speranza. Non sono forse veri i destini dati dagli dei? Sono tutti veri: sotto il cielo nulla hanno stabilito gli dei di eterno. Assiduamente si muove e non resta in riposo un'ora il mondo e il polo non rima- ne stabile sul suo asse. Ora il sole illumina la terra, ora di- scende nell'ombra; il giorno chiaro segue alla notte e la not- te al giorno. Anche il destino se ne fugge; se presto non le acciuffi se ne va; non imparò a fermarsi né a ritornare indie- tro. Oh me misero, che non conobbi altra volta il mio tem- po! Tu non vuoi ora più darmi ciò che spontaneamente mi davi. Spesso io vidi l'asino rifiutare l'asinella che gli si of-


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Ssepe ego praelatam cum nollet asellus asellam,

Vidi quod frustra post petit, illa negat. Est resecanda seges, cum campus canet aristis:

Nil in nudato postmodo falce metes. Quse nunc poma gerit gravidis pendentia ramis,

Postmodo imda suis fructibus arbor erit. quotiens illic, ubi fons uberrimus undis

Erupit, pulvis, non aqua lecta fuitl Saepe, ubi constiterat tellus, mare nascitur ingens:

Sape etiam tellus hic ubi ponlus erat. Quantum aetas annique valenti mutatus ab illa es:

Nil primi moris mos habet iste tuus. Tempora fecerunt crudelem, et t/cmpora mitem;

Crudelis nunc es, qui modo mitis eras. Ast ego semper amo, nulloque extinguilur ignis

Tempore; decrescit non mea fiamma mora. Uror, et igne cremor majori; fiamma medullas

Major agit, major corde sagitfa sedei. Crevit amor, quantum crovit tua l'oima, non unquam

Decrescet, stabit dum mea vita mihi. Et prius emoriar, tenuesque resolvar in auras,

Quam te de nostro pectore cura cadat. Fortis amor meus est, nec tempore deficit ullo;

Non me mutaret fulmen et ira Jovis. Et tu, crudelis, nulla pietate moveris

I»iprobus in tanto quid facis igne mori? Quid tua deceptus sinis alter ut ubera sugat?

Inque tuam messem quid sinis alter eat? Jam tibi servantur quascumque, ingrate, paravi,

Et nisi tu nostras nullus Imbebit opes. Illa ctiam major multo est mea mentula: septem

Tunc babuit digitos, nunr habet illa decem.


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friva, di poi invano chiederla ed essa rifiutarsi. Si deve mie- tere quando il campo biondeggia di spighe: quando il cam- po è spoglio invano adopperai la falce. L'albero che ora por- ta frutti pendenti dai suoi carichi rami sarà poi spoglio de' suoi frutti. quante volte dove sgorgò una fonte copiosissi- ma d'acqua si stende non acqua ma polvere 1 Spesso dove si apriva una terra s'è formato un ampio mare; spesso anche si stende una terra ove prima eravi mare. Quanto contano il tempo e gli annil Come ti sei cambiato! Nulla più hai de' tuoi antichi costumi. I tempi ti fecero crudele, i tempi ti resero mite: tu che poc'anzi eri mite ora sei crudele. Ma io sempre ti amo, il tempo non estingue questo mio foco; la mia Camma non decresce col tempo. Ardo e abbrucio di un amore. pili forte: una fiamma maggiore mi serpe per l'ossa, dardo maggiore è fìsso nel mio cuore. Cresce l'amore quan- to cresce la tua bellezza; non mai diminuirà, durerà quan- to la mia vita. E morirò, scomparirò nell'aria leggera pri- ma che l'affetto che ti nutro venga meno. Forte è il mio amore, né verrà meno col tempo: non mi muterebbe il ful- mine e l'ira di Giove. E tu, crudele, non ti muovi a pietà; malvagio, perchè mi lasci morire in così grande fuoco? Per- chè permetti che un altro entri nel tuo campo? Per te, o in- grato, ho apprestato, comunque sia, il mio tesoro e nessuno fuorché te lo avrà. Ora è molto più ingrandito : prima misu- rava sette dita, ora dieci.


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DE PUELLA

Quisquis amat longum non sit sibi taedia tempus

Atterere, et tardis currat ut annus equis. Vidi ego montanis nnollescere collibus uvam;

Quse vento et glacie dura rudisque fuit. Oraque marmorei quotiens consumpta notavi

Fontis, dum gelidas fune trahuntur aquael Saepe Jovi pes est iterum formatus aeno,

Admota trivit quem pia turba manu. Quid docuit rigidis aures praebere magistris

Hyrcanas tigres Parrhasiasque feras? Quid docuit Libycos domino dare colla leones?

Quid facit ut redeat, cum citat alter avem? Omnia maturo tempus producit in aevo,

Et quod non posse credere, tempus agit. Quod nunquam rcbar, fieri quod posse negabam,

Quod spes nulla dabat, longa dat ecce diee. Ecce sedet gremio, mediis jacet ecce lacertis,

Et cubat intepido nostra puella sinu. Haec est quae totiens mortem juravit amanti,

Quae voluit totiens in caput ire meum. Non haec, cum vidit laqueis subnectere colla,

Cumque ensem vidit stringere, tristis erat. Ridebat lachrymas, gemitus ridebat amaros.

Et mea spernebat carmina, dona, preces. A cane vexato fuit haec truculenlior apro,

Haec et calefacto saevior angue fuit. Nunc me suspirat, de me nunc cogitat, illi

Nunc sine me nox est, nunc et amara dies. S|X)nte dat, et majus quod multo est, cogor ad artem;


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ALLA SUA FANCIULLA

Chi ama non si preoccupa di sciupare il tempo e che l'anno scorra come cavalli stanchi. Su colline moniane vidi ammollirsi l'uva, che per il vento ed il gelo era dura e Aerde. Quante volte vidi in secco una marmorea fonte quando con una fune si tirano i ghiacci. Spesso il piede a Giove ridiven- ta di bronzo, quel piede che la pia turba a forza d'accostar la mano consuma. Chi insegnò alle Ircane tigri e alle Parra- BÌo Cere a dar ascolto ai rigidi maestri? Chi insegnò ai Libi- ci leoni ad assoggettarsi al padrone? Chi fa che l'uccello ri- torni quando un altro lo chiama? Il tempo conduce ogni co- sa a maturanza, il tempo compie ciò che ora non puoi cre- dere. Ciò che non mai pensava, ciò che diceva non poter es- sere, che non dava nessuna speranza, ecco che il trascorrer del tempo mi dà. Ecco siede sulle mie ginocchia, ecco giace fra le mia membra la mia fanciulla, e riposa sul caldo mio seno. E' essa che tante volte giurò morte all'amante, essa che tante volte si slanciò contro di me. Essa quando mi vi- de stringere lacci al collo e impugnare la spada non si preoc- cupò. Rideva delle mie lacrime, rideva dei miei amari gemi- ti, sprezzava i miei versi, i miei doni, le mie preci. Essa era piii truce d'un cignale morso da un cane, più crudele d'un serpente riscaldato in seno. Ora mi sospira, ora pensa a me, Ora non passa una notte senza di me, ora anche il giorno senza di me le è amaro, yolentieri si dona e per di più mi ec-


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Sponte intermissum saepe reposcit opus, Ergo ego sum felix, Jove sum felicior ipso,

Audiat hoc quamvis, invideatque licet. Hoc etiam est aliquid potior post mille labores;

Saepe fatigato plus placet ore cibus. Qui mala sunt passi, quae sint bona noscere possunt;

Ardua qui fuerant per loca, plana volunt. /um sapiet vinum, cum prsegustatur acetum,

Felleque libato dulcia mella juvant. Tristis eram quondam, curaque premebar avara:

Nunc ego sum laetus, curaque nulla premit. Longa dies dedit hoc, dedit hoc patientia nobis;

Cunctando felix exitus ipse fuit. Difficili et duro nemo desperet amori :

Si quod amat, quis vult, discat amare diu.


VI


AD PRIAPUM

Miles in arma furens rigidum vocat horrida Martem;

Si quis amat, facilis sit rogat usque Venus. Pallada, qui lanas, Cererera, qui ducit aratra,

Tutorem pecudum Panaque pastor habet. Mercurius furi, pariturae maxima Juno,

Et venatori casta Diana favet: Te natumque tuum pudet ad mala nostra vocare;

Carminibus vires te dare, Phcebe, sat est: Hortorum custos, tu solus, summe, tuorum,

Arte salutifera, Sancte Priape, fanel Sic tibi non dcsit maturi copia pomi,

E manibus nulius fur fugiatque tuis. Sic tu considas tectis sublimis eburnis,

Ne sol exurat, ne granet unda caput


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cita; spesso domanda che si riprenda la cavalcata a bella po- sta interrotta. Io ne sono felice. Più felice dello -stesso Gio- ve, e lo sappia chiunque e mi invidi chi vuole. E di questo io gioisco dopo mille fatiche: spesso il cibo piace di più a una bocca stanca. Quelli che soffrirono tanti mali, quelli so- lo possono conoscere il bene. Chi cammina per luoghi ardui desidera il piano. Il vino ha più sapore quando s'è gustato l'aceto; dopo il fiele fa più piacere il dolce miele. Altre vol- te io era triste, ero oppresso da un grave pensiero: ora sono lieto, nessun pensiero mi turba. La lunghezza del tempo mi concesse ciò che desideravo, questo me lo diede la pazien- za: pazientando ebbi questo buon esito. Nessuno disperi del- l'amore inflessibile e duro: se vuol avere ciò che ama impa- ri a perdurare in amore.


VI


A PRIAPO


Il soldato nel suo furor guerresco invoca l'orribil Mar- te; chi ama prega Venere che gli sia propizia. Chi tinge lana si rivolge a Pallade e chi coltiva la terra a Cerere, il pastore ha per tutore del suo gregge Pane. Mercurio protegge i la- dri, la grande Giunone le partorienti, la casta Diana i cac- ciatori: a te e a tuo figlio è vergogna chiedere il mio aiuto, basta, o Febo, che tu ispiri il canto. Tu, o sommo custode de' tuoi orti, tu solo con l'arte salutifera, o Santo Priapo, soc- corrimi! Mai non ti manchino abbondanti frutti maturi e nessun ladro sfugga alle tue mani. Segga tu in un trono po- sto su sublime tetto d'avorio, né il sole ti bruci, né l'acqua ti bagni il capo. Se Nettuno rifiuterà d'aiutare i naviganti.


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Si Neptunus opem nautae praebere negabit,

Fluctibus in modicis obruet unda ratem. Quod si Vulcanus nulli succureret igni,

Flagrarci subita quaelibet igne domus. Tuque meum si non properas sanare priapum,

Decidet. Heul non hoc nobile robur erit. Ante mais oculis orbatus priver, et ante

Abscissus foedo nasus ab ore cadati Non me respiciet, nec me volet ulla puella;

In me etiam mittet tristia sputa puer. Tunc delecta ager, gravidis cum canet aristis;

Vinea, cum pingues congerit uva lacus. Sed semper Isetis didicit Fortuna nocere:

Indoluit nostris invidiosa bonis. Laetior, heul toto me non erat alter in orbe;

Si cadet hic, non me tristior alter erit. Me miserum! Sordes quas marcidus ore remittitl

Ulcera quae foedo marcidus ore geriti Aspice me miserum precor, o, per poma, per hortos,

Per caput hoc sacrum, per rigidamque trabem, Summe Pater, miserere mei, miserare dolentis,

Meque tuis meritis fac precor, usque tuum. Hunc ego commendo tota tibi mente, Priape;

Fac valeat, fac sit sanus ut ante fuit. Ecce tibi offici quo sim memor: ista columna

Cerea ponatur tantaque quanta mea est. Vox prece finita, signum dedit ille priapo,

Quod me sanandi maxima causa fuit, Quodque magis mirum est, nil sentit mentula morbi'^

Convalui, et melius quam prius illa salit. Illa salit: quicunque puer, quaecunque puella Occurret,, certum est hanc recacare trabem.


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l'onda ancne con leggeri flutti sommergerà la nave. Se Vul- cano non aiuta a spegnere il fuoco tutte le case abbrucereb- bero per improvviso fuoco. Se tu non t'affretti a sanare il mio priapo, io son perduto. Ohi non avrà più la sua distinta for- za. Possa prima esser privato de' miei occhi e il volto esser- mi deturpato col taglio del nasol Non mi riguarderà, né mi vorrà alcuna fanciulla; contro di me lanceranno schivi spu- ti i ragazzi. La campagna rigioisce quando biondeggia di grosse spighe; la vigna quando l'uva rende laghi di vino. Ma la fortuna si compiace sempre di nuocere ai lieti; invidiosa si duole della mia felicità. Piii lieto di me, ohi non v'era al- cuno in tutto il mondo; se questo mi venisse meno, nessu- no sarebbe più di me triste. Oh me misero! Qual marciume esce dalla sua bocca!

Abbi pietà del mio malore, te ne prego, per questi frut- ti, per questi giardini, per questo sacro capo, per questa ri- gida trave, o Sommo padre, abbi di me pietà, pietà di me dolente, e fa di me, per tuoi meriti, un tuo fedele. Io te lo raccomando, o Priapo, con tutte le mie forze, fa che stia be- ne, fa che sia sano come prima. Ecco come ti ringrazierò del tuo t^nefìdo: ti dedicherò una colonna di cera grossa come la mia. Finita questa preghiera il dio mi diede un segno che fu la prima causa della mia guarigione, e ciò che fa più meravi- glia, io non sentii più dolore .... ... ?


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VII


DE LUSCA


Luscam amo; nec minus hanc vellem, sì caeca fuisset:

Non opus est oculis, plus satis unus erit. Lumina si quis habet, teneat precor et tegat illa,

Nam me, cum videor, non juvat ulla Venus. Hoc et honestatis iubet hos et causa pudoris:

Stultus erit, si quis non sua furta tegit. Nemo unquam potuit patiens mea facta videre:

Quod facta haec, non ut facta, referre potest, Jussit Amor tecto caelari gaudia pene;

Non laetor, si non ille sepultus erit. Illud opus cum fit si tantum spector ab imo

Lumine, fit multo gratius illud opus. Tum mihi, ni tanquam calce insultaret asellus,

Ore potest nemo, nemo nocere manu. Quod si luminibus caperer, non ipse macellis

Abstraherer, pictis eximererque locis. Per vineta gradus, et per canneta moverem

Vere novo, rebus cum nova gemma redit. Qui laxat bellum, qui pacem claudit amarem,

Aut Argum, aut Argo quas dea pinxit aves. Non pascor vana, nec re minus utile, nam me

Quod facio, non quod specto juvare potest, 'Aspicio multos, quos visus pascit inanis.

Et juvat insana se saturare face. Crede mihi, nihil hi sapiunt, nec dulcia noscunt,

Qui possunt vento vivere, more lupi. Hos ego non timeo rivales mille: timerem

Unum illmn, insidias qui locat arte magis. Hos cave, qui vadunt soli, qui lumina terrae

Defigunt, mutos quosque putare potes.


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VII


6U UNA LOSCA


Io amo una losca, e non l'amerei meno se fosse cieca: non c'è bisogno di due occhi, basta anche uno solo. Chiun- que ha due occhi li tenga chiusi, lo prego, e li copra, perchè se mi vede nessuna voluttà mi diletta. Ciò impone l'onestà, ciò impone il pudore. E' stolto chi non cela il suo piacere. Nessuno mai anche pazientando potrà scoprire i l'atti miei: potrà riferire che furon fatti, non come furon fatti. Amor comanda che si celino i suoi piaceri; non mi compiaccio se non sono segreti. Quando compio i fatti miei e son visto da un occhio solo, i fatti miei mi seno più graditi. Allora, a me- no che un asino mi tiri un calcio, nessuno mi può nuocere con la bocca, nessuno con la mano. Se amassi d'esser visto non fuggirei dalle piazze, non mi sottrarrei ai luoghi dipin- ti. Per vigneti e per canneti io moverei i miei passi a prima- vera, quando nuove gemme mette la natura. Amerei chi provoca guerre, chi arresta la pace, o Argo, o gli uccelli che per Argo una dea dipinse. Io non mi nutro di cose vane e inutili poiché non è ciò che faccio, non ciò che guardo che mi può dilettare. Io ne vedo molti che si nutron di fantasmi, e si compiacciono di saziarsi di vane apparenze. Cre<limi, co- storo son stolti, non conoscono i piaceri, essi che possono vivere di vento a modo dei lupi. Io non temo questi mille rivali : temerei quel solo che meglio sa tender insidie. Guar- dati da quelli che vanno soli, che tengono gli occhi a terra, da quei tali che tu potresti creder muti. Chi mai mi vide con


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Quis me cum socio videt unquam? semper in urbe

Solus 60, solus per fora perque vias: Et tamen hoc egi: quis credei? mille puellas

Pressi, quas castas forsitan esse putas. Raro solet magnis rebus se accingere, qui se

Jactat, et in cunctis dicit habere modum. Ardua qui loquitur, minimo solet ille timere;

Qui latrai, praedam non capit ore canis. Pinguibus, ora tenet, qui tendit retia turdis;

Neve pedes crepitent callidus arte locat. Crede mihi, pauci norunt bene vivere: nulluL

Me melius futuit, vel potiora facit. Non canis, aut ullus melius me calcat asellus,

Noeta mihi tenta est mentula, tenta die. Si mihi lusca venit, bene lusca fututa redibit;

Inveniamque oculum, si mihi caeca venit.


Vili


DE PALM ERA


ego quam bellum tempus sum nactus amicae,

Si Fortuna meo non nocet ulla bono! Non miror fulvam Crocsi non divitis arcam,

Alcinoique omnes dcspxiuntur opcs. Non ullum Occasus, non ulhim vidit el Ortus,

Qui mihi Igetitia se pulet esse parem. Det mare Nepiunus, Styga Pluto, Juppiter astra:

Mutarcm Superis non bona lecta tribus. Ilice ego si faccrem, possem bene slullus liaberi;

Qui bene stat, cavcat se removere loco. Divitias animus lajtus complectitiir omnes:

Non ullas animus fristis habebit opcs.


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un compagno? Io vado sempre solo in città, solo per le piaz- ze, solo per le vie: e tuttavia ecco quel che ho fatto: chi lo crederebbe? io mi sono godute mille fanciulle, che forse tu credi caste. Di rado suol compiere grandi imprese chi si van- ta e pretende di giungere sempre al segno. Chi si millanta ha paura anche delle minime cose: cane che latra non mor- de. Chi tende le reti ai pingui tordi non parla e astuto cam- mina con arte per non far rumore. Credimi: pochi sanno ben vivere. Nessuno f meglio di me e più di me. Né ca- ne né asino meglio di me. Notte e giorno io son pronto. Se la mia losca mi vien a trovare se n'andrà ben contenta, e se mi verrà cieca io saprò trovare il suo occhio.


Vili


PALMIRA


Ohi quanto son felice d 'esermi fatto un'amica se la for- tuna non cospira contro la mia felicità! Io non invidio le ric- chezze di Creso e disprezzo tutti gli averi d'Alcinoo. L'orien- te e l'occidente non hanno uomo piii felice di me. Se Nettu- no mi offrisse il mare, Plutone lo Stige e Giove il cielo io non cambierei la mia felicità coi beni dei tre dei. So io ciò £a«  cessi potrei a ragione esser reputato stolto: chi sta bene, si guardi dal cambiar posto. L'animo lieto possiede tutte le ricchezze: l'animo triste non ne possiede alcuna. Sono lieto


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Contentus sum sorte mea, nil amplius opto,

Nam mihi nil addi nilque duci potest, Si modo quod teneo non ullo tempore desit,

Si sit perpetuum perpetuoque fruar. Quam bene constitui vitam mihi, quamque beate,

Quilibet, ut vivat discat ab arte mea; Ut volo nunc potior placida et sine labe puella.

Qua nihil est melius, simpliciusque nihil. Credere non posses, quanto me observet amore,

Quantum amet, et quanta serviat illa fide. Nil capit haec a me, sed si quid porrigit alter,

Accipit, acceptum restituitque mihi. Detque mihi quamvis uni, dat ssepe cynedis

Hos mihi cum vidit supposuisse nates. Cumque tamen fessa est summittit saepe sororem,

Aut opus exercet juncta sorore soror. Rem quoque, cum volui, laxat, rursusque cohercet,

Seque parat cunctis ingeniosa modis. Hanc ego cum futuo, tum me futuisse per urbem

Omne genus, sensit femlna masve, puto. Concessa est illi fatis aeterna Juventus,

Quae data, Phoebe, tibi, qusì libi. Bacche, fuit. Illa ego, dum vivam, vivet, mecumque peribit,

Defecietque illi, cum mea vita mihi. Si surgo, surgit pariter; si dormio, dormit,

Saepeque dum jaceo, me fovet illa sinu. Surgentem vestit, nudatque cubare volentem,

Et latori juncta est nocte dieque meo. Et ponit mensas, coenamque ministrai, et omnes

Ad mea (nil sumit) porrigit ora cibos. Si quis erit nobis hostis, defendit ab hoste,

Nec sinit ut laedat, membraque tuta facit. Illa modo, prò me Superisque virisque minatur|

Pro me nunc Superos, nunc rogat illa viros. Haec et plura facit, sed nec narrare decebit,

Ut cito perfìciam, quo juvet illa modo.


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della mia sorte e non desidero di più. A me nulla si può ag- giungere e nulla togliere; se ciò che ora tengo non mi verrà mai meno e sarà eterno, in eterno godrò. Ciascuno, per vi- ver bene, impari da me come abbia regolato la mia vita e quanto beatamente io viva. Quando m accomoda mi godo una dolce e pura fanciulla, nulla v'è di ir.cglio, nulla di più puro di essa. Tu non potresti credere di quanto amor mi cir- condi, quanto essa mi ami e quanta fedeltà mi serbi. Essa non mi domanda nulla, se un altro le porge qualcosa l'ac- cetta e quel che ha ricevuto dona a me


II destino le ha concesso l'eterna giovinezza che fu data a te, o Febo, e a te, o Bacco. Ella vivrà fìnch'io vivo e peri- rà con me, la sua vita non Gnirà che con la mia. Se io mi alzo dal letto, anch'essa si alza; se dormo dorme e spesso mentre io giaccio essa mi riscalda. Mi veste quando mi alzo, mi sve- ste quando voglio andare in letto ed è al mio lato giorno e notte. Apparecchia la tavola, prepara la cena e alla mia boc- ca (senza essa prenderne) porta tutti i cibi. Se ho qualche nemico essa mi difende, non permette ch'io sia offeso e sal- vaguarda il mio corpo. Essa ora minaccia per me gli dei e gli uomini, essa per me prega gli dei e gli uomini. Essa fa anche altse cose ma non converrà dire, per finir presto, in


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Quis non invideat? quis non putet esse beatum?

Quis non ante homines ponat et ante Deos? Si quis erit facilis sensus mentisque capacis,

Ne mea divulget quae sit amica rogo.


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qual modo essa mi giovi. Chi non m'invidia? Chi non mi crede (elice? Chi non mi prepone agli uomini e agli dei? Se qualcuno, di spirito intuitivo e di mente sottile, ha compreso chi è la mia amica, è pregato di non dirne il nome.




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